Le piacevoli notti/Notte XIII/Favola XII

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Favola XII

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FAVOLA XII


Guglielmo Re di Bertagna aggravato d’una infermità, fa venir tutti e’ medici per riaver la salute e conservarsi sano. Maestro Gotfreddo medico, e povero, li dà tre documenti, e con quelli si regge, e sano rimane.


Bennati anzi divini si suoleno giudicar coloro che con effetti si guardano dalle cose contrarie e col giudicio naturale si accostano a quelle che di beneficio e giovamento li sono: ma rari per l’addietro s’hanno trovati e oggidì pochi si trovano, che una regola nel loro vivere vogliono osservare. Ma altramente avenne ad uno Re, il quale, per conservar la sanità prese dal medico tre documenti e quelli osservando si resse.

Penso, anzi mi rendo certo, graziose donne, che mai non abbiate inteso il caso di Guglielmo re di Bertagna, il quale a’ tempi suoi, nè in prodezza, nè in cortesia non ebbe il pare, e mentre ch’egli visse, sempre li fu la fortuna favorevole e propizia. Avenne che il re gravemente s’infermò: ma essendo assai giovane e di gran coraggio, nulla o poco estimava quel male. Or continovando l’infermità, e di giorno in giorno [p. 282 modifica]facendosi maggiore, divenne a tale, che quasi non più vi era speranza di vita. Laonde il re ordinò che tutti e’ medici della città venissero alla sua presenzia, e liberamente dicesseno il lor parere. Intesa la voluntà del re, tutti i medici di qualunque grado e condizione esser si voglia, andorono al palazzo regale, e dinanzi al re s’appresentarono. Tra questi medici vi era uno nominato maestro Gotfreddo, uomo di buona vita, e di sofficiente dottrina, ma povero, e mal vestito, e peggio calzato. E perchè egli era mal addobbato, non ardiva comparere tra tanti sapienti e eccellentissimi uomini: ma per vergogna si puose dietro l’uscio della camera del re, che appena si puotea vedere, e ivi chetamente stava ad ascoltar quello che dicevano e’ prudentissimi medici. Appresentati adunque tutti i medici dinanzi al re, disse Guglielmo: Eccellentissimi dottori, la causa del raunarvi insieme alla presenza mia, altro non è, se non ch’io desidero intender da voi la causa di questa mia grave infermità, pregandovi, che con ogni diligenzia vogliate curarla, e darmi quelli opportuni rimedii che si ricercano, restituendomi alla pristina sanità. La qual restituita, mi darete quelli consegli, che più idonei vi pareranno a conservarla. Risposero e’ medici: Sacra Maestà, dar la sanità non è in potestate nostra: ma nella mano di colui, che sol con un cenno il tutto regge. Ma ben si sforzeremo, in quanto per noi si potrà, di farvi quelle provisioni che possibili saranno a riaver la sanità e riavuta conservarla. Indi cominciarono i medici a disputare dell’origine dell’infermità del re, e de’ rimedii che s’hanno a dare, e ciascuno di loro, sicome è lor usanza, particolarmente referiva l’opinione sua, allegando Galeno, Ippocrate, Avicenna, e gli altri suoi dottori. Il re, poscia che intese chiaramente la lor opinione, volgendo gli occhi [p. 283 modifica]verso l’uscio della sua camera, vidde un non so che di ombra che appareva, e addimandò se vi era alcuno che restasse a dir l’opinione sua. Fulli risposto che nò. Il re ch’aveva adocchiato uno, disse: Parmi veder — se non son cieco — non sò che dietro quella porta; e chi è egli? A cui rispose uno di quei sapienti: Est homo quidam; quasi schernendolo, e facendosene beffe di lui: e non considerava che spesse volte aviene che l’arte dall’arte è schernita. Il re fecegli intendere che venisse inanzi alla presenzia sua; ed egli così mal vestito che un mendico pareva, fecessi innanzi, e tutto timoroso umilmente s’inchinò, dandogli un bel saluto. Il re, fattolo prima onorevolmente sedere, lo interrogò del nome suo. A cui rispose: Gotfreddo è il mio nome, Sacra Maestà. All’ora disse il re: Maestro Gotfreddo, voi dovete a bastanza aver inteso ’l caso mio per la disputazione c’hanno fatto fin’ora questi onorandi medici; però non fa bisogno altrimenti riassumere quello ch’è stato detto. Che dite adunque voi di questa mia infermità? Rispose maestro Gotfreddo: Sacra Maestà, quantunque tra questi onorandi padri, il più infimo e il men dotto e il men eloquente meritamente dir mi possa per esser povero e di poca estimazione, nondimeno per obedire a’ precetti di vostra sublimità, mi sforzerò, in quanto per me si potrà, di dichiarirle l’origine del mal suo, indi darolle una norma e una regola, che nell’avenire sano viver potrà. Sappiate, signor mio, che l’infermità vostra non è a morte, perciò che non è causata da fondamento fermo, ma da sforzato e non aveduto accidente, il quale, sì come tostamente venne, così ancor prestamente si risolverà. Io, acciò che riabbiate la pristina sanità, non voglio altro da voi, eccetto la dieta, prendendo un poco di fior di cassia per rinfrescar il sangue. Il che fatto, in otto [p. 284 modifica]giorni resterete sano. Riavuta la sanità, se voi vorrete lungo tempo conservarvi sano, osservarete questi tre precetti. Il primo, che voi teniate il capo ben asciutto: Il secondo, ch’abbiate i piedi caldi. Il terzo, che ’l cibo vostro sia da bestia. Le quai cose sì voi porrete in essecuzione, lungo tempo camparete, e sano e gagliardo viverete. I medici, inteso il bel ordine dato da Gotfreddo al Re circa la norma del suo vivere, si misero in tanto riso, che quasi si smassellavano da ridere; e voltatisi verso il re, dissero: Questi sono i canoni, queste sono le regole di maestro Gotfreddo, questi sono gli suoi studii. Oh che bei rimedii, oh che buone provisioni da esser fatte a un tanto re! — e in tal maniera lo schernivano. Il re vedendo le tante risa che i medici facevano, comandò che ognuno tacesse, e dal ridere oramai cessasse, e che maestro Gotfreddo rendesse la ragione di tutto quello che avea proposto. — Signor mio, disse Gotfreddo, questi miei onorandissimi padri, molto esperti nell’arte della medicina, si maravigliano non poco dell’ordine da me dato cerca il viver vostro: ma se considerasseno con saldo giudicio le cause, per le quali vengono l’infermità a gli uomini, forse non si riderebbeno; ma attenti starebbeno ad ascoltare colui, che forse — con sua pace il dico — è più savio e più perito di loro. Non prendete adunque maraviglia, sacra corona, della proposta mia; ma abbiate per certo tutte l’infermità che vengono agli uomini, nascere o da riscaldamenti, o da freddo preso, o da superfluità d’umori cattivi. Imperciò che quando l’uomo si trova per la stanchezza o per lo gran calore sudato, debbe immantinenti asciugarsi, acciò che quella umidità che è uscita fuori del corpo, più dentro non ritorni, e generi l’infermità. Poi l’uomo dee tenere i piedi caldi, acciò l’umidità e freddura, che rende la terra, non [p. 285 modifica]ascenda allo stomaco, e dallo stomaco al capo, e generi dolor di capo, mala disposizione di stomaco e altri innumerabili mali. Il viver da bestia, è che l’uomo diè mangiare cibi appropriati alla complessione sua, sì come fanno gli animali irrazionali, i quali si nudriscono di cibi convenevoli alla natura sua. E piglio l’esempio dal bove e dal cavallo, ai quali se noi appresentiamo un cappone, un fasciano, una pernice, o la carne di buon vitello o di altro animale, certo non vorranno mangiare, perchè non è cibo appropriato alla natura loro. Ma se li porrete dinanzi il fieno e la biada, per cibo convenevole a sè, subito la gusteranno. Ma date il cappone, il fasciano e la carne al cane over al gatto, subito la divoreranno, perchè è cibo appropriato a loro; ma per contrario lascieranno il fieno e la biada, perchè non li conviene per esser contrario alla natura loro. Voi adunque, signor mio, lascierete i cibi, che alla natura vostra non si convengono, e abbracciarete quelli che alla complessione vostra sono convenevoli; e così facendo, viverete sano e lungamente. Piacque molto al re il consiglio datoli da Gotfreddo, e prestandoli fede, a quello s’attenne; e data licenzia agli altri medici, lo ritenne appo di sè, avendolo in molta riverenza per le sue degne virtù, e di povero lo fece ricco, sì come egli meritava, e solo rimasto alla cura del signore, felicemente visse.

Venuta Isabella al fine della sua favola, non senza gran diletto da tutta la compagnia ascoltata, prese in mano un bello e arguto enimma, e quello con la sua grazia in tal maniera raccontò. [p. 286 modifica]

Donne gentil, non vi meravigliate
     Di quel ch’ora da dirvi ho nel concetto;
Perchè quel che dirovvi è veritate,
     Ancor che paia nien degno soggetto;
Dico, che in tanta mia calamitate,
     Se non glielo spingeva ben da drieto,
E non glielo ficcava dentro al tondo,
     A pieno era disfatto allor del mondo.

Parve molto lordo e sozzo alle donne il raccontato enimma: ma in verità non era; perciò che sotto la corteccia altro senso, che quello che dimostra, contiene. Un giovane, fugato da sbirri, fuggiva, e così fuggendo, vidde l’uscio di una casa aperto, e un altro per salvarlo lo spinse in casa, e chiuse l’uscio e pose il cadenazzo nel tondo, che è il forame; e se così non faceva, il giovane era disfatto del mondo, perchè li convenea andar in prigione. Appena era finita l’isposizione dell’enimma, che Vicenza, senz’aspettar altro comandamento, con tai parole l’ordine seguitò.