Lettere (Seneca)/Lettera V
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LETTERA V
Longum mihi comitatum etc. Ep. liv.
Lungamente ero stato assediato dall’indisposizione, quando di novo in un subito m’assalì. Di che sorte indisposizione, mi dirai. Ragionevolmente in vero me ne ricerchi, poichè non vi è male, ch’io non conosca per esperienza: non dimeno a uno particolarmente par ch’io sia dato in preda, e questo non so perchè me lo battezzi con nome Greco, perchè convenevolmente si può chiamar difficultà di respirare. Questo è un impeto assai breve, e simile a una procella, e dura intorno a un’ora; perciocchè chi è che lungamente stenti in mandar fuora il fiato? Io ho bonamente provato tutti gl’incomodi, e tutti gli pericoli che può aver un corpo umano; ma nessuno mi par che sia più fastidioso di questo. E come può essere altrimente? perchè ogn’altro mal che s’abbia è un star male; ma aver questo è un morire. E per questo i Medici sogliono dimandar questa infermità pensier di morte. Conduce talvolta ad effetto quel spirito, quel che molte volte s’è sforzato di fare. Ma che? Pensi tu forse che ora, scrivendoti, io sia allegro per averla scappata? Certamente s’io mi compiaccio di questo fine della sanità, faccio cosa non men da ridersene che fa colui, che si persuade d’aver vinto, per aver differito il comparire in giudizio. Ma io nel punto che stavo per affocarmi, non lasciai mai di darmi pace co’ pensieri pieni d’allegrezza, e di fortezza. Che sarà questo? dicevo: così spesso la morte fa prova di me? Ma faccia pure, ch’io già lungo tempo ho provato lei. Quando? mi dirai. Prima ch’io nascessi. La morte è il non essere: e questo già so come stia; perchè quel medesimo sarà dopo di me, che è stato innanzi a me. Se tormento alcuno è in questa cosa, è necessario che fusse anco prima che nascessimo al mondo. Oh non sentimmo allora affanno alcuno, mi dirai. Di grazia non tener per pazzia, se un giudica che sia peggio da poi che la lucerna s’estingue, che prima che s’accendesse. Noi anco e n’accendemo, e n’estinguemo, et in quel mezzo di tempo patimo qualche cosa. Ma l’una e l’altra di queste cose è grandissima sicurezza; perocchè in questo, s’io non mi gabbo, il mio Lucilio, erriamo che pensiamo che la morte ne seguiti, dov’ella n’ha preceduti, et è per seguirne. Ciò che avanti noi è stato, è morte; perciocchè che importa o che tu non cominci, o che finischi, essendo, che dell’una, e dell’altra di queste cose l’effetto sia il non essere? Con queste e simili esortazioni tacite, poichè parlar non potevo, posi fine al ragionar con me medesimo: dopo a poco a poco il sospirio, che avea già cominciato a convertirsi in anelare, prese maggiori intervalli, a tal che ritardando cessò del tutto; e quantunque sia mancato, non però lo spirito corre secondo il suo ordinario. Sento ancor non so che di difficoltà, e di tardanza di lena. Alfin faccia com’egli vuole, purchè io non ne suspiri nell’animo. Benchè voglio che tu ti riprometti questo di me, ch’io all’estremo non temerò punto: già son preparato di modo, ch’io non penso di aver a vivere tutto un giorno intiero. Lauda, et imita colui, al quale non incresce di morire, piacendogli di vivere. Perciocchè che virtù è l’uscire, quando sei cacciato? Non dimeno anco in questo caso è virtù; perchè son cacciato veramente, ma non altrimenti che s’io n’uscissi per me medesimo. E di qui viene che non si può dir che un savio sia scacciato; perchè l’esser scacciato è l’esser per forza levato, donde contra tua voglia ti parti. Il Savio non fa cosa alcuna sforzatamente: fugge la necessità, perchè vuol per se medesimo quello, a che la necessità lo sforzerebbe. Sta sano.