Lettere (Andreini)/Lettera XXIX

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XXIX. Delle lettere che si scrivono.

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XXIX. Delle lettere che si scrivono.
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Delle lettere che si scrivono.


V
ERAMENTE posso chiamarmi felice, essendo stata nella mia lontananza, favorita di vostre lettere; ma sarei molto più stata felice,

se ’n vece di legger la vostra lettera havessi udita la vostra voce. Sà ben V. Sig. ch’io stò in Villa, contra mia voglia, e che qui non posso haver alcuna sorte di contento non la vedendo; che mi giova il veder questi colli dipinti di fiori, queste valli ricche d’ombra, questi alberi carichi di frutti, e tant’altri oggetti, che allettano, e che dilettano, se priva della vostra cara vista, il tutto mi sembra orrido, e ’ncolto? A me non gusta la conversatione di queste Pastorelle, à me non piace il suono di queste rustiche Cetre, nè di queste boschereccie canzoni, anzi m’è di noia non ch’altro il dolce garrire de gli uccelli, tanto caro ad altrui. Ohime, che niuna di queste cose è sufficiente à scemar pur una delle mie pene, le quali rinfrescando i miei mali, raddoppiano i miei dolori, non vedendo colui, che mille volte l’hora, m’è di dolce morte cagione. Che mi serve (misera) l’esser lontana da gli occhi vostri, quando meco porto le mortali ferite de’ loro sguardi? Ah, che per esser lontana dalla cagione, non per ciò scema l’effetto de’ miei tormenti; anzi continuando l’affanno, tanto più m’offende, quanto più son lungi; ma s’io credessi di viver lungo tempo in quest’angosciosa morte, più tosto eleggerei di [p. 26r modifica]finir la vita, che rimaner di voi priva. Consolatevi Signor mio, che mi consolo anch’io, sperando, che non passeranno otto giorni, che ci vedremo. Intanto mantenetemi viva nella memoria vostra, e siate certo, ch’io v’amo.