Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/V. Il sarcasmo come forma d'arte nel canto dei Simoniaci

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Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - V. Il sarcasmo come forma d'arte nel canto dei Simoniaci

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Lezione V (XXVII)

[IL SARCASMO COME FORMA D’ARTE
NEL CANTO DEI SIMONIACI]


Quando il difetto ha alcuna gravitá in sé o ne’ suoi accessorii, ed offende il senso morale, la caricatura e l’ironia spariscono. L’uomo non può serbarsi spettatore indulgente e benevolo della umana depravazione: l’artista non può ridere innanzi a Vanni Fucci; non può serbarsi ironico innanzi ad un papa simoniaco.

Io voglio, o signori, esaminarvi un canto rimaso celebre, il canto detto di Bonifazio VIII, non perché Bonifazio ne sia l’eroe, ma perché ne è la vittima: l’eroe di quel canto è Dante. Ma Dante che tiene sotto a’ suoi piedi tre papi, e tutta la societá di quel tempo, sdegni privati, passioni politiche, istituzioni sociali: la poesia è qui radicata nelle intime ossa del medio evo. Fo, dunque, quello di che finora ho potuto far senza; tirato dalla necessitá del mio argomento debbo toccarvi oggi di cose delicatissime, che sollevano le piú contrarie passioni: io il farò con libertá e con misura. Ne’ paesi liberi, dove l’insegnamento e la stampa è senza censura, l’uomo deve esser di censura a se stesso; se voi volete che la legge non venga dal di fuori, dovete averla nella vostra coscienza. Io mi asterrò da ogni allusione: le allusioni in un solo caso non sono una caccia a volgari applausi, un solletico ignobile al pubblico. In un solo caso le allusioni sono un pericolo ed un dovere: negli stati servi, ne’ quali le allusioni, i ravvicinamenti e le idee a doppio senso sono l’unica forma di protesta e di libertá che rimane. A questo coraggio civile un uomo [p. 201 modifica]di cuore non dee mancare; ma qui, astenendomi dalle allusioni, io rendo un omaggio al libero paese in cui mi trovo. Né crediate giá che la poesia per questo abbia a scemar di pregio. Se oggi un Inferno poetico, come quello di Dante, fosse ancora possibile, ed un poeta si avvisasse di porvi dentro il papa vivente; quanti ululati di rabbia da una parte, quanti battimani dall’altra! Questo ha osato di far Dante; e pensate in que’ tempi concitatissimi quanta tempesta di passioni dovè scoppiare a quella poesia. Quelle passioni son morte e la poesia è rimasta. Ed oggi, ancora vi è una scuola storico-politica, la quale, ripullulando le stesse passioni, cerca di farne un’aureola a Dante, e ciascuno lo tira dalla sua; Foscolo ne fa un eretico. Rossetti un settario, Aroux un socialista, Balbo una colomba e la Civiltá Cattolica un santo Padre. Queste passioni morranno anch’esse e la poesia rimarrá. Lasciamo questa critica per loro conforto a’ poeti mediocri, le cui poesie nascono dalle passioni e muoiono con quelle; la vera poesia è come gli Dei di Olimpo, come la Fortuna di Dante, eternamente serena al disopra degli odii e delle opinioni che passano. Imbiancatemi pure la faccia rugosa di una donna, in cui la civetteria sopravviva alla natura; mescolatemi di spezierie piccanti una vivanda insipida; circondatemi di idee accessorie una poesia senza sostanza; ma non imbiancate il marmo di Fidia, la statua di Canova: la bellezza caduca che voi le apponete, guasta la sua vera bellezza, e se volete ammirarla, toglietele quel belletto. Togliamo a Dante il vario belletto che vi hanno apposto i tempi, e guardiamo in lui lui solo, e non altri tempi e non altre passioni: Dante non ne ha bisogno.

E nondimeno le passioni contemporanee hanno un gran potere su’ poeti, e grandissimo l’ebbero su Dante. Vedetelo nel primo ingresso di questo canto:

                                         O Simon mago, [o miseri seguaci,
Che le cose di Dio, che di bontade
Deono essere spose, voi, rapaci,

Per oro e per argento adulterate!]
     
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Che è questo? Da quando in qua Dante ha cominciato un canto con un’apostrofe, con tanta veemenza di parole? Che è avvenuto che egli non ha preso ancora la penna ed è giá si caldo? Qualche cosa dee preesistere nel suo animo che spieghi questo scoppio di collera senza preparazione visibile di antecedenti. Egli è che Dante non ha innanzi a sé un vizio astratto, come baratteria, furto, ecc.; la simonia non è per lui un’idea generale; in quella simonia vi sta un grande odio, il papato, pietra di scandalo in quel tempo, e vi sta un gran sogno, l’impero romano rifatto con Roma a capitale ed a suo giardino l’Italia, e vi sta l’ambasciatore schernito, il partigiano sconfítto, e libertá e patria e famiglia perduta.

Quando si gitta gli occhi cupidi su di alcuna cittá, si comincia dal dire che si vuole proteggerla; i Romani furono i protettori gratis di tutti i popoli. Bonifazio volle anch’egli proteggere Firenze, e vi mandò Carlo di Valois, il quale la protesse si bene, che levata in armi la plebe, oppresse il partito di Dante e tenne per poco il potere. Dante era stato mandato ambasciatore a Roma, appunto per disviar queste trame; ma il gran poeta non era un gran diplomatico e si lasciò infinocchiare da Bonifazio, e lusingato da vane promesse un bel mattino si svegliò senza libertá e senza patria. E qui, in questo canto, vien la sua volta: Bonifazio gli sta sotto i piedi, ed in Bonifazio vi è Bonifazio e il papa e il papato, e vi è la sua patria il suo partito il suo esilio: vi è tutte le passioni che han scaldato mai petto di uomo. Qual è il potere che le passioni hanno esercitato sul suo genio? Le passioni illuminano il genio; ma anche l’offuscano. Lo illuminano, quando sono semplici stimolanti: svegliano la fantasia, scaldano il cuore, avvivano la mente. L’offuscano, quando l’artista vi stagna entro, quando parlando al cospetto del genere umano vi caccia fuori il suo piccolo «io»; quando delineando con l’ardita mente cielo e terra non sa purgare ed idealizzare le sue passioni. Oggi siam caduti ben basso: non ci è cosí minimo torto personale, che tosto non ne parliamo con tutti, e non gonfiamo le gote e facciamo un appello all’Europa. Dante avea ben altre passioni, e ben piú cocenti e ben piú degne di passare [p. 203 modifica]a’ posteri: credete voi che ve ne sia orma qui, dove l’occasione era cosí tentatrice? Credete voi che egli vi parli qui della sua ambasceria e de’ suoi torti; che egli se la prenda corpo a corpo con Bonifazio VIII? Quanto vi è di personale il genio lo ha consumato, e la passione non serve che ad aguzzare, a rendere sensibilmente ingegnosa la sua fantasia. E cosí egli ha raggiunto piú sicuramente il suo scopo. Se non vedessimo che una contesa personale tra Bonifazio e Dante, noi rimarremmo stranieri a questa poesia. Ma no: sotto a’ fatti personali che interessano certi uomini e certi tempi, vi è qualche cosa di eterno, che non è uomo, ma è umanitá. L’individuo sparisce, l’orizzonte si allarga; e di sotto a Bonifazio esce il papato adultero delle cose sacre; di sotto a Dante esce l’umana coscienza che si rivolta. La collera di Dante diviene collera del genere umano, che d’anno in anno, di lettore in lettore, si tramanda e si aggrava sul capo del suo nemico.

Dove è ora la caricatura e l’ironia? Quando io veggo un difetto rivelarsi all’improvviso, io uso la caricatura. Quando io veggo un difetto che cerca mascherarsi, mi metto la maschera anch’io ed uso l’ironia. Quando veggo un difetto grave in sé e per le passioni, attraverso le quali io lo scorgo, che farò io? che fará l’artista? Quella maschera che altri si pone, l’artista gliela strappa dal viso, e lo mostra in tutta la sua nuda laidezza. Nel comico si dee palliare, imbellettare il difetto, perché non paia fuori il disgusto che tien sotto di sé. Nel serio la piaga si dee mostrare in tutto il suo marciume, il vizio in tutta la sua bruttezza. — E che? — mi direte — Bel modo è cotesto di trasformare il brutto, di renderlo poetico! Di questo passo voi giungete all’ultimo disgusto, all’ultima prosa. — Certamente. Tale è l’istinto dell’uomo dabbene, quando ha innanzi a sé un vizio che gli faccia orrore: lo smaschera e lo infanga. Certamente. Voi dovete condurmi il vizio infino all’ultima prosa, ed è da quest’ultima prosa che dee scaturire la poesia. Io vi potrei dire: — Egli è dalla estrema negazione che scintilla l’affermazione. — Ma io non voglio usare forme filosofiche, vi voglio parlare pianamente. Ditemi: — Non è egli vero che spesso [p. 204 modifica]dall’estremo de’ mali spunta il bene, e dall’errore sospinto alle sue ultime conseguenze rampolla il vero? — Vi sono de’ mali su’ quali si scherza, e quando producono inattese catastrofi, le nazioni rinsaviscono e diventano serie; egli è dalla estrema corruzione sociale che scoppiò la rivoluzione francese; è nell’estremo della servitú, che i popoli escono dalla loro indolenza e si svegliano liberi. È in noi un senso intimo, il senso estetico e morale, che giace quieto e sopito nello stato di prosa: in molti non si sveglia giammai: vivono e muoiono prosa. Negli altri si sveglia a rari intervalli, ancor ne’ poeti: non sempre si scrive l’Aminta, talora si scrive Le sette giornate del mondo creato. Che cosa ha virtú di svegliarlo? Lo spettacolo di una straordinaria bellezza, lo spettacolo di una straordinaria bruttezza. La bellezza noi la vagheggiamo e la idealizziamo; vagheggiata si chiama Fornarina, idealizzala si chiama Madonna. La bruttezza, se ella non esce da’ confini dell’ordinario, non ci toglie alla nostra indifferenza; ci si parla tuttodí di furti assassinii e bassezze, materia di conversazione; noi le congiungiamo sbadigliando con il solito: — Come state? — e: — Che bel tempo fa oggi! — La bruttezza, perché faccia impressione, dee essere straordinaria; dee sfidarci, provocarci, dee porsi come contraddizione dirimpetto al nostro intimo senso: il sentimento del bello è suscitato al di dentro dal vedersi al di fuori cosí audacemente negato e contraddetto. Innanzi alla bellezza l’artista vagheggia ed idoleggia; innanzi alla bruttezza reagisce e guerreggia: lá si manifesta come inno; qui si manifesta come satira. E qual è la forma che qui dee sostituirsi alla caricatura e all’ironia divenute impossibili? È il sarcasmo non nel suo senso volgare di motto o frizzo amaro. Il sarcasmo è una forma dell’arte come la caricatura è l’ironia; una forma dell’arte in cui si riuniscono e muoiono le altre forme comiche; una forma dell’arte che distrugge e crea. Il sarcasmo nella sua indignazione ti fa bene una caricatura, ma il momento appresso la guasta e la calpesta; ti fa bene una ironia, ma il momento appresso col suo riso amaro la uccide e la gitta nel fango. Il sarcasmo a poco a poco consuma se stesso. Se egli non sa spiccare l’occhio da quella [p. 205 modifica]personalitá, il vizio lo tiene attratto nella sua orbita ancora che egli repugni, e nel suo linguaggio è qualche cosa di acre, di bilioso, di poco sereno: è il difetto di Giovenale, il difetto di Menzini. Il sarcasmo dee purificare se stesso, quella bile si deve risolvere, quell’amarezza si dee raddolcire; dal fondo oscuro di Malebolge, dalla caricatura, dall’ironia e dal sarcasmo noi dobbiamo riuscire all’aria libera, alla grande poesia. Bonifazio, Niccolò III, Clemente V, il brutto debbono scomparire, e allora ci stará innanzi un uomo bello di passione e di collera, che soprastá loro di tutta l’altezza del suo carattere, di tutta la bellezza della sua anima. Il sentimento morale offeso, comune a tutti, che in noi si chiama virtú ed in lui si trasforma e diviene il genio, fa sgorgare dal suo labbro eloquente una magnificenza d’immagini, uno splendor dí concetti che ti abbaglia ti empie d’ammirazione e ti fa esclamar con Virgilio: «Alma sdegnosa, [— benedetta colei che in te s’incinse!»] e ti fa pender dal suo labbro con la stessa compiacenza di Virgilio:

                                         Io credo ben che al mio duca piacesse,
[Con si contenta labbia sempre attese
Lo suon delle parole vere espresse.]
     

Dalla ultima prosa noi saliamo cosí alla piú alta poesia. Applichiamo.

Vedete un uomo capovolto con le gambe in aria. La pena è qui una caricatura; e voi ve ne avvedete alla prima impressione che ne riceve il poeta. Quel tener di sotto il di su, quello starsene lí fitto come un palo, è il grottesco della pena che si presenta a prima gittata d’occhio. Né la pena è solo una caricatura, ma una crudele ironia. Quest’uomo, che sta con la parte superiore, ch’esprime maggioranza e comando [che] sta con la testa riversata in giú, quest’uomo in terra stava in cima di tutto il genere umano. Caricatura e ironia che non ci rallegrano, che ci fanno pensare; il poeta non dá tempo al riso; la caricatura non è ancora spuntata, che giá il sarcasmo la uccide, sopraggiunge l’immagine infame e vile dell’assassino, fitto in quel tempo [p. 206 modifica]anch’egli in terra. La pena non è solo materiale e l’attinge l’anima del colpevole. Quest’uomo pensa e sente per mezzo de’ piedi che soli paiono di fuori, e simile ad un cieco che ha la vista nel tatto, i suoi cinque sensi sono concentrati nel piede e se sente dolore della fiamma che gli succia la carne, egli piange, «piange con la zanca»; e se sente dispetto, il suo dispetto esprime torcendo i piedi; è il gesto del piede sostituito al gesto della testa e delle mani. E se sente rabbia o rimorso de’ rimproveri che Dante gli fa, la sua agitazione esprime «forte spingando con ambo le piote». È un individuo-specie, è una specie di essere a parte; e la differenza che l’uomo capovolto pone tra sé e gli altri uomini, è che gli altri stanno piantati sui piedi; e se parla di Bonifazio, l’immagine unica che gli presenta quest’uomo è l’immagine opposta al suo stato, lo star diritto su’ pie’; e se parla di Bonifazio a Dante, e dee dire: — Ei non vivrá — ; qual è l’immagine che gli si affaccia? Un altro a cui sepolto in un’oscura tomba il vivere era la luce, disse:

                                    Non fere gli occhi suoi lo dolce lome?      

Per l’uomo capovolto il vivere è lo star piantato su’ pie’, e dice: «ei non stará piantato sui pie’ rossi». Lo spettacolo di un uomo, il cui cervello e i cui sensi sono nel piede, è ben tristo. Un uomo fatto albero ci ha altamente commossi: perché qui non sentiamo pietá? Ma vedete dunque chi è costui. Tutto è mutato intorno a lui: alle pantofole rosse, a’ piedi rossi, com’egli chiama i piedi ancora papali di Bonifazio, è succeduta la rossa fiamma che corre dalle calcagna alle punte; vi è di che far gridare: — Vanitas vanitatum! — Niente sopravvive piú di quello che egli fu in terra, niente fuorché la sua colpa: la terra vive ancora dentro di lui. Dee dire a Dante: — Sappi che io fui papa — e quale è l’immagine che egli sceglie? Che cosa significa per lui l’essere papa? Portare un manto, portare un gran manto che lo distingue dagli altri. Costui, Niccolò III, apparteneva alla famiglia Orsini, e dovendo parlare della sua colpa di avere ammassati tesori per arricchire i nipoti, — piaga comune in quel [p. 207 modifica]tempo che si chiamava il nepotismo — egli scherza sul suo cognome e fa della sua famiglia un’orsa, ed orsatti de’ suoi nipoti. Scherza sulla sua colpa; scherza sulla sua pena: — In terra ho intascato danari e qui sono intascato in una buca. — Né si contenta di far dello spirito sulle sue vergogne, ché ti sciorina ancora le vergogne papali di Bonifazio e di Clemente. Voi vedete quanta infamia il poeta ha gittata su quella colpa e quanta abbiezione su quella infamia; egli è dal profondo di tanta abominazione che scoppia la collera del poeta e la reazione incomincia.

Quando un uomo sente quell’odio vigoroso di cui parla Monnier, quell’odio che ispira, di cui parla Orazio, e si scaglia fieramente contro il vizio, dicesi uomo eloquente. Eloquenza e poesia si confondono insieme. Esaminiamo il contenuto della risposta di Dante per acquistare una base al nostro giudizio.

La stessa azione è diversamente rappresentata; lo stesso fatto fa fremere Dante, il Petrarca, e fa ridere il Boccaccio, il Voltaire e Pietro Aretino. Lo stesso avviene negli individui e nella societá. Il difetto che la prima volta apparisce è come una malattia incognita che gitta spavento ed orrore. A poco a poco si fa indigeno e comune, e vi si celia e scherza sopra: mille sofismi quotidiani imbellettano il vizio. S’introduce cosí il ridicolo l’indifferenza lo scetticismo, e ridiamo de’ nostri mali, e della nostra decadenza e delle nostre catene; i popoli sogliono morire allegramente: essi danzano sulla loro tomba. Per buona ventura ci è una voce che li sveglia, la voce del genio, la cui santa missione è di mondare le cose della scoria e della ruggine, che vi ha apposto il lungo lavoro del tempo, e farcele ribrillare nel loro natio splendore. Il papato avea trascorsi tre stadii infino a Dante. Vescovo di Roma, eguale tra eguali, vivente della caritá de’ fedeli, apostolo e martire, esso fu grande di santitá e di sacrifizio. Molti descrivono oggi questa etá dell’oro del pontificato, e si domandano: — Perché il papato non ritorna a que’ tempi? — Signori, e possono ritornare quei tempi? Può ritornare quella fede schietta, quella candida semplicitá, quell’ardore di popoli ancor nuovi? Dotato da Costantino, secolarizzato da Carlo Magno, il [p. 208 modifica]papato divenne un potere, e vide a’ suoi piedi prostendersi imperatori e re; ambizioso, non abbietto. A’ tempi di Dante il papato veniva schiaffeggiato in persona di Bonifazio VIII, prostituito in persona di Clemente V, e quanto perdea di potere, tanto acquistava di corruzione. Una istituzione per vivere dee avere qualche cosa innanzi a sé, in cui si allarghi e si sviluppi: toltole l’avvenire, stagna ed imputrida. Quando l’aristocrazia fu vinta e toltole ogni avvenire di grandezza e di potenza, volendo rimanere aristocrazia e non sapendo trasformarsi, si contentò di andare nelle corti a servire il suo vincitore: ne’ suoi natii castelli potea dirsi vinta: nelle corti si mostrò degna di esser vinta. Il papato, fuggitogli il potere, si abbandonò a tali licenze, che leggendole vi crediamo appena: eppure gli storici ed i cronisti ne scrivono senza ira, senza maraviglia. Ciò che vediamo e tocchiamo non ci commuove: e noi guardiamo con occhio tranquillo certi misfatti, che riempiranno d’orrore i nostri nipoti. Solo la voce del genio, Dante, il Petrarca, il Savonarola, il Sarpi, risuona nell’universale letargo, radice latente, onde germoglia piú tardi l’albero della rivoluzione.

Tale è il contenuto della risposta di Dante, che esposto da me è una base per un discorso eloquente; ed esposto da Dante è poesia. Dante dice lo stesso che un filosofo ed un oratore; il contenuto è uno; in che è posta la differenza? È un’ardua questione che sará l’argomento dell’altra lezione.