Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/VII. Il canto di Ugolino

Da Wikisource.
Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - VII. Il canto di Ugolino

../VI. Differenza tra poesia, scienza ed eloquenza a proposito del canto dei Simoniaci ../VIII. Concezione del purgatorio e sua poesia IncludiIntestazione 29 agosto 2023 75% Da definire

Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - VI. Differenza tra poesia, scienza ed eloquenza a proposito del canto dei Simoniaci Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - VIII. Concezione del purgatorio e sua poesia
[p. 218 modifica]

Lezione VII (XXIX)

[IL CANTO DI UGOLINO]


Scendendo nel pozzo de’ traditori, troviamo un altro mondo. Dalla violenza delle passioni siamo caduti in fino all’uomo bestia, a Vanni Fucci; qui scendiamo fino all’uomo ghiaccio, all’uomo pietra. L’inferno a quest’ultimo punto mi apparisce come un solo individuo malvagio, prima agitato e consumato da passioni, che poi si trasformano in movimenti meccanici, che nella vituperosa canizie si trasformano anch’essi in desiderii impotenti. È la storia del male, che soffia nell’anima una tempesta di passioni, le quali a lungo andare diventano vizii ed abitudini, insino a che l’anima logorata istupidisce e rimbambisce. E come l’umanitá nel suo corso ideale va dall’inferno al paradiso, dal male al bene, l’inferno, che è il regno del male, il trionfo della carne, è nel suo corso regressivo l’umanitá a rovescio, la storia del mondo capovolto, e in questo cammino a ritroso, cominciando da noi e spingendo lo sguardo indietro indietro, andiamo a riuscire alle epoche primitive, nelle quali il terrestre sopravanza lo spirito. Momento storico che gli antichi rappresentarono nella lotta de’ giganti, figli della terra, contro Giove, natura celeste, di forza fisica inferiore, che vince col fulmine i giganti:

                                                                                 cui Giove
Minaccia ancor dal cielo, quando tuona.
     
[p. 219 modifica]

Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli che si ribellarono contro di Dio. Dove comincia la storia, ivi finisce l’inferno. Che cosa troviamo qui? Nell’ingresso del pozzo i giganti; nella fine Lucifero: mitologia e Bibbia si abbracciano, espressioni d’una sola idea. Nell’inferno l’azione è finita; i giganti sono incatenati. Lucifero è immane carname vuoto di intelligenza; non rimane loro altra poesia, che il gigantesco, il quantitativo, carne ammassata a carne, la carne come carne. I giganti dall’ombelico in su sono trenta gran palmi; la faccia d’uno è lunga e grossa come la pina di S. Pietro a Roma; Anteo è comparato alla Carisenda. Lucifero è lo stesso gigantesco triplicato; tre teste, sei braccia, grandi elle sole come un gigante: è la poesia della materia. Tra i giganti e Lucifero stanno i peccatori fitti nel ghiaccio. Le acque infernali corrono rumorosamente nelle regioni superiori, e si gittano con impeto in Malebolge, dove stagnandosi putrefanno. Qui ventate dalle ali di Lucifero si agghiacciano, s’indurano, e diventano un mare di vetro, entro il quale stanno i traditori contro i congiunti come Caino, contro la patria come Antenore, contro gli amici come Tolomeo, contro i benefattori come Giuda. Sono quattro gradazioni d’uno stesso delitto, a cui rispondono quattro gradazioni d’una stessa pena; è il movimento che va estinguendosi; è la vita che si va pietrificando a poco a poco. Dapprima essi possono esprimere le loro sensazioni; sentono freddo, e battono i denti «in nota di cicogna»; sentono dolore e piangono. Indi son tolte loro le lacrime; supini, le prime lacrime s’invetriano come «visiere di cristallo», riempiono il cavo dell’occhio, ed impediscono il pianto. Pure possono parlare; appresso, anche la parola è tolta, tutta la persona coperta dal ghiaccio onde trasparisce come «festuca in vetro». Non movimento, non lacrime, non parola: loro non rimane se non quello che è comune a tutte le cose, la positura del corpo.

Or come Dante tra questi esseri pietrificati ha potuto concepire il conte Ugolino? È una obiezione ragionevole. E poiché sono alla fine delle mie lezioni sull’Inferno, mi si conceda un’osservazione. I professori francesi annunziano talora d’aver [p. 220 modifica]ricevuto qualche lettera in cui si contenga la tale e tale obiezione. Certo ciò spesso è vero; ma chi ha naso fino, odora talora dalla stessa esposizione, che questo non è se non una finzione poetica, per destare interesse e curiositá nel loro uditorio. Io confesso ingenuamente di non aver ricevuto alcuna lettera di questa fatta; pure non è potuta non giugnere al mio orecchio questa o quella obiezione. Alcuni, per esempio, che non sanno concepire altri comenti se non canto per canto e verso per verso, chiamano queste lezioni delle generalitá, o per usare un loro vocabolo piú espressivo, delle metafisicherie: che è la parola alla, moda, colla quale l’ingegno empirico si ribella contro l’ingegno speculativo che egli non comprende. Altri ancora piú ingenui trovano che il vero critico debba sapere evocare l’ombra del poeta, appurare da lui quello a cui pensava quando scriveva, e far nota al pubblico questa conversazione confidenziale. Ora a sentirli io non ho questo privilegio; il Dante ch’io vi spiego me lo foggio io; Dante non pensava a quello che penso io, e per dirla con le proprie parole di uno di essi esempio d’ingenuitá, Dante non sapeva di estetiche: come se il poeta ed il critico dovessero pensare allo stesso modo; e come se il poeta non fosse l’uomo colto nell’azione e passionato ed il critico lo spettatore che lo analizza. Un poeta che analizza se stesso è come un uomo che nel bollore della collera prende uno specchio e vi mira i suoi gesti sconvolti: da quel momento quella ira è caduta e quella ispirazione è finita. Questo per gl’ingenui; ma eccoti altri che hanno pretensioni piú serie, e ti fanno di quelle obiezioni, che hanno l’aria di atterrare un uomo e farlo polvere. Per esempio, io non sono italiano; io ho commesso il peccato imperdonabile di studiare il tedesco e di comprendere la scienza non solo come si trova in Italia, ma come si trova nel mondo civile. A questo ragguaglio il paese piú sapiente del mondo è quello degli Ottentotti, se vera la tradizione che capitato colá un viaggiatore quei sapientoni lo guardavano con tanto d’occhi, facendo le alte maraviglie; perché nella loro sapienza s’immaginavano che non vi fossero altri uomini che gli Ottentotti, e che tutto il mondo fosse quello che abbracciavano con l’occhio: in [p. 221 modifica]questo modo gli Ottentotti sono, se volete, i piú patriotti del mondo, ma permettetemi che io aggiunga i piú asini del mondo: è un’asineria patriottica ch’io non posso desiderare, se non a quelli che si contentano d’esser chiamati gli Ottentotti d’Italia.

Di altra natura è l’obiezione che mi è stata fatta fin dall’anno passato, e che sorge naturalmente nello spirito. Come Dante ha potuto concepire il conte Ugolino, tanta passionata poesia in tanta durezza e freddezza di cuore simboleggiata nel ghiaccio? Per una ragione ben semplice, perché Ugolino non è il traditore. Storicamente egli è traditore e tradito; ma poeticamente egli è solo il tradito, ché la poesia non nasce qui dal tradimento ch’egli ha fatto, ma dal tradimento che ha ricevuto, dall’uomo tradito che racconta le sue miserie, dal padre che vede morirsi innanzi di fame i suoi figliuoli. Ben vi è il traditore, ma non è Ugolino; è quella testa che gli sta sotto i denti, che non dá un crollo, che non mette un grido, inanimata come un cranio di cimitero, l’ideale piú perfetto dell’uomo pietrificato, come Dante lo ha concepito, il Vanni Fucci de’ traditori. Ugolino è il tradito che la divina giustizia ha attaccato a quel cranio, come memoria vivente del suo delitto; né è solo il carnefice, esecutore di comandi a cui rimanga estraneo; il carnefice è qui lo stesso uomo offeso, che vi aggiunge di suo l’odio e la vendetta. Concezione che purga e trasforma il disgusto nell’orrore; né so se faccia piú orrore quella testa silenziosa o quell’uomo accaneggiato. Nondimeno l’impressione non è la stessa per tutti. Come al tempo del Metastasio vi erano principesse cosí delicate, che si sentivano svenire alla vista di personaggi che si ammazzassero in sulla scena; cosí ci ha cementatori di si tenera pasta, che innanzi a questo spettacolo si turano i nasi per non sentire il puzzo delle cervella e del sangue. Perché ciò? Perché nel lettore vi sono due impressioni, e nel poeta ve n’è una sola. Dante, dominato dall’orrore del fatto nel suo insieme, non si arresta alle cervella ed al sangue, che entrano come immagini confuse nella sua visione: «il teschio e le altre cose»; e quando Ugolino solleva la testa, e ci si scopre quel [p. 222 modifica]teschio da lui guasto, Dante non guarda giá il teschio, ma Ugolino, e gittando in mezzo l’immagine del pasto e facendogli forbire la bocca, usando de’ capelli a modo di tovaglia, spaventa in modo l’immaginazione, che la tiene colá e le toghe il distrarsi nel rimanente dello spettacolo. Se in luogo di questo rapido tocco ei si fosse fermato, sarebbe caduto nell’errore d’Eugenio Sue, il quale rappresenta una tigre che ammazza un cavallo, e non contento alle prime vivaci pennelleggiate, ci descrive i movimenti convulsivi e spasmodici del cavallo, e cosí per troppo abbellire guasta il suo quadro. Ora chi vuol gustare una poesia, dee rifare in sé quel momento creativo del poeta. Ora il conte Ugolino noi l’impariamo fin da fanciulli, e lo diciamo bello sulla fede de’ maestri; e quando si sveglia in noi il senso estetico, è giá troppo tardi, non sappiamo piú rinfrescare le nostre impressioni. Raffreddati, in luogo di sentire, noi analizziamo; l’intero della concezione ci sfugge insieme con la poesia, e non ci rimane innanzi che una bellezza meccanica, il corpo, la materia, nella quale noi ci ostiniamo come uccelli di rapina, ricercandola fibra a fibra; ed allora è ben naturale che noi scopriamo le cervella ed il sangue. La vera impressione che nasce da quei versi non è la vista de’ tendini, de’ nervi e delle cervella (la fantasia di Dante è rapida e non ce ne lascia il tempo), ma il desiderio impaziente di correre da quello spettacolo esterno ne’ segreti del cuore, di leggere in quell’anima. Quanto ha dovuto patire quest’uomo per abbandonarsi a quell’atto cosí fuor dell’umano, cosí bestiale! Ecco ciò che pensa il lettore, ciò che pensa il poeta. E che cosa è nell’anima di Ugolino? Un sentimento che spiega quell’azione; ma no, la sua anima è piú feroce ancora che la sua azione; un sentimento che sí manifesta nell’azione e vi rimane al di sopra come un malcontento artista che non vede sulla carta il suo ideale e non lo spera. Il dolore di Ugolino è «disperato», senza speranza, non saziato, non placato da quella vendetta: il suo dolore riman vivo e verde, tanto che a solo pensarci egli lacrima, come se pur ora avesse sofferto. Anche in Shakespeare vi è un padre a cui sono ammazzati i figli, e: «— Che fai?» gli grida un amico: «non calcarti il cappello, [p. 223 modifica]non torcere gli occhi cosí; pensa a vendicarti dell’uccisore. — Egli non ha figli!» — risponde Macduff e ricade nel suo abbattimento. Risposta giustamente ammirata, perché fa intravvedere in colui il desiderio feroce d’ammazzare anch’egli i figli del suo nemico e l’impotenza di soddisfarvi. Ma il concetto di Dante è piú alto. Ugolino ha sotto i suoi denti il nemico, e rimane insodisfatto, e non perché desideri una vendetta maggiore, ma perché il suo dolore è infinito, e non vi è vendetta al mondo che stia all’altezza del suo dolore. È stata notata una somiglianza tra le prime parole di Ugolino e le prime di Francesca; vi è in effetti lo stesso giro di frase, ma con diversa musica. Perché nelle due situazioni vi è qualche cosa di simile e di diverso, uno stesso concetto con diverso sentimento. Amendue ricordano con dolore il passato, cedono alla domanda di Dante, e lacrimano e parlano insieme. Ma per Francesca è un passato voluttuoso e felice congiunto colla miseria presente; è l’inferno congiunto con Paolo, col giardino e col bacio; e la sua anima è si delicata, che ingentilisce il suo pianto ed abbella il suo dolore: onde la mollezza e soavitá di quei versi: è una musica di Bellini. Per Ugolino passato e presente sono d’uno stesso colore, un solo strazio, che sveglia in lui sentimenti feroci e ravviva la sua rabbia; attraverso le sue lacrime vedi brillare la cupa fiamma dell’odio. Il «rodere» è posto accanto al lacrimare; quell’uomo piange, ma il suo pianto ti spaventa, t’intenerisce e ti fa rabbrividire; e ti pare a ogni tratto che in mezzo alle lacrime, mutato il dolore in rabbia, dia di morso a quel teschio, massime quando pronunzia alcuna parola che ce lo ricordi, come il suo terribile «tal vicino». «Vicino» risveglia idea benigna d’usanza e di dimestichezza di uomini che vivono e usano insieme; ma in bocca ad Ugolino diviene una sanguinosa ironia; egli scherza sul cranio del suo nemico.

Fin qui voi avete il solo preludio, una musica terribile senza le parole, i sentimenti dell’anima senza l’azione che li hanno prodotti. Il sipario ora si alza, ora comincia la rappresentazione. E un uomo che racconta i dolori della sua prigionia. Un poeta francese ha scritto Gli ultimi giorni d’un condannato a morte. [p. 224 modifica]È un libro sazievole e monotono, e doveva essere. Tolto alla vita esterna, al prigioniero non rimane che se stesso, sempre quelle rimembranze, ciascun giorno, ciascuna ora simile all’altra; è la noia che consuma lentamente il prigioniero; e s’egli è condannato a morir di noia, non è ragione perché vi debba esser condannato anche il lettore. Tutta la vita del prigioniero, i mesi o gli anni che per gli uomini distratti nel mondo volano come ore, e per lui sono secoli contati minuto per minuto, il poeta dee rappresentarmela in ima pagina, in una scena: Dante me la rappresenta in un sogno. Ugolino è chiuso in un carcere, a cui viene pallida luce da un breve foro, al quale sta affísso; ed il suo orologio è la luna, dalla quale egli conta i mesi della sua prigionia. Quell’angustia di carcere paragonato ad una «muda», quel piccolo «pertugio», attraverso al quale vede la luna e la luce, e le ore del tempo contate sono tutto il romanzo del prigioniero nella sua parte materiale. E per rispetto all’anima? Due sono i sentimenti che nutrono l’anima solitaria di Ugolino: l’incertezza del suo destino e la rabbia contro i suoi nemici. Ciò che strazia piú il prigioniero è il dubbio, e la fantasia esagitata da’ patimenti e dalla solitudine si abbandona a’ piú assurdi timori. Ugolino non sa di dover morire, e teme di dover morire: l’idea della morte non può cacciarla da sé, e quello: «del futuro mi squarciò il velame» vi fa indovinare la sua passata ansietá, i diuturni combattimenti del prigioniero tra la speranza e la disperazione. Con l’idea della morte si congiunge l’immagine sempre presente de’ suoi nemici, come anelanti alla sua morte, a quella de’ suoi figliuoli.

Queste sono le sue veglie; questi i suoi sogni. Nel sogno il reale è misto col fantastico: ben gli appariscono i suoi nemici, ma in atto di dar caccia a un lupo e a’ lupicini: l’occhio vede animali, ma l’anima sente confusamente che si tratta di sé e de’ suoi figli; e quel lupo e quei lupicini si trasformano con vocabolo umano in «padre e figli». L’uomo in sogno quando immagina d’esser perseguito e vuol correre, come sta immobile in letto, gli pare che le gambe sieno indolenzite e tarde al correre. [p. 225 modifica]

                                         In picciol corso mi pareano stanchi
Lo padre e i figli, [e con le acute scane
Mi parea lor veder fender li fianchi.]
     

Qui Ugolino diviene piú interessante: non è piú solo Ugolino: comincia a comparire il padre: i figliuoli entrano in scena. Sarebbe un lavoro nuovo a fare intorno alla poesia del fanciullo, a cominciare dal bambino di Ettore e a terminare al fanciullo di Götz. Il fanciullo rimane straniero alle nostre infernali passioni, nella sua anima è sempre qualche cosa che ride, una festa interiore che si manifesta nella serenitá e dolcezza de’ suoi lineamenti. La sua presenza rasserena l’umana tragedia, e spiana le grinze del volto di Götz, quando tornando dalle battaglie fanciulleggia col suo figliuolo, e fa sorridere in mezzo alle sue lacrime Andromaca, «ridea piangendo», come dice Omero, quando vede il suo bambino palleggiato dal padre. Tale è il primo ideale del fanciullo, l’ideale sereno di Omero. Il fanciullo è senza coscienza, senza il formidabile dimani, che noi consuma, ed agitati dalla tempesta della vita a noi piace talora di affisarci in quella pace; ma e se il fanciullo si trova anch’egli in mezzo alla tempesta e non se ne avvede; se il fanciullo innanzi alla madre sua che more, dimanda pane; se il fanciullo, come l’ho veduto io con questi occhi, scherza e folleggia con la coltre della bara, dove tra un minuto dovrá essere posto suo padre? Signori, quel riso celeste ci spaventa allora come il riso stralunato del pazzo; è la compassione fino al sublime dello strazio. Noi allora ci sostituiamo a quel fanciullo; ci poniamo al suo luogo; gl’imprestiamo la nostra coscienza, e pensiamo fremendo a que’ mali che gli stan sopra, de’ quali il suo riso è quasi una inconsapevole ironia: sentimento che si rivela indistinto anche nell’uomo del popolo, quando innanzi ad un fanciullo che ride nella sua miseria, esclama: — Povero fanciullo! — e rimane meditabondo. Questo per lo spettatore indifferente; e se questo spettatore fosse il padre, il padre che sa di dover morire egli ed i figli, ed i suoi figliuoli noi sanno? La passione ha bisogno di sfogarsi, e non potremmo patire il dolore, se la natura non ci sospingesse ad [p. 226 modifica]urlare, a imprecare, a piangere, a stracciarci i capelli; quel padre dovrá divorare in silenzio il suo dolore; dovrá porre sulla sua faccia quel velo, onde il pittore coperse [il capo] ad Agamennone innanzi al sacrifizio della sua figliuola; la tempesta che ha al di dentro dee tenerla chiusa al di dentro. Ma la tempesta dee trasparire; un uomo immobile e silenzioso non è un personaggio poetico; la poesia vi è quando, mentre il suo labbro tace, il poeta con le mezze tinte ci fa sentire che la sua anima parla. Ugolino destatosi sente piangere tra il sonno i figliuoli «e dimandar del pane». Costoro non sanno nulla di Gualandi e Sismondi, d’inimicizie e di tradimenti, che sono il fondo del sogno del padre: sentono fame e dimandano pane. Questo fatto cosí naturale viene esagerato dalla fantasia del padre. Pieno il capo del suo sogno, lo congiunge con quello de’ figli: morire e morir di fame, tale è la sua impressione. Ma non lo mostra; egli rimane immobile; il labbro tace, ma l’anima parla; il sublime è il modo onde il poeta lo fa trasparire. Quando noi siamo presi da una passione, vorremmo che tutti partecipassero al nostro dolore, e ci sa male, se camminando incontriamo indifferenti. Una madre del popolo, che teme ucciso il figliuolo, va correndo per le vie forsennata, chiedendo alla gente: — L’hai veduto? — , quasi tutti sapessero di chi parli o di che si affanni. Ugolino vede nel doppio sogno il velo del futuro squarciato, la sua agonia e de’ suoi figliuoli, tutta la storia che ne succede, e se ne commuove; e quando alzando gli occhi a Dante, che egli crede debba sentire le stesse impressioni, lo vede in atto piú di curioso che di commosso, egli sente l’impazienza e il dispetto d’un uomo che non si vede compreso. E quello «Ciò che al mio cor s’annunziava» ti mostra ciò che gli ferveva al di dentro nella immobilitá della persona. I suoi presentimenti si avverano; egli sente inchiodare la porta; e riman senza parola, «senza far motto». È egli questo un silenzio ineloquente? Che cosa si agitava nel suo cuore? Voi lo sapete, o signori; il suo labbro tace, ma il suo sguardo parla; il primo pensiero del padre fu rivolto a’ figli; quel silenzio riceve il suo commentario dall’occhio. Qui comincia quella lunga compressione, quella lunga violenza contro la natura, che vuole [p. 227 modifica]e non può sfogarsi per tutto un giorno ed una notte. Ma Dante non esce mai dal vero; se voi e se un padre mi dee intenerire, non dovete cancellarmi in lui l’uomo, anzi vuoisi fare in modo che io vegga il contrasto e senta il sacrifizio. In quella notte di silenzio la fame avea lavorato e trasformato i visi del padre e de’ figliuoli, e quando, fatto un poco di luce, quella vista lo coglie impreparato, in un momento naturale di obblio si manifesta l’uomo e prorompe in un atto frenetico. Momentaneo trionfo della natura, a cui succedono due altri giorni di silenzio:

                                    Quel dí e l’altro stemmo tutti muti.      

«Tutti»; prima il padre taceva; ma i figliuoli piangevano, smaniavano; ora tutti tacciono. Quel silenzio ne’ figliuoli è agonia; che cosa è nel padre? Egli non sente di morire; la sua forte natura resiste ancora; e vede mancarsi innanzi i figliuoli, e non può patire quella vista e domanda la morte, e che la terra si aprisse e che l’inghiottisse vivo. Sempre accanto al silenzio il suo commentario. Ma quando i figliuoli sono morti, si sente libero e la natura si manifesta con tanto piú di violenza, quanto piú lungamente compressa: voi lo vedete brancolare sopra i figliuoli, voi l’udite chiamarli disperatamente per nome; e tanto dolore non l’uccide, e non può morire e dee aspettare tre giorni, tre altri lunghi giorni, perché la fame faccia quello che non ha potuto il dolore. E i figli? La loro inintelligenza accresce lo strazio; essi non comprendono la loro sorte: «Tu guardi si, padre; che hai?». Dove quel «si» non è un avverbio; è un’immagine. Il padre li guardava sempre; ma questa volta il suo sguardo avea quel non so che di fisso e di stravolto che è proprio della disperazione: è qualche cosa di nuovo per loro, che li spaventa, che li fa piangere, e non sanno il perché: e commoventissimo è quell’«Anselmuccio mio», quel diminutivo che ricorda tante care gioie di famiglia in tanto mutata situazione. Qui la poesia nasce dal non intendere; lo strazio è maggiore nel frantendere. L’equivoco è sul limitare della commedia, e desta il riso quando non produca un effetto subito e potente. Qui è un [p. 228 modifica]equivoco, padre immediato d’un sublime che ha formato l’ammirazione di cinque secoli. Né questo è giá un ideale d’amor filiale, un alto sentimento morale, al di lá di un fanciullo. I figli veggono il padre mordersi le mani, ed ignorano il cuore umano e le nostre passioni, e giudicando da sé credono sia per fame. Il primo grido che la natura ci mette in bocca è: — Padre, non fare: non ci dare tanto dolore — ; grido seguito immediatamente da un altro che lo comprende: — O se vuoi, mangia di noi, toglici la vita. — E quel «misere carni» ti mostra che quei fanciulli che da due giorni non mangiavano, sentivano giá dissolversi la loro esistenza e mancare la vita. Lo strazio cresce ancora: il padre è in una violenta compressione, ma non i fanciulli che si manifestano schietti, e non si accorgono che uccidono il padre, che ogni loro atto è una pugnalata al suo cuore. «Padre mio! che non mi aiuti?» domanda un fanciullo. Egli credeva che il padre potesse aiutarlo! E questa scena si ripete ogni volta, e Ugolino si vede cascar dinanzi ad uno ad uno i figli. Il padre non crede che uomo possa patire mai tanto dolore e teme di non essere creduto da Dante, e sente il bisogno di ricorrere ad un’energica aflermazione. Tutto questo v’intenerisce; ma Dante non perde mai di vista il suo personaggio; voi avete dimenticato quel teschio; ma Dante non l’ha dimenticato. Gli occhi di Ugolino si stravolgono e l’ultimo suono delle sue parole si confonde con lo scricchiolare del cranio sotto i suoi denti, forti nell’osso come d’un cane. Il pianto d’Ugolino divien furore: la pietá di Dante diviene indegnazione; e gli mette in bocca una nuova maniera di distruzione contro una cittá che avea posto a tal croce quegli innocenti fanciulli. Qui Dante cade nello stesso peccato che rimprovera a’ Pisani. — È una contraddizione — dicono, come se la contraddizione non fosse la logica del cuore umano. La passione è egoista ed intollerante; comprende se stessa e non comprende le passioni altrui. Sono passioni selvagge in tempi selvaggi; e questo rese possibile un inferno, di sotto dal quale ribollono tante passioni, una poesia sotto la quale vi è tanta storia.