Le odi e i frammenti (Pindaro)/Odi per Locri Epizefiria/Ode Olimpia X

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Ode Olimpia X

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Olimpia X
Odi per Locri Epizefiria - Ode Olimpia XI Odi per Cirene - Ode Pitia IX
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ODE OLIMPIA X

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Fu dunque scritta con ritardo, per celebrare la vittoria riportata da Agesidamo, figlio d’Archèstrato, il 476, nella gara pugile fra giovinetti. Ecco il piano:

«Ho tardato a sciogliere la mia promessa; ma pagherò adesso con tal frutto, che Agesidamo abbia a lodarsi di me (v. 1-14). Nella gara in cui pur vinse, Agesidamo da principio ebbe la peggio, e si fece indietro, come, del resto, avvenne una volta anche ad Eracle, quando ebbe ad azzuffarsi con Cigno. Ma poi, il suo maestro Ila lo esortò e spronò, sì che egli tornò al cimento, e vinse. Ad Ila dev’essere perciò riconoscente, come Patroclo ad Achille, che gli die’ le proprie armi, e lo incorò alla pugna. Del resto, Ila ebbe buon giuoco, perché Agesidamo era di buona razza» (v. 15-24).

Mito: la fondazione dei giuochi olimpici. Eracle aveva compiuta, per Augea, re degli Epei, la notissima fatica di nettargli le stalle. Quando andò a chiedere la mercede, Augea oppose un rifiuto. Eracle gli mosse contro con un esercito; ma Cteato ed Eurito, i figli di Molione, tesagli una imboscata nell’Elide, lo sconfissero. Ben presto Eracle tornò alla riscossa; e, uccisili sotto Cleona, prese e distrusse la città d’Augea: il quale non sopravvisse alla rovina della patria, ma uscí di senno e morí. Eracle spinse allora l’esercito nell’Elide, e qui, in Pisa, fondò i giuochi olimpici (v. 25-59).

Al primo agone olimpico assistevano le Parche e il [p. 178 modifica]Tempo: e Pindaro ricorda i nomi dei vincitori nei singoli certami (v. 60-89).

Pindaro canterà la gioia della vittoria, ché chi compie opere belle, e poi non trova un poeta che le canti, è come chi abbia accumulate ricchezze, e non abbia un figliuolo a cui lasciarle. Ma tale pericolo non corre Agesidamo. Lo canta Pindaro, che l’ha veduto coi propri occhi trionfare in Olimpia (v. 90-120).

Poche ed agevoli sono le arditezze metaforiche di questa ode, che con la breve, ma efficace evocazione delle gare, quasi unica nell’opera di Pindaro, ci aiuta a ricostruire un po’ quell’aureola, oramai priva di raggi, che agli occhi degli antichi circondava la suprema festività olimpica.


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AD AGESIDAMO DI LOCRI EPIZEFIRIA

VINCITORE NELLA GARA PUGILE TRA GIOVINETTI IN OLIMPIA


I


Strofe

Additatemi il figlio d’Archèstrato
che vinse in Olimpia, in qual punto
scritto è di mia mente: ché un canto soave gli debbo, ed oblio
men colse. Su, Musa, e tu, figlia
di Zeus, Verità, con la giusta
tua mano tien lungi l’accusa
ch’io sia frodolento con gli ospiti.


Antistrofe

Da lontano giungevano i giorni
futuri, e crescea la vergogna
del debito grande. Ma il frutto può sciogliere il biasmo, pur grave.
Non vedi tu come l’ondare
dei flutti trascina i lapilli?
Cosí pagheremo la lode,
in guisa che grato ei ci resti.

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Epodo

Lealtà fra le mura dei Locri Zefirî dimora. A Callíope
si volgono pure, ed a Marte
precinto di bronzo. La possa di Cigno
fe’ volger le piante perfino ad Alcide saldissimo.
Se vinse in Olimpia Agesídamo
fra i pugili, ad Ila
sia grato, sí come
Patroclo ad Achille.
Chi tempera l’uomo d’innata virtú,
potrà, con l’aiuto del Nume, sospingerlo a gloria infinita.


II


Strofe

Senza stenti, ben pochi conseguono
la gloria, ch’è luce suprema
del viver. Di Giove mi spinsero le Norme a cantare l’altissimo
agone, cui presso alla tomba
vetusta di Pèlope, Alcide
fondò con sei are, quand’ebbe
ucciso il figliuol di Posídone,


Antistrofe

l’impeccabile Ctèato, ed Èurito,
per tòrre ad Augèa reluttante,
a forza il dovuto salario. Sottessa Cleona, li attese
fra macchie imboscato, e li uccise.

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Ché quelli, i superbi Molíoni,
già pria, ne’ recessi appiattati
dell’Èlide, aveano sconfitto


Epodo

le tirinzie sue schiere: né corse gran tempo, che il re degli Epèi,
Augèa, frodatore degli ospiti,
la patria opulenta sua rocca mirò
tra furia di fiamme, tra colpi di ferro, piombare
in tramite cupo di strage.
Lottar coi piú forti
possibile cosa
non è. Poi che vide,
pel poco suo senno, distrutta la patria,
soccombere anch’ei dovè, l’ultimo, all’orrido fato di morte.


III


Strofe

E il figliuolo gagliardo di Giove,
in Pisa l’esercito tutto
sospinto, e le prede, a suo padre fe’ sacro quel bosco. De l’Alti
il nitido giro segnò
coi limiti infissi; e nel mezzo
il luogo per l’epule pose,
d’Alfeo le fluenti onorando

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Antistrofe

con i dodici Numi sovrani.
E Cronio quel colle chiamò.
Ché già senza nome, mentre era sovrano Enomào, da tormente
di neve coperto sempre era.
E a questo primissimo rito
le Parche assisterono, e il Tempo,
ch’è giudice solo del vero.


Epodo

E col tempo, ben chiaro si vide qual dono fu il suo, dei trofei
di guerra, che offerse su l’are,
scegliendone il fiore: qual gaudio di festa
fondò quinquennale, insiem con la prima olimpiade,
coi premî dei ginnici ludi.
Chi primo ebbe dunque
il súbito serto,
per forza di mani,
di piedi, di cocchi? Chi primo la lode
poté col trionfo, e la fama, con l’opra, rapir negli agoni?


IV


Strofe

Trionfò ne lo stadio, lanciandosi
a corso diritto, il figliuolo
Eòn di Licimnio, venuto coi suoi da Midèa. Ne la lotta
Echèmo, e fe’ onore a Tegèa.
Del pugile gioco la meta

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Doricio Corinzio toccò.
E Samo, figliuol d’Alirozio,


Antistrofe

da Mantinea, con quattro cavalle.
Al segno pervenne di Fràstore
il dardo. E rotando la mano, scagliò piú lontano di tutti
Nicèa la gran pietra: gli amici
levarono altissime grida.
Calava la sera; e la luna
raggiò la sua placida luce.


Epodo

E suonò tutto il sacro recinto di canti, di feste gioconde,
di riti d’encomio; ed anche ora,
seguendo l’origine prisca, diremo
la gioia dell’inclita vittoria; diremo il fragore
del tuono, ed il dardo vibrato
da fiammea mano,
il rutilo folgore
rombante di Giove,
che con la sua forza soggioga ogni forza:
e al suono d’armonici calami si mescano i cantici molli


V


Strofe

che già presso all'acque di Dirce
suonarono. Or, come un figliuolo
legittimo è caro al mortale che va per la via che dilungasi

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dagli anni piú giovani, e il seno
gl’infiamma d’amor: ché odïosa
all’uom presso a morte è ricchezza
che spetti ad erede straniero,


Antistrofe

cosí pure, chi compie, o Agesídamo,
belle opere, e all’Ade giú scende
ignoto a le Muse, con vano travaglio concesse a sue pene
efimero gaudio. Te il flauto
soave e l’armonica lira
cospergon di grazia. Le Piéridi
per te nutron celebre gloria.


Epodo

Di lor zelo partecipe anch’io, la nobile gente di Locri
cantai, cospargendo di miele
la loro cittade, che albergo è di prodi.
L’amabile figlio d’Archèstrato lodai: ché lo vidi
con valida man trionfare
vicino all’altura
d’Olimpia in quel giorno.
Bello era d’aspetto:
ed era negli anni che già Ganimede
schermían, col favor della diva di Cipro, dal fato di morte.