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Le rime di M. Francesco Petrarca/Canzone XLVIII

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Canzone XLVII Sonetto CCCIX

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CANZONE XLVIII.


Q
Uel’antiquo mio dolce empio signore

Fatto citar dinanzi a la reina
Che la parte divina
Tien di natura nostra e ’n cima sede,
5Ivi, com’oro che nel foco affina,
Mi rappresento cerco di dolore,
Di paura et d’orrore,
Quasi huom che teme morte et ragion chiede;
E ’ncomincio: - Madonna, il manco piede
10Giovenetto pos’io nel costui regno,
Ond’altro ch’ira et sdegno
Non ebbi mai; et tanti et sì diversi
Tormenti ivi soffersi,
Ch’alfine vinta fu quell’infinita


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15Mia patïentia, e ’n odio ebbi la vita.
Così ’l mio tempo infin qui trapassato
È in fiamma e ’n pene: et quante utili honeste
Vie sprezzai, quante feste,
Per servir questo lusinghier crudele!
20Et qual ingegno à sì parole preste,
Che stringer possa ’l mio infelice stato,
Et le mie d’esto ingrato
Tanto et sì gravi e sì giuste querele?
O poco mèl, molto aloè con fele!
25In quanto amaro à la mia vita avezza
Con sua falsa dolcezza,
La qual m’atrasse a l’amorosa schiera!
Che s’i’ non m’inganno, era
Disposto a sollevarmi alto da terra:
30E’ mi tolse di pace et pose in guerra.
Questi m’à fatto men amare Dio
Ch’i’ non deveva, et men curar me stesso:
Per una donna ò messo
Egualmente in non cale ogni pensero.
35Di ciò m’è stato consiglier sol esso,
Sempr’aguzzando il giovenil desio
A l’empia cote, ond’io
Sperai riposo al suo giogo aspro et fero.
Misero, a che quel chiaro ingegno altero,
40Et l’altre doti a me date dal cielo?
Chè vo cangiando ’l pelo,
Nè cangiar posso l’ostinata voglia:
Così in tutto mi spoglia
Di libertà questo crudel ch’i’ accuso,
45Ch’amaro viver m’à vòlto in dolce uso.
Cercar m’à fatto deserti paesi,
Fiere et ladri rapaci, hispidi dumi,
Dure genti et costumi,
Et ogni error che’ pellegrini intrica,
50Monti, valli, paludi et mari et fiumi,


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Mille lacciuoli in ogni parte tesi;
E ’l verno in strani mesi,
Con pericol presente et con fatica:
Nè costui nè quell’altra mia nemica
55Ch’i’ fuggìa, mi lasciavan sol un punto;
Onde, s’i’ non son giunto
Anzi tempo da morte acerba et dura,
Pietà celeste à cura
Di mia salute non questo tiranno
60Che del mio duol si pasce, et del mio danno.
Poi che suo fui non ebbi hora tranquilla,
Nè spero aver, et le mie notti il sonno
Sbandiro, et più non ponno
Per herbe o per incanti a sè ritrarlo.
65Per inganni et per forza è fatto donno
Sovra miei spirti; et no sonò poi squilla,
Ov’io sia, in qualche villa,
Ch’i’ non l’udisse. Ei sa che ’l vero parlo:
Chè legno vecchio mai non róse tarlo
70Come questi ’l mio core, in che s’annida,
Et di morte lo sfida.
Quinci nascon le lagrime e i martiri,
Le parole e i sospiri,
Di ch’io mi vo stancando, et forse altrui.
75Giudica tu, che me conosci et lui. -
Il mio adversario con agre rampogne
Comincia: - O donna, intendi l’altra parte,
Chè ’l vero, onde si parte
Quest’ingrato, dirà senza defecto.
80Questi in sua prima età fu dato a l’arte
Da vender parolette, anzi menzogne;
Nè par che si vergogne,
Tolto da quella noia al mio dilecto,
Lamentarsi di me, che puro et netto,
85Contra ’l desio, che spesso il suo mal vòle,
Lui tenni, ond’or si dole,


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In dolce vita, ch’ei miseria chiama:
Salito in qualche fama
Solo per me, che ’l suo intellecto alzai
90Ov’alzato per sè non fôra mai.
Ei sa che ’l grande Atride et l’alto Achille,
Et Hanibàl al terren vostro amaro,
Et di tutti il più chiaro
Un altro et di vertute et di fortuna,
95Com’a ciascun le sue stelle ordinaro,
Lasciai cader in vil amor d’ancille:
Et a costui di mille
Donne electe, excellenti, n’elessi una,
Qual non si vedrà mai sotto la luna,
100Benchè Lucretia ritornasse a Roma;
Et sì dolce ydïoma
Le diedi, et un cantar tanto soave,
Che penser basso o grave
Non potè mai durar dinanzi a lei.
105Questi fur con costui li ’nganni mei.
Questo fu il fel, questi li sdegni et l’ire,
Più dolci assai che di null’altra il tutto.
Di bon seme mal frutto
Mieto; et tal merito à chi ’ngrato serve.
110Sì l’avea sotto l’ali mie condutto,
Ch’a donne et cavalier piacea il suo dire;
Et sì alto salire
I’’l feci, che tra’ caldi ingegni ferve
Il suo nome et de’ suoi detti conserve
115Si fanno con diletto in alcun loco;
Ch’or saria forse un roco
Mormorador di corti, un huom del vulgo:
I’ l’exalto et divulgo,
Per quel ch’elli ’mparò ne la mia scola,
120Et da colei che fu nel mondo sola.
Et per dir a l’extremo il gran servigio,
Da mille acti inhonesti l’ò ritratto,


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Chè mai per alcun pacto
A lui piacer non poteo cosa vile:
125Giovene schivo et vergognoso in acto
Et in penser, poi che fatto era huom ligio
Di lei ch’alto vestigio
Li ’mpresse al core, et fecel suo simìle.
Quanto à del pellegrino et del gentile,
130Da lei tene, et da me, di cui si biasma.
Mai nocturno fantasma
D’error non fu sì pien com’ei vèr’ noi:
Ch’è in gratia, da poi
Che ne conobbe, a Dio et a la gente.
135Di ciò il superbo si lamenta et pente.
Ancor, et questo è quel che tutto avanza,
Da volar sopra ’l ciel li avea dat’ali
Per le cose mortali,
Che son scala al fattor, chi ben l’estima;
140Chè mirando ei ben fiso quante et quali
Eran vertuti in quella sua speranza,
D’una in altra sembianza
Potea levarsi a l’alta cagion prima;
Et ei l’à detto alcuna volta in rima,
145Or m’à posto in oblio con quella donna
Ch’i’ li die’ per colonna
De la sua frale vita. - A questo un strido
Lagrimoso alzo et grido:
- Ben me la die’, ma tosto la ritolse. -
150Responde: - Io no, ma Chi per sè la volse. -
Alfin ambo conversi al giusto seggio,
I’ con tremanti, ei con voci alte et crude,
Ciascun per sè conchiude:
- Nobile donna, tua sententia attendo. -
155Ella allor sorridendo:
- Piacemi aver vostre questioni udite,
Ma più tempo bisogna a tanta lite. -