Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/VI. Differenza tra poesia, scienza ed eloquenza a proposito del canto dei Simoniaci

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Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - VI. Differenza tra poesia, scienza ed eloquenza a proposito del canto dei Simoniaci

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Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - VI. Differenza tra poesia, scienza ed eloquenza a proposito del canto dei Simoniaci
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Lezione VI (XXVIII)

[DIFFERENZA TRA POESIA, SCIENZA ED ELOQUENZA
A PROPOSITO DEL CANTO DEI SIMONIACI]


Dopo di aver gittato nell’ultima abbiezione i tre papi, de’ quali discorsi innanzi, Dante tuona sul loro capo. È questa eloquenza o poesia? E innanzi tutto perché questa domanda? Certo, se noi guardiamo una statua o un quadro, se ci giunge all’orecchio melodia o concento, noi non domandiamo: — È questo arte o eloquenza? — Nella sola poesia la domanda è possibile, come quella che si vale d’un istrumento comune alla scienza ed all’eloquenza: distinte in se stesse, si toccano nel loro istrumento, si confondono nella loro espressione. Quando il pensiero cala nel marmo nel colore nel suono trova un diverso da sé, che gli resiste, e dove non può manifestarsi che colla materia vivente, cioè in una data forma, nella forma di arte. Quando cala nella parola, trova in lei niente di proprio e di resistente che gl’imponga una forma. La parola è carattere algebrico, un segno arbitrario, che non significa e non dee significar nulla; e quando i retori i sofisti e le mediocritá me la carezzano e me la lavorano e la trasformano quasi in materia musicale, non si avveggono che ne fanno un ostacolo tra il pensiero e l’anima del lettore. La parola non dee esser niente di solido, ma limpida acqua, in cui il pensiero, simile a Narciso, riconosca ed abbracci se stesso; espressione diafana, diretta ed immediata del pensiero: qualitá egregia di Machiavelli e Leopardi, sovrani artefici di [p. 210 modifica]stile, ne’ quali la parola non è se non quello che dee essere, traduzione del pensiero. E poiché la parola non significa nulla, il pensiero vi si manifesta in tutte le sue forme: come pensiero sentimento e immagine, come poesia scienza ed eloquenza. Indi la confusione, tanto piú da cansare, in quanto oggi ignoranti imitatori di grandi maestri sogliono farvi un guazzabuglio di cose sotto il nome di sintesi o di apologia. Guardando all’esterno, alcuni posero una differenza nello stesso istrumento, immaginando una non so qual lingua filosofica, oratoria, o poetica. Certo il periodo numeroso, oratorio, è distinto dall’andamento logico del discorso, e nella poesia la parola è canto e melodia; ma queste differenze estrinseche sono effetti e non cagioni, e suppongono una differenza piú alta nella natura stessa del pensiero. Dice Pascal che l’uomo è piú grande dell’universo; perché anche quando l’universo l’uccide, l’uomo sa di morire, e l’universo non sa quello che fa: e questo sapere è la scienza. Chi guarda l’universo con l’occhio della mente, vi troverá al disotto «l’Amor che move il sole e le altre stelle», le forze interiori che lo animano e lo movono. E in questa seconda vista è posta la scienza, nel cogliere le idee non astratte dal mondo ma nel mondo; nel coglierle quando voi le potete guardare in movimento ed azione; nell’apprendere questo mutabile mondo come una logica vivente, un sillogismo in azione, che il mondo ignora, e che voi cogliete semplice spettatore. Vi son casi ne’ quali l’eloquenza è assorbita dalla scienza, come ne’ discorsi accademici o inaugurali, i quali son falsi perché il fondo rimane un pensiero sviluppato logicamente, a cui si appiccano certi fiori rettorici tradizionali, ornamenti estrinseci al pensiero, che congiunti con la cantilena anche tradizionale dell’oratore fanno ridere quando non fanno dormire. E vi son tempi ne’ quali parimente l’eloquenza è assorbita dalla scienza. Quando un popolo, esauste le idee che lo appassionavano, sente come una stanchezza ed un bisogno di riposo, succede un lavoro di riflessione. Il popolo si ripiega in se stesso, ed in luogo di fare spiega quello che ha fatto: non è Mirabeau che soffia nella tempesta: è Guizot che la spiega: è il dottrinarismo moderno, una libertá fanciulla, che [p. 211 modifica]si mira nello specchio e si analizza; un guerriero invalido che scrive le sue memorie; una poesia fatta critica e commentaria. E vi son tempi, ne’ quali la scienza si trasforma in eloquenza ed il filosofo diviene oratore, quando le idee lungamente elaborate scendono nella immaginazione e nel cuore, e fervono nelle moltitudini come istinti confusi, che sotto la potente parola dell’oratore germogliano e fruttificano. L’oratore sotto questo aspetto è anche egli un artista che crea e non crea giá fantasmi; ti crea un uditorio a sua somiglianza: la sua anima e le sue passioni diventano anima e passioni di quello. Il filosofo ha per materia le idee; l’oratore ha per materia il pubblico che egli lavora e trasforma, come lo scultore fa il marmo. Il filosofo dee cercare, spiegare idee; l’oratore dee averle cercate; ed il problema filosofico è il dato, il supposto del suo, che è, date le idee, trovar modo di travasarle negli altri. Quindi la differenza tra dissertazione e orazione. La dissertazione ha per fondo un pensiero che si sviluppa da sé, e se chi scrive è un pedante, questo sviluppo sará un proporre e dimostrare e connettere e dividere e tirar conseguenze, che egli chiamerá ordine, come se la logica fosse un’aritmetica, e le idee fossero numeri che si possano a talento addizionare, moltiplicare e dividere. E se chi scrive è un uomo d’ingegno, la sua idea, minima che ella sia, sará un piccolo mondo con in sé le sue leggi di ordine e di esplicazione, una delle facce del mondo che giri lentamente intorno a se stesso, sicché senza cessar mai di vederla tutta, tu ne vegga piú specialmente questa e quella parte. L’orazione ha per fondo non un pensiero che si sviluppi logicamente, ma quale si trova nell’uditorio come istinto inavvertito e confuso, mescolato con tutti gli accidenti della vita, annebbiato da passioni e pregiudizii, il quale fecondato dall’oratore dee farsi strada attraverso a quelle passioni, e salire a dignitá di convinzione, ed acquistar coscienza di sé, divenire anch’egli a sua volta una passione, una passione trionfatrice, che possedendo l’anima scoppii a quando a quando in quei: — Bravo! è vero, è vero! si, si! — che quando non sono artificiali e teatrali, ma spontanei, sono lo stesso nuovo «me», che l’oratore ha creato in voi, e che impaziente di [p. 212 modifica]uscire alla luce si manifesta in una interiezione, salvo a manifestarsi piú nell’azione. Qui è il trionfo dell’oratore, che dee studiare non tanto l’idea quanto l’anima del suo uditorio, e scendere a lui per alzarlo a sé; tanto piú grande quanto sa piú nasconder la sua grandezza, e lasciar comparire l’uditore, sicché a lui paia di fare egli una scoperta, e dica fra sé: — Era cosí naturale: non so come non ci avevo pensato. — La forma oratoria che si adopera nell’orazione non è dunque un ornamento estrinseco, sicché il pensiero rimanga nella sua natura scientifica, ma è il pensiero stesso calato nell’anima e fatto immagine e sentimento. Il filosofo e l’oratore sono cosí quasi un Iddio, colto in un doppio momento, quando pensa il mondo, e quando innamorato del suo pensiero, come dice Dante, amando crea e lo imprime nella materia. La scienza è spiegazione; l’eloquenza è impressione; la poesia è rappresentazione. Dio pensa il mondo, imprime il suo pensiero nella materia; e quando la creazione è compiuta, il pittore prende il pennello e dipinge, il poeta prende la penna e rappresenta. Il filosofo cerca le idee; l’oratore le imprime: e quando un popolo vive, animato da idee e da passioni che si traducono in magnifiche azioni, il poeta prende la penna e rappresenta. Ma in Dio vi resta qualche cosa che non è nella materia; nell’oratore vi resta qualche cosa che non è nell’uditorio; ed il poeta non è lo spettatore plebeo che guarda con l’occhio; ma guarda con la fantasia: e innanzi alla fantasia la materia si liquefá e fluttua e ondeggia come ombra o fantasma, in cui si riflette piú puro il pensiero di Dio: il poeta è quasi una seconda creazione di Dio fatta a compiere ed idealizzare la sua prima creazione. E se la distinzione è si netta, come si è potuto confondere la poesia con la scienza? Anche il filosofo ha la sua visione, il suo intuito; ma il filosofo contempla le idee viventi ed operanti ne’ corpi; ed il poeta contempla il corpo, non altro che corpo, ma trasfigurato in modo che di sotto ad esso come di sotto ad un velo scintilli l’idea spesso inespressa. Come si è potuto confondere la poesia con l’eloquenza? Quando Dante ti rappresenta il piede papale, a cui fa esprimere i sentimenti dell’animo, certo non vi ho domandato [p. 213 modifica]allora: — È questo eloquenza o poesia? — Lí il poeta rappresenta per rappresentare: l’oratore rappresenta anch’egli, ma per raggiungere un fine diverso. Ma quando nella poesia s’introduce il drammatico, quando è un uomo che parla d’un altro uomo, la confusione è possibile: che differenza fate voi tra Dante che parla contro i papi e Savonarola che predica contro i papi? Nell’orazione vi è un pensiero che l’oratore dee far trionfare: in poesia non vi è alcuna veritá a dimostrare: i personaggi poetici sono caratteri e passioni, e le loro parole sono rappresentazioni di se stesse, il loro manifestarsi. Mirabeau sulla tribuna si esprime col suo carattere, ma nel suo discorso il sostanziale è il principio ch’egli propugna, al cui servizio pone tutte le forze dell’anima sua: Mirabeau in poesia è un carattere che mi volete rappresentare, ed il suo principio vi sta a dar risalto a quel carattere, a quelle passioni. Il Voltaire nell’Orfano della Cina introduce Idamé, che esortò lo sposo ad uccidersi, per sottrarsi alla servitú; e ponendole in bocca una giustificazione del suicidio, prendendo ad esempio il libero Giappone, il Voltaire si dimentica di esser poeta: la Cina ed il Giappone sono per lui la Francia e la libera Inghilterra: il teatro egli lo trasforma in una cattedra, in una tribuna: la donna cinese diviene un filosofo, uno spirito forte, come si diceva in quel tempo, che disputa e disserta. Sono discorsi, tirades, che si chiamavano un giorno squarci oratorii, e s’applaudivano, che troviamo in Corneille e Racine, in Metastasio ed anche in Alfieri quando mi ragiona di libertá, non si avveggendo che la libertá è allora efficace quando non è un semplice ragionamento, ma un fatto vivo, come nel Guglielmo Tell di Schiller, dove quantunque non sia nominata mai la parola libertá, ci par di respirarla con l’aria co’ monti e con gli uomini della Svizzera. Dante al contrario non ha niente a persuadere a Niccolò III, niente a dimostrare: e non dimostra giá egli che la simonia, l’avarizia, la servilitá de’ papi degradi il papato, screditi la religione. Tutto questo egli lo suppone, non lo discute, non lo mette in quistione; e perché la veritá di queste idee è ammessa da’ lettori, è possibile che elleno sieno poesie, cioè rappresentazione, bastando che [p. 214 modifica]elleno si mostrino per fare il loro effetto. Ma mi direte: — Se queste idee sono ammesse, perché fanno impressione? — Quando un argomento ci si presenta innanzi, esso risveglia dalla mente una parte d’idee morte scientificamente e viventi ancora nel volgo, un’altra parte divenute senso comune, un’altra parte giá esauste, e perciò assottigliate e manierate. E lo scrittore volgare non sa disnebbiarlo da quest’atmosfera pesante: e cosí monsignor Della Casa nella sua ciceroniana orazione a Carlo V, ti dimostra che la clemenza è una virtú, che i principi debbono perdonare, ed altre trivialitá che dovettero annoiare il suo augusto uditore. Difetto in cui cadono per lo piú i cinquecentisti, che perciò sono ineloquenti e spesso noiosi, perché vogliono tutto dimostrare, anche ciò che nessuno loro contrasta. Idee e parole sono cose che si consumano con l’uso: e chi dice la prima volta una cosa, osserva il Voltaire, è un grand’uomo: chi la ripete è un grande sciocco: innanzi all’uomo d’ingegno l’argomento si monda si dirugginisce: innanzi al Machiavelli Tito Livio stato infino allora testo di erudizione e di citazione si rianima, e splende d’un nuovo significato: è questo il non fallibile indizio dal quale conoscere l’uomo d’ingegno. Si credette un giorno che il sangue de’ fanciulli svenati valesse a ringiovanire i vecchi; ma nella vita individuale niente rifiorisce:

                                         Né perché faccia aprii ritorno.
Si rinfiora ella mai, né si rinverde.
     

Ma questo che è un assurdo nell’individuo, è il miracolo della societá; ed è l’ingegno, il sublime fanciullo che rimette nuovo sangue nelle vecchie vene de’ popoli e li rinfranca alla vita. Ma mi direte: — Questo è facile a dire, e ce l’avete giá detto altra volta: in che consiste questo sprigionarsi dall’abitudine? — Lo spettacolo quotidiano impedisce che in noi si generi la reazione: e la reazione sono le immagini del giusto del vero del santo del bello del diritto, che sono in noi, della cui veritá non dubitiamo ma a cui non pensiamo abitualmente: il fatto [p. 215 modifica]la forza la realtá attutano in noi l’immagine del diritto: ciascuno si stringe nelle spalle:

                                    Che giova? Siam nati a servir.      

Quegli uomini che il Berchet dipinge si bene, finiscono col credere natura la cosa piú innaturale del mondo. Or queste immagini, che offuscate ribalenano solo a quando a quando dinanzi agli uomini e prenunziano le ore della risurrezione, sono il culto, l’adorazione, il mondo da cui è circondato l’uomo d’ingegno, il prisma attraverso al quale si coloraci mondo volgare e si ringiovanisce e rinsanguina. E son queste le immagini che risveglia in Dante lo spettacolo del papato scaduto, fatto indifferente a’ suoi contemporanei e che egli ha giá cacciato dalla sua indifferenza, spingendolo all’estremo del brutto. La simonia risveglia in Dante la santitá delle cose divine, il pontificato le indulgenze, che si debbono concedere e sposare al merito, e si vendono e si prostituiscono al denaro; e la simonia esce fuori ribattezzata con nuovo vocabolo e si chiama adulterio. Il simoniaco risveglia in Dante l’immagine di Cristo e degli Apostoli, i tempi aurei della Chiesa primitiva. Il papato che per Niccolò è un vestirsi del gran manto, risveglia in Dante l’immagine ideale del papato con le simboliche chiavi; la rappresentazione di Dio in terra, che lui empie di riverenza, egli la fa rispettare anche in un uomo che si chiami Niccolò III. La Chiesa fatta meretrice de’ re risveglia in lui l’antica Chiesa, gloriosa, «fin che virtude al suo marito piacque». Vi è qui una continuata antitesi tra quello che il poeta vede e quello che sente: tra la vil prosa che gli è innanzi ed il sentimento del bello suscitatosi in lui. Contrasto tanto piú bello quanto meno sviluppato, come quando scoppia dal ravvicinamento di due parole, che stanno insieme nel fatto, e ripugnano e cozzano innanzi all’umana coscienza, come: «calcando i buoni e sollevando i pravi», «fatto v’avete Dio d’oro e d’argento»; ripugnanza istantanea che produce subito una viva impressione. Contrasto anche piú bello, quando lampeggia in una sola parola di doppio contenuto, come [p. 216 modifica]la parola «meretrice», con cui qualifica la servilitá della Chiesa, rimasa proverbiale; o come quando chiama la simonia «adulterio» e l’avarizia «idolatria». Adulterio ed idolatria non solo significano il fatto materiale, ma entra in loro come elemento la santitá del matrimonio ed il vero Dio. Queste idee generose, che qui fanno bello Dante, compariscono e passano. Provatevi a svilupparle, a lavorarle, e voi cadete nel rettorico e nel declamatorio. Un oratore al contrario, che discorrendo del papato moderno ci parlasse di Cristo e degli Apostoli, farebbe ridere, e parrebbe che ci facesse un idillio: perché l’ideale del poeta è l’umanitá, e l’ideale dell’oratore è il tempo e la societá in cui vive. Questo è poesia, non solo perché le idee vi sono rappresentate e non sviluppate, ma ancora perché elle sono manifestazione di un animo appassionato. L’ironia la caricatura il sarcasmo non sono forme oratorie; nell’orazione entrano come passaggi incidenti motti, ma non come sua forma essenziale; una orazione non può essere tutta una caricatura un’ironia, una satira un’invettiva, come ironica è tutta la famosa poesia del Parini, e come sarcastica è quest’invettiva di Dante. È un sarcasmo che si va purificando e raddolcendo infino a che non consuma se stesso. Dapprima il poeta è in collera contro la persona, e comincia col «tu», e nella sua impazienza, dette poche parole, l’assale corpo a corpo ed amaramente l’insulta.

                                    E guarda ben la mal tolta moneta,
Ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
     

Ma in questo pendio dell’ingiuria il poeta si arresta d’un tratto e si raffrena. L’orizzonte s’ingrandisce: la piccola persona di Niccolò si trasforma ne’ papi, nel papato: le idee guadagnano d’ampiezza senza perdere di veemenza: ed all’ultimo la collera vanisce in una certa tristezza spogliata d’ogni amarezza. Qui è altro stile: vi è un ritorno in se stesso, la tristezza dí un uomo dabbene innanzi ad un male a cui non è rimedio, senza stizza deplorando e compiangendo.

E questo è poesia anche per l’ordine non logico, non oratorio; le idee si succedono confusamente, come la fantasia le [p. 217 modifica]suggerisce, e come prorompono dal cuore: rimembranze storiche, citazioni di scrittura, e poi rimembranze storiche intramesse di sarcasmi e sentimenti: è un ordine profondo che il volgo chiama disordine, che contraddice alla logica della ragione, ma che è la logica del cuore umano, irrifíessa e spontanea.

Vedete quanta poesia in Malebolge sopra tanto disgusto! Entrando nel pozzo de’ traditori, anche il disgusto cesserá, che anch’esso esprime movimento e vita: e pure nell’immobilitá del ghiaccio Dante ha potuto concepire il conte Ugolino!