Le nuove forme dell'abitare
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Se volgiamo lo sguardo al territorio che ci circonda, notiamo che i vecchi concetti di “urbano” e “rurale” non hanno più senso. Con la globalizzazione non solo le città ma anche le campagne si sono deterritorializzate. Nelle zone più interne dell’Appennino intere comunità rischiano di perdere ogni possibilità di sopravvivenza economica e culturale, perché non c’è più protezione sociale per loro: non ci sono più scuole, presidi sanitari, uffici postali, mezzi di trasporto pubblico. Nelle pianure del Sud ad agricoltura intensiva interi territori sono privi di comunità e un caporalato totalmente in mano ad organizzazioni malavitose internazionali ha assunto le forme agghiaccianti dello schiavismo ai danni degli immigrati. Nelle aree periurbane non si addensano più soltanto le “villettopoli” dei ricchi e i tuguri dei nomadi, ma anche le abitazioni delle persone che rifuggono l’impazzimento delle città e ricercano in attività agricole di prossimità una seconda chance per dare un senso alla propria esistenza. Ad esse si aggiungono le abitazioni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri, che pur lavorando saltuariamente hanno perduto l’indipendenza economica e sociale. Dovremmo usare espressioni ibride come “campagne urbane” o “montagne dotate/deprivate di comunità” o ancora “sistemi locali rurali post-industriali”, o addirittura “bidonville agricole” per descrivere quello che una volta era genericamente rurale o urbanizzato. Ma permangono ancora, aldilà di ogni evidenza, impostazioni culturali urbanocentriche che relegano le campagne a spazi di riserva da utilizzare alla bisogna da non programmare e pianificare così come si fa per le altre aree della città e, dunque, da non consumare neanche nelle forme dell’abitare che sono proprie delle campagne urbane.
E’ stato un siffatto approccio, che trascura completamente gli aspetti sociali di territori né rurali né urbani, a produrre negli ultimi decenni, in modo subalterno agli interessi speculativi, la marmellata insediativa e lo sbrodolato cementizio che deturpano ad esempio l’hinterland di una città come Roma. Dagli ambienti della politica, della cultura urbanistica e dell’economia edile ancora nessuna autocritica di un certo rilievo è stata finora prodotta per questo scempio, quasi che il sacco del territorio non fosse ancora colmo. La qualità della vita delle nostre città si è notevolmente abbassata; e a seguito della crisi economica il disagio si avverte in modo profondo. Ma nell’attuale configurazione di poteri, funzioni e relazioni è illusorio pensare di ritornare ad una mitica età rurale, anzi ci sarà un’accelerazione del salto tecnologico verso traguardi che noi nemmeno immaginiamo. L’interazione tra tecnologia e mercato è, infatti, un motore potente che assicura una sorta di rivoluzione permanente.
L’irreversibilità del percorso non deve, tuttavia, spaventarci perché non è la sua inarrestabilità l’origine delle crisi odierne: economica, energetica e climatica. L’errore è stato di aver pensato che non fosse possibile introdurre elementi di razionalità nel processo. E dunque ci siamo estraniati da esso rinchiudendoci nei localismi incorruttibili e nei saperi nostalgici o erigendo facili quanto illusorie trincee nel tentativo di combattere una siffatta traiettoria.
E’ giunto il momento di riprenderci la funzione di progettare lo spazio del nostro abitare. Se un ritorno a qualcosa va perseguito, questo non può essere altro che il recupero dell’idea di doverci dotare di una rinnovata visione riformista in grado di produrre più conoscenza scientifica e politiche di medio-lungo periodo. Lo dobbiamo fare però non combattendo donchisciottescamente contro la “città” e i suoi potentati per crearci uno spazio “altro”, ma assumendo la nuova dimensione “urbano-rurale”, che è il nuovo mondo e l’insieme delle sue risorse, dei saperi scientifici e di quelli contestuali, come terreno del nostro agire. Non si tratta di abbracciare il vecchio e inservibile cosmopolitismo da “siamo tutti cittadini del mondo” ma di fare i conti con le nuove paure, le insicurezze e i disagi della modernità, diffusi in modo impressionante nelle odierne società, perseguendo un benessere non meramente consumistico ma inteso come ricerca di un senso da dare alle nostre vite e alle nostre capacità e come esito di più conoscenza, più mobilità, più cura dei giovani, più inclusività.
La lingua tedesca chiama con la medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare. “Agricoltura” e “costruzione” hanno lo stesso termine: Ackerbau; “contadino” ed “edificatore” hanno un comune modo di dire, Bauer, e l’antica radice Buan significava “abitare”. Per governare un territorio, non più urbano né rurale, e abitarlo in modo consapevole, dobbiamo ritornare ad unificare tutti questi significati e riconoscerci come costruttori e manutentori dei paesaggi che abitiamo. Si tratta, in sostanza, di riprogettare i territori come processo di autoapprendimento collettivo e di edificazione di un nuovo welfare, di sviluppare più conoscenza scientifica, integrandola con saperi locali da riscoprire e rivitalizzare, di rinunciare alla concezione antropocentrica oggi dominante in tutto l’Occidente, riconoscendo la finitudine umana, e di dotare la politica e le istituzioni di un ruolo europeo e planetario per introdurre più regole nell’economia reale e non in fantomatiche “altre” economie, contribuendo a razionalizzare i problemi globali.
- Alfonso Pascale