Le nostre fanciulle/Parte Seconda/Il lusso
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IL LUSSO
La questione è una delle più complesse e gravi di quella scienza che chiamano economia politica, e che insegna il modo con cui la ricchezza si produce e si consuma da ognuno di noi a vantaggio della società.
Vediamo un poco che cosa è il lusso.
Il vocabolario ci dice senz’altro che «è la superfluità del trattamento di vita», mentre gli economisti tutti, premettono che è molto difficile definirlo, perchè per uno è lusso ciò che per un altro è necessario. È vero: ma quando si dice superfluità, non è forse facile immaginare che, pur mutando secondo i tempi, i paesi e le circostanze, rimane però sempre: «ciò che è al di là del bisognevole o del conveniente?»
I guanti sono un lusso per l’operaia mentre per noi sono una necessità; il letto elastico è d’uso generale nell’Alta Italia, mentre non lo è in Sardegna; gli spazzolini da denti e da unghie sembrano inutili al contadino, mentre sono oggetti indispensabili per le persone educate.
E in quanto ai tempi: chi non sa che i nostri nonni passavano l’inverno ne’ vasti saloni senza tappeti e senza stufe, ed ora il più piccolo bottegaio si riscalda almeno la stanza ove desina? E il cappellino, non era una volta il privilegio delle donne agiate?
Il bisogno di maggior comodità nella vita va sempre più diffondendosi, e le abitudini di eleganza si propagano come un contagio; ciò che una volta era riserbato ai ricchi, diventa a poco a poco d’uso popolare: le tende di mussola alle finestre, le poltrone, i portaritratti, le coperte di stoffa sui letti; il velo bianco, le carrozze nuziali, le corone di fiori e i monumenti funerari, la villeggiatura, sono ormai diventati una necessità, anche per gente di condizione umile.
Ma gli è, dicono tutti, che la ricchezza è cresciuta... È proprio vero? Non è piuttosto invece che la spensieratezza è diventata dote comune? Il non preoccuparsi delle proprie risorse, il non crucciarsi pensando all’avvenire è infatti così comodo! E a questo modo si pensa al superfluo e al piacevole prima che al necessario; si pensa anzi — lo diceva anche Franklin — prima di tutto agli occhi degli altri. Poichè il più delle volte è un lusso d’apparato, d’ostentazione più che di vero godimento e di comodità propria.
Frédéric Passy racconta di un vecchio il quale diceva a un giovane: «Mio caro, io ti darò una lezione di morale, che non è poi tanto severa. Anzi, forse non lo è abbastanza, ma tal quale è, potrà esserti utile. Non fare che quelle sciocchezze che avrai davvero voglia di fare; non farne per gli altri e vedrai che finirai col farne poche».
Invece molte ne facciamo, tutti, anche quelli che più si vantano di aver buon senso; tutti ci rammarichiamo ogni tanto della quantità di piccole spese che si potevano evitare e che assorbono metà delle nostre risorse: alla fine di ogni mese ogni padrona di casa, rivedendo le proprie spese, fa dei seri proponimenti, e ogni mese trova d’avervi dovuto rinunciare purtroppo, con la scusa che non si poteva tralasciar di far questo per il mondo, che non si poteva a meno di far quell’altro per gli occhi della gente. Ed è appunto questo lusso, che non appaga in fondo chi lo fa, che non dura e non lascia traccia che nel bilancio, e non è che pompa e sciupìo, è questo, che l’economia, come la morale, condannano.
«Ma come! — si dice comunemente: — Se i ricchi non spendessero, i poveri morirebbero di fame; sono le prodigalità dei ricchi che fanno vivere i poveri; il lusso e la moda tengono in piedi le industrie».
Quante frasi fatte, e come è facile udirle anche sulla bocca di gente istruita! Eppure basta rifletterci un poco per accorgersi che quelle frasi hanno un senso volgare che «fermandosi alla corteccia, non penetra nel midollo dei fatti», come disse il Minghetti.
Poichè occorre avanti tutto guardare a che e a chi è utile questo lusso, e se i ricchi non spendono più di quello che i poveri non mangino. È facile vederlo; una gran parte di ciò che si spende in lusso è precisamente sciupato; è profumo che delizia e svapora, e non appaga — quando appaga — che noi stessi; serve a comodo e piacere individuale momentaneo, e non è di utilità a nessun altro.
Non pigliamo la società nel suo complesso: diamo un’occhiata vicino a noi, e, ripeto, guardiamo come ciascuno di noi spreca improduttivamente delle somme che, risparmiate, potrebbero poi essere spese in un modo utile, con un risultato durevole, impiegate cioè in acquisti produttivi, in spese di educazione e di cultura, a pagare salari, ad aumentare davvero il benessere di chi lavora per noi o quello della nostra famiglia.
La moda, che alcuni chiamano la legge del lusso, e che io chiamerei invece il disordine del lusso, passa come un vento capriccioso sul bisogno di spendere, e fa spendere affrettatamente e male, in cose inutili che pochi mesi dopo non serviranno e non piaceranno più. Essa impedisce così il lusso artistico dei tempi andati, in cui si spendeva, è vero, un piccolo capitale in un abito, ma quell’abito passava da una generazione all’altra; in cui si facevan dipingere le pareti da artisti, ma quelle pareti noi le ammiriamo ancora, e sono il godimento intellettuale di milioni d’uomini. La moda è invece spesso infeconda, perchè oggi favorisce un’industria che domani dovrà lasciare posto ad un’altra; o butta a terra improvvisamente queste due per crearne una affatto nuova, attirando ad essa denaro e lavoro: molte volte a danno di altre che sarebbero più serie e più utili a maggior numero di persone. Ed è quindi naturale che non s’impieghi in questi lavori che devono aver una vita di pochi mesi un materiale durevole e una importanza artistica che sembrerebbero sciupate.
* * *
Per un grande matrimonio americano, due o tre anni fa, furono spese, a quanto raccontarono i giornali, centinaia di migliaia di lire in fiori, per ornare il palazzo, lo scalone, l’atrio, la chiesa, le carrozze.
È vero che lavorarono squadre di uomini per raccoglierli e collocarli nelle cassette e nelle paniere, e lavorò la ferrovia per trasportarle, e altra molta gente per ornare il palazzo e la chiesa; ma fu un lavoro tutto precario, una spesa vana.
Se quei denari fossero stati impiegati, supponiamo, a creare un giardino, ecco che gli uomini avrebbero ugualmente lavorato, e gli alberi crescendo, sarebbero diventati un valore, oltrechè intiere generazioni avrebbero goduto del vantaggio morale di un luogo ameno; non vi pare? «Non sono da reputarsi improduttive, ma al contrario utilissime quelle spese che rallegrano e ingentiliscono la plebe», scrisse ancora il Minghetti ricordando i divertimenti pur così fastosi dei ricchi del Rinascimento d’Italia, ch’erano sorgente di piacere al popolo.
Volete un altro esempio? Le corse di cavalli, questa chiassosa e insolente ostentazione di abitudini signorili e di lusso, è scusata da certuni colla parola: è tutto commercio. Commercio utile? commercio benefico? commercio nazionale? no, perchè nulla rimane, no perchè demoralizzante, no perchè fra bardature, cavalli, fantini, bookmakers e premi, sono centinaia di migliaia di lire che vanno all’estero. È quindi uno dei lussi che costano più che non producano, uno di quelli incomprensibili per l’economista come per il moralista.
Paul Leroy-Beaulieu, scrive: «Lo scopo della ricchezza non è il lusso. Può essere un accessorio perfettamente lecito, legittimo, anche onorevole se volete, a parte gli abusi, ma non si deve diventare ricchi unicamente, nè principalmente, per vivere con sontuosità, delicatezza ed eleganza. La fortuna, vale a dire la ricchezza, concentrata in grado elevato nelle mani di un uomo, ha una missione, una funzione sociale che tiene della sua natura stessa, e che da sola ha il potere di ben adempiere».
Ben disse dunque un altro economista francese, il Droz: «L’economia politica è il più potente ausiliario della morale».
Ma senza bisogno di citare i francesi, ascoltiamo ciò che lasciò scritto uno dei nostri più grandi economisti, Luigi Cossa: «L’economia politica dimostrando il vantaggio anche materiale che deriva dall’esercizio di certe virtù, come sono l’operosità, la previdenza, il risparmio, ed accennando inoltre i danni economici di certi vizi, come sarebbero l’ozio, l’imprevidenza, la dissipazione, e quelli ancora maggiori che provengono da alcune istituzioni che ripugnano alle leggi della morale (la schiavitù, il 170 II lusso servaggio, la guerra, ecc.), viene ad aggiungere un argomento praticamente assai persuasivo ed efficace sull’animo di coloro che non sono sufficientemente convinti dei principî filosofici, nè si sentono bastevolmente inclinati ad obbedire al sentimento del dovere».
Certo è difficile il giudicare la prodigalità come un difetto e l’economia come una virtù: la prima è molto più simpatica, poichè il prodigo mette a parte gli altri de’ suoi godimenti. Noi lo giudichiamo anzi generoso, mentre non è che un egoista socialmente parlando. Chi risparmia — perfino l’avaro stesso tanto antipatico — ha, agli occhi dell’economista, il merito di non distruggere. «Il non uso di certi beni, dice il Cossa, è un male minore della distruzione». E Adamo Smith anch’egli ha severe parole per il prodigo e lo chiama: «...l’erede indegno che getta al vento le ceneri de’ suoi padri e leva di bocca ai suoi contemporanei gli alimenti preparati per essi dalla previdenza de’ suoi antenati».* * *
Poichè abbiamo parlato dei rapporti dell’economia politica colla morale, vediamo un poco se non c’è qualche cosa che interessi specialmente le signorine. Già altre volte ebbi occasione di dire dell’immoralità ch’è tutta quell’esposizione di ben di Dio o più esattamente, degli uomini, — nelle vetrine dei negozi, e di quella del lusso delle signore per la strada — un vero insulto alla miseria, alla nudità, alla fame.
Una signora veramente per bene, non fa sfoggio per la strada di colori e di stoffe costose: lascia questa volgare ostentazione a chi non ha educazione pari alla ricchezza: lo sfarzo nelle signorine è poi, per altre ragioni, poco morale. Alcune lo sentono nella loro delicatezza senz’essersene mai reso conto; elevate e fini, comprendono che v’è qualcosa di più squisito della ricchezza e hanno trovato modo di vestirsi con suprema eleganza attingendone il segreto alla semplicità e alla linea artistica.
In molte, il sentimento che le fa vestire così ha radice nel fondo d’onestà che rende loro repugnante il fare sfoggio di un lusso che non costa loro nessuna fatica, ma costa invece ai loro babbi lavoro e preoccupazioni. Nulla di più giusto di un bel vestito nuovo che una ragazza si acquista col frutto del suo lavoro; nulla di più umiliante dello sfarzo di quella che non ha dato il minimo di fatica per meritarselo. Non c’è bisogno di lavorare materialmente per riuscirvi; molte fanciulle dànno oggi l’esempio del come si possa e si debba usare della posizione fortunata nella quale si trovano, e possono dire con che maggior gaiezza si abbandonano ai godimenti che procura loro il denaro, poichè hanno acquistata la coscienza di non essere una ruota inutile della società.
I privilegiati — si chiamano oggi i ricchi — e davvero è grande e degno d’invidia il privilegio di poter creare il benessere di molt’altra gente, di poter, fra molti piaceri della vita, scegliersi i migliori, i più elevati, i più nobili.
Cesare Beccaria, in un suo giovanile studio di economia pubblica, poco conosciuto, esalta la bontà intrinseca della ricchezza e la mette a paro a quella della libertà e dell’istruzione: tutte e tre pericolose però, se disgiunte dalla moralità.
La ricchezza bene adoperata, aumenta il valore degli uomini e delle nazioni, educa il popolo al rispetto dell’altrui fortuna, diffonde l’ammirazione della bellezza, porta le nazioni a una prosperità reale e le eleva moralmente.
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