Le notti romane/Parte prima/Notte seconda/Colloquio VI
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COLLOQUIO SESTO
Pomponio biasima i trionfi
e quindi muove dubbi contro Lucrezia che tacendo li conferma.
A tale interrogazione si commossero le turbe come se avessero
udita empia sentenza. Il Dittatore, e Bruto, e Antonio, e quante
larve illustri circondavano Pomponio, lo rimirarono con pupille
rigorose. Il saggio Tullio ascoltava senza ira il libero discorso
dell’antico fautore de’ studi suoi. Declinava bensí alquanto verso
l’omero la testa, e tenea gli occhi dimessi con placido contegno
alla terra. Né l’Attico ragionatore si perturbò per quel fremito
repentino, anzi vie piú animoso, in questa guisa continuò:
— Quanta fu la soavitá de’ miei costumi nella vita, altrettanta or sia la severitá de’ miei giudizi in morte. Io quindi ripeto senza sdegno e senza timore che fu crudele e soverchiante quella pompa con la quale, come se fosse abbominevole, ogni reai diadema veniva schernito dagli oltraggi plebei. Eppure i legati, i capitani, i consoli nostri, se rimasero talvolta prigionieri de’ nemici, non furono da quelli con alcuna celebritá umiliati. Nostro è quindi il pregio di cosí trista invenzione. Ma chi fummo noi, i quali squarciando le reali porpore e calpestando le corone, ardimmo chiamarci domatori de’ tiranni? Fummo distruggitori di nazioni valorose ed innocenti; fummo depredatori insaziabili di splendide regioni. Traemmo in catene i re di antica progenie, illustri, bellicosí, grati a’ loro popoli, per queste vie. Eglino s’inoltravano per quelle fra’ tumulti del volgo con umili palpebre e con lento passo: scorreano dal ciglio, poc’anzi maestoso, lagrime d’ira. Le meste consorti, i loro figliuoli, speranza delle nazioni sottoposte, accompagnavano sospirando il monarca divenuto servo della superbia romana. Quindi la sua reggia si cangiava in carcere, il suo scettro in ceppi, la sua gloria in obbrobrio, la sua stirpe in esecrabili malfattori. Ma forse noi cosí premendo col piè la cervice reale, sgravammo i popoli di alcuna fiera tirannide per farli piú liberi e piú felici? Le vinte nazioni, per lo contrario, deploravano la indegna sorte del monarca loro. Né, al certo, i proconsoli nostri le consolavano di quella sciagura. Avvegnaché quant’essi erano stati nella conquista avidi del sangue, tanto poi nel governarle erano insaziabili di oro. Questa fu la sorte della Sicilia, dell’Affrica, della Grecia, della Iberia, della Gallia, e di quanti altri regni furono da noi distrutti: i quali, poiché perderono i principi loro, caddero sotto le concussioni de’ patrizi romani, per lingua, per indole, per consuetudini alieni, e di niun’altra cosa piú solleciti che di presto divorare. In Roma stessa noi medesimi, ora schiavi ora tiranni, fummo pure a vicenda agitati fra le oppressioni del Senato e gli oltraggi della plebe. Né giá il nostro odio per la reai podestá scaturí da chiara fonte, ma da impura. Quindi corrisposero gli indegni e barbari effetti alla sua trista cagione. E quale altra essa fu mai se non il caso di Lucrezia, invero non sufficiente a destare cosí implacabile vendetta? Non siete voi quelli i quali non una, ma settecento donne violaste regnando Romolo? Or come vi dovea cosí irritare contro il figliuolo del re vostro un delitto assai minore di quello de’ vostri maggiori? Ecco per querele femminili eccitarsi in voi forsennata ira contro la regia maestá, schernirla, abbominarla, perseguitarla. Oh popolo sagace, il quale credesti ad una adultera lagrimosa, che narra essere stata nel silenzio notturno soggiogata da’ violenti amplessi di un solo, quasi egli fosse un gigante Briareo! Oh popolo giusto, il quale scaccia il reai genitore non consapevole, non lodatore della dubbiosa avventura! —
Come un turbine improvviso nel mare ne commove i flutti, cosí gli spettri, i quali ascoltavano placidi, allora ondeggiando fremettero quasi vento nelle querce. Apparve intanto una larva di aspetto femminile, che involta in candido velo, correa bramosa di muovere tumulto col pianto e con atteggiamenti dolorosi. Ella ora si immergeva nella frequenza delle ombre, ora ne usciva come luna fra le nubi. Quando aprendosi il volgo da lei perturbato, ella rimase nel mezzo distinta, e si fermò. Le sue leggiadre forme trasparivano dal velo, che le scendea a’ piedi, come rosa involta in nebbia mattutina. Ma repente lo squarciò per nuovo impeto di sdegno. Apparve il candore de’ ben composti omeri e il seno palpitante, sul quale però con la destra ella rattenne, con verecondo pentimento, il velo scompigliato, gran parte della immagine sua lasciando manifesta. Ella declinava le stillanti palpebre. Stavano le angosce nella fronte, dalla quale cadeano folti capelli d’oro sulle membra di latte. Ahi che la bellezza dolente empieva il cuore di gelo! Io mirando quella, giá sentiva scorrermi per le fibre il ribrezzo della dolce pietá, quando fui mosso da bisbiglio comune che ripetea il nome di Lucrezia.
Pomponio non perturbato da quel tumulto, né dalla fama di tanto generosa donna, fattosi a lei vicino, cosí intrepidamente favellò: — O celebrata consorte di Collatino, non ti sdegnare per le mie congetture sulla tua vicenda, perché non derivarono da odio verso te, ma dalla brama del vero. Ornai tu stessa puoi manifestarlo dopo tanti secoli d’incerte opinioni. —
Allora la donna alzò la fronte sconsolata, ed a lui che la interrogava fiso le pupille dolenti. Anelava, palpitava, parea che l’angoscia affogasse nelle sue fauci la voce. Un mesto silenzio regnava intanto nell’aere, perocché le turbe in gesti di stupore aspettavano da quella parole maravigliose. Cosí pendono gli uditori quando un esperto musico sta per muovere il canto. Pur la donna continuava in quell’affanno come non potesse favellare, o fosse dubbiosa quale delle molte parole, che si affollavano alle labbra, ella dovesse tacere o pronunziare. Alla fine declinò il mento sul delicato petto in umile contegno, e come stanca di dolore sopra una tomba si abbandonò. La speranza di udirla fu allora non che delusa, ma spenta, onde Tullio ruppe quel silenzio cosí: — Io non so. Attico mio, perché ora qui ti compiaci di offendere costei con austere parole, mentre elle cosí dolci scorreano dalle tue labbra fra noi. Certo che degli oltraggi sofferti da lei non vi sono testimoni che le tenebre ed il silenzio; pur la magnanima pena ch’ella a se medesima sentenziò dimostra la innocenza sua. Non il talamo, non i pensieri furono contaminati dalla reale dissolu tezza: le membra sole soffersero quella villania. Nelle quali questo pudico spirito sdegnò poscia di abitare siccome profanate. Vedi l’ampia ferita nel florido seno, casto ricovero di pargoletti figliuoli. O ferro che l’hai squarciato, non sarai tu sufficiente ad atterrire la calunnia? —
Attico rispose: — Quantunque sia audace proponimento il garrir teco, o padre della romana facondia, nondimeno le umane cose alfine qui ci è permesso di giudicare senza l’inciampo delle timide opinioni. E siccome tu non difendesti, co’ maravigliosi artifici della eloquenza, soltanto gl’innocenti, ma anco i rei, cosí ora qui favelli di causa dubbiosa decisivamente. Io però Ubero ti affermo che inverisimile avventura narrò costei. — Marco Bruto udendo quella sentenza si attristò, ricordevole che Giunio, dal quale scendea, trasse il pugnale ancora stillante dal seno di lei e promosse la altera e memorabile vendetta. Ma l’Attico soggiunse:
— Avvegnaché essa non fu giá minacciata di morte, per quanto ella narrava, dall’amante crudele, in deserta solitudine in cui risonassero vanamente le sue querele, ma nella coniugale abitazione, di servi e di congiunti piena, e secondo la semplicitá di que’ tempi, angusta. Avesse pur l’atroce Sesto minacciato di porre accanto a lei ucciso uno schiavo, ignominiosa prova del suo delitto: nondimeno è manifesto che tale eccesso era malagevole ad eseguirsi quanto facile ad impedirsi con alte e disperate grida. Mi duole quindi per la fama di costei ch’ella in quell’odioso cimento fosse persuasa non potere in miglior modo sottrarsi alla infamia, se non recandosi alle voglie del drudo. Mirabile docilitá in castissima donna reprimere non solo gl’impeti delle difese, ma quelli della voce in cosí molesto conflitto! Mirabilissima deliberazione contaminare il talamo, e poi lavarlo col proprio sangue! Né giá fu il reai giovane spiacevole e scellerato, ma leggiadro e valoroso. Da lei fu cortesemente accolto, con lei sedette a cena gioconda, dopo la quale fu scortato da’ servi nelle stanze ospitali. Oh tua semplicitá fanciullesca, per cui albergando tu quell’ospite, negli occhi del quale dovea la scaltrezza femminile conoscere i bramosi pensieri, pure non chiudesti il talamo, non avesti prossima alcuna ancella, talché l’insidiatore notturno, come il piú desiderato amante, venne con aperto ingresso all’ara della tua fede mal custodita da fragile virtú! —
Bruto allora proruppe: — Dunque perché svelò con infamia ciò ch’ella potea negare con decoro, e nascondere con grata im punitá? V’è piú stolta deliberazione quanto il muovere tumulti mortali contro l’amante suo? Dessa pure, e non altri, fu l’accusatrice spontanea di se medesima, e la instigatrice di vendetta contro il perfido violatore. Che s’ella fosse stata men forte contro gli amplessi del giovane lusinghiero, qual piú inverisimile demenza che accusarsi, uccidersi, mentre amor solo tacito e sodisfatto era consapevole de’ notturni segreti? —
Pomponio cheto rispose: — Sanno quelli che vissero in quella etá che Sesto era giovane millantatore, il quale anzi che nascondere le vittorie amorose, indegnamente le vantava. È pur noto per le storie ch’egli intraprese di espugnare la virtú di costei per beffarsi di Collatino, che la decantava per unica ed invitta. Quindi il giovane, fastoso per quel difficile trionfo, anelava farlo manifesto in derisione del credulo consorte. Poiché alla donna pertanto si dileguò dall’intelletto la ebrezza delle ignominiose delizie, conobbe ch’ella era sul margine di un abisso, e deliberò morire illustre con menzogna, anzi che aspettare l’inevitabile ed infame castigo. —
Allora Bruto si volse a quella ed esclamò: — Tu che in vita svelasti con parole dolenti la occulta ignominia, perché non parli in morte, e non pronunzi ornai tale sentenza che renda muti i tuoi detrattori? — Ahi vidi a questo invito grondar lagrime dalle sconsolate pupille di lei, la quale tergendole col velo, ricoperse di poi con esso le sembianze tutte, come le sottraesse a molesto rossore. Afflitta quindi sedè sulla terra, nascose il volto con ambe le mani, e lo declinò alle ginocchia in misero contegno. Le spettatrici larve si guardavano scambievolmente con maraviglia per quel silenzio, e Bruto soggiunse con voce pietosa: — Te infelice se fosti innocente, ed ora sei per ignoto destino priva di loquela, onde soffri il nuovo oltraggio delle accuse, né puoi vendicarlo con libere difese! — Ella ciò udendo risurse affannosa, e parea appunto consentire di essere muta per celeste decreto. Per la qual cosa Bruto confortandola conchiuse: — Se mai fosti fragile nel talamo in quella notte per sempre dubbiosa, magnanima divenisti il giorno susseguente, e ti puoi vantare di avere fondata col forte esempio la nostra libertá. — Mentre egli con ricreanti parole proseguiva narrando l’esilio de’ re, la gloriosa vendetta e le illustri vicende posteriori, quella ascoltando mostrava gli occhi giá lieti e meno trista la fronte, come all’alito di zefiro si rasserena il cielo. Quindi ella sparve lasciando gl’intelletti quanto prima incerti della sua fama. Garrivano pertanto le turbe in sentenze diverse per quella avventura sulla quale si distendea la caligine del tempo e l’impenetrabile silenzio di amore.
Ma giá le stelle impallidivano e la sonnifera oscuritá si dileguava innanzi la surgente aurora. Io sepolto in quella profonditá, certo non vedea quella costante vicenda per la quale si alterna l’ombra e la luce alla terra. Ma come in chiusa nave, mirando la tendenza del magnete, il nocchiero distingue la via; cosí io pur veggendo gli spettri ondeggiare dubbiosi, quindi mancar loro la voce, e finalmente svanire per l’aere, fui certo che i raggi diurni loro negati giá dominavano in cielo. Uscii dunque fuori barcollando, né mi parve essere veramente in vita, se non quando respirai al rugiadoso alito della aurora, e fui confortato da’ soavi garrimenti degli augelli. Essi lieti per quello splendore infon devano con gioconde e varie cantilene una amorosa dolcezza nel cuore, che in udirle si dilatava, e insieme l’intelletto abban donava le sue cure in una languida obblivione.