Lettere (Sarpi)/Vol. II/235
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CCXXXV. — A Giacomo Leschassier.1
Con vivissimo piacere ho ricevuto le sue lettere de’ 7 febbraio, e mi consolo grandemente nel pensiero che siasi da voi altri sollevata una insegna di libertà. Non posso menar buono che Ella, come asserisce, non si manifesti fieramente acceso dell’amore di essa. Chè libertà fiaccamente difesa frutta maggior servaggio; e sempre dobbiamo aver presente la sentenza di Livio: essere rovinosi i mezzani temperamenti, che dei nemici non ti sbarazzano e non ti procacciano amici.2 Oh Dio volesse che tale osservazione, com’è conosciuta, così fosse messa in opera dai nostri! Ma assai difficoltà ci s’oppongono. Tutti sentono che sarebbe del pubblico interesse che a’ principi si ritornasse la signoria temporale, e la spirituale a’ vescovi: ma donde a ciò prender le mosse, nessuno lo sa. Filippo II, re delle Spagne, aveva, fra gli altri, questo segreto di dominazione: sostenere la potestà papale; la quale, sebbene tornasse perniciosa e a sè ed al suo regno, pure portava un vantaggio assai superiore a’ danni, col servire a tenere impigliati tutti i principi in rivolte civili. Il re attuale, o chi modera la pubblica cosa, non sembra che approvi tale strabocchevole autorità, e ha principiato a diminuirla in Spagna, e si è provato a fare il medesimo anche nel regno di Napoli. Ma dopo i moti germanici si sono dati all’inerzia, abbisognando la Spagna del papa e de’ Gesuiti per mantenere nell’impero la grandezza di casa d’Austria. I principi italiani, che amano tutti la pace, sono forzati di adattarsi a’ tempi e godere al possibile del presente. Il papa possiede in Italia una porzione non ispregevole di territorio, e domina inoltre col triregno tutti gli Stati. I preti italiani, infatti, sono più ossequenti al papato, che non i francesi, avendosi da lui solo i benefizi, e (ciò che più vale) aspettandone di maggiori. Quadra qui il proverbio: tenere il lupo per gli orecchi; tornando in egual modo pericoloso pe’ principi in Italia o il sommettersi al papa o lo scuoterne il giogo. Ma il discorso su tali cose è da rimettere a più opportuna occasione.
Mi preme grandissimo desiderio di vedere la deliberazione fatta dal Senato contro i faziosi che insorsero contro il libercolo Della potestà ecclesiastica e civile; il quale quando venga difeso dalla pubblica autorità (come vedo essersi principiato a fare), s’avranno gittati nella Francia semi di gran raccolta, che gioverà pure a noi. Ho letto con grande attenzione l’arringa dell’avvocato della Università, che ho riscontrato maravigliosa d’eleganza e sodezza. Io ne osservo e venero l’autore, che in cosa dubbia ha preso il patrocinio del vero con tanta libertà; ma due cose occorrono per me nuove e di cui chiedo con grande istanza lo schiarimento. Riguarda l’una quel Carlo Ridicon, giacobita di Gand, contro di cui si allegò una decisione del Senato dell’aprile 1599. Io sono al buio affatto e sulla cosa e sul nome della persona.3 Mi farà la S.V. un gran favore a dirmene in succinto la storia, e riferire il tenore della sentenza del Senato. L’altra risguarda un certo abboccamento tenuto, secondo quel che dice l’avvocato della Università, nella città di Toul; nel quale si rafforzarono nuovamente i dogmi o le massime de’ Gesuiti. Di ciò non giunse qua novella alcuna: amerei conoscere le persone assistenti al colloquio e gli argomenti discussi. Aspetto anche con vivissima brama la orazione del signor Servino, ch’io m’immagino così ricca di ragioni di dritto, come piena di dati di fatto. Non posso ristarmi dal fare scuse per la mia importunità e curiosità, che mai non cessa dal far domande.
Prego Dio che conduca a buon fine ogn’intrapresa della S.V. eccellentissima, e la tenga lungamente sana, affinchè possiamo entrambi d’egual omaggio onorare la divina Maestà. Tanti saluti da mia parte al signor Gillot. E le bacio le mani.
- 15 marzo, 1613.
Era già scritta la presente quando ricevei lettere della V.S. date li quindici di febbraio; dalle quali, e dalle altre inviate al signor Molino, appresi la sollecitudine che la stringe per le cose mie. E di ciò me le professo obbligato, e la ringrazio secondo il potere; ma se metterò a parte V.S. di tutto che risguardi quel negozio, niente più mi resterà da aggiungere. Le stesse lettere al signor Molino mi palesarono che egli le parlò d’una certa mia opericciuola sulla Immunità dei cherici; e n’ebbi un po’ ad arrossire. Non fu scritta, infatti, per essere divulgata,4 ma per dar lume a certuni dei nostri, che bisognava di subito istruire e liberar dalla superstizione, acciocchè non pigliassero deliberazioni dannose agl’interessi della Repubblica. Tacqui però molti articoli e i più importanti, perchè i deboli ingegni non andassero sopraffatti da troppo profondi insegnamenti; e neppure evitai le ripetizioni, per seguir la maniera del nostro discorrere. E debbo confessare, che mi dette molestia la improvvida edizione che il Molino fece d’un lavoro destinato solo all’uso dei nostri: ma poichè il fatto non si può disfare, prego la S.V. a non portar giudizio di me su quel lavoruccio, che niente stimo. Se non si fossero desti rumori contro il libretto Sulla ecclesiastica e civil potestà, pochi l’avrebbero letto e pochissimi giudicato. Ma la guerra svegliata farà profitto, sì perchè il punto controverso si metterà con più diligenza ad esame, sì perchè il sindaco e gli altri della Sorbona saranno forzati a difendere le proprie sentenze. Giace dimenticata, comunque ottima, una dottrina che non patisce contrasto; ma vigoreggia quando sia assalita o difesa. Pur che stia in sicuro la vita e libertà del sindaco e il Senato ne pigli la difesa, spero ogni cosa riesca al meglio; e, a parlare schietto, ancorchè si avverasse quello che avvenne nella causa del libro del Bellarmino, meglio piacerebbemi che il non far nulla. Importa al vero che si rivendichi qualche dritto conforme alla libertà, e si destino dal sonno i buoni e piuttosto si scindano in partiti i professori di lettere, che vilmente e imprudentemente andar dietro ai Gesuiti. Contro i quali dovemmo anche noi un giorno battagliare, perchè asserirono che il papa era successore di Cristo; e questo sempre e sul serio ripetono, per provare la necessità del capo visibile della Chiesa; del quale non abbisognerebbe la Chiesa se Cristo potesse esercitar quell’officio; e ciò dicendo, vennero a tali enormezze, che non si può aggiunger di più. Già un certo Paolo Comitolo da Perugia,5 loro consocio, stampò un libro col titolo di Sentenze morali, nel quale sostiene doversi tenere come un articolo di fede cattolica e divina, che tutti e singoli i papi che governarono pro tempore la Chiesa, sieno stati veri e legittimi. E così sostiene doversi credere con la stessa fede, che tal è l’attuale pontefice; con la stessa fede credere che è battezzato, ortodosso e maschio, e ogni punto indispensabile al potere pontificio. E lo prova specialmente con due ragioni: la prima, perchè se uno dicesse ch’esso non è vero papa, sarebbe da consegnarsi all’Inquisizione com’eretico: dunque, bisogna crederci come ad articolo di fede cattolica. La seconda, perchè nessuno è martire se non muoia per la fede cattolica: ma in Inghilterra furono uccisi molti per aver confessato che Gregorio XIII era vero capo della Chiesa; dunque l’affermar ciò è un articolo di fede cattolica: Queste massime svolge il Comitolo a dilungo nei capitoli 1, 9, 99 di quel libro. Che aspettarci di più da cotesta genía? Siamo al punto d’aver assai più articoli di fede sul solo papa, che non su tutti i misteri di nostra Redenzione.
Ho letto la narrativa delle cose di Troyes,6 e mi fece stomaco il vedere come quella generazione si prenda giuoco con sì gran tracotanza di tutti quanti. Anche qua di fresco macchinarono certe trame contro questa Repubblica; ma io spero di ovviarci sì presto, che pel venturo corriere le darò ragguaglio sì degli artificii e sì dei rimedi: il che confido debba essere di salutifero esempio anche agli altri.
Mi accorgo d’aver fatto una giunta più lunga della stessa lettera; di che la prego a scusarmi e a volermi il consueto bene. Mentre, poi, le bacio le mani, le raccomando di trasmettermi ogni deliberazione che sarà presa da cotesto Senato intorno all’opuscolo del Sindaco. Di nuovo, salute. Se corsero vive parole fra il principe di Condé e il cardinale Perron in ordine al libro del Sindaco, la cosa non si fermerà lì; e se il principe si capacita di quella dottrina, io m’auguro (checchè altri opinino in contrario) che ne verrà bene non solo alla Francia, ma ancora all’Italia. Il tempo chiarirà quello che tra loro passa; e però prego la S.V. a scrivermi se si confermi la veracità di quel che si va bucinando, e d’altro ancora.
Note
- ↑ Edita come sopra, pag. 111.
- ↑ Oh l’avessero così presente quelli a cui sarebbe debito averla, questa sentenza di Livio, del Machiavelli e del Sarpi; questa sentenza approvata dal comun senso e provata da tutte le storie!
- ↑ Nè la posterità, per quanto a noi sembra, ne seppe gran fatto.
- ↑ Questa operetta trovasi oggi stampata al principio del vol. V delle Opere del nostro autore (Helmstadt, ossia Verona, 1761-68), col titolo di Trattato della immunità delle Chiese.
- ↑ Il Comitolo, amico sviscerato del cardinale Bellarmino, aveva due volte scritto (1606-7), per la corte di Roma, contro la Repubblica di Venezia e nel 1611, pubblicò per le stampe in Cremona i suoi Consilia seu Responsa moralia, ristampati in Lione nel 1619.
- ↑ A chi non garbasse questo nostro modo di volgarizzare, non avendo potuto trovar notizie del fatto cui accennasi, poniamo sott’occhio le parole stesse dell’originale; cioè: Trecensem narrationem legi cum indignatione ec.