Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XX.

Mio arrivo a Feltre. — Compagnia di comici. — Spettacolosa comitiva. — Mie prime opere comiche. — Miei amori.

Subitochè ricevei la lettera di avviso per andare a Feltre, feci partenza da Chiozza, accompagnato da mio padre, e andai con lui a Venezia a presentarmi a sua eccellenza Paolo Spinelli, nobile veneziano, podestà, o governatore, che io dovevo seguitare. Andammo inoltre a far visita al cancelliere Zabottini, sotto i cui ordini ero per intraprendere le mie occupazioni. Lasciai Venezia pochi giorni dopo, e arrivai in capo a quarantott’ore al luogo di mia residenza.

Feltre, o Feltri, è una città, che fa parte della Marca Trevisana, provincia della Repubblica di Venezia, sessanta leghe distante dalla capitale, ed ha vescovado e molta nobiltà. La città è montuosa, scoscesa, e talmente ingombra di neve in tutto l’inverno, che le porte delle abitazioni nelle strade più anguste rimanendo chiuse dal ghiaccio, bisogna uscire per le finestre dei primi piani. Si attribuisce fra l’altre a Cesare il seguente verso latino: Feltria perpetuo nivium damnata rigori.

Quivi giunto prima degli altri affine di ricevere dal mio predecessore la consegna degli archivi e dei processi incominciati, intesi con piacevole mio stupore, che vi era in città una compagnia di comici fatta venire dal passato governatore, e che contava di dare alcune rappresentazioni all’arrivo del nuovo. Il direttore di questa compagnia era Carlo Veronese, quell’istesso che, trent’anni dopo venne a Parigi a recitar le parti di Pantalone nella commedia italiana, conducendo seco le due figlie, la bella Carolina e la graziosa Cammilla. La compagnia non era cattiva; il direttore, malgrado il suo occhio di vetro, sosteneva le parti di primo amoroso, e rividi con piacere quel Florindo dei Maccheroni da me conosciuto a Rimini, che per esser vecchio non recitava, se non se da re nella tragedia, da padre nobile nella commedia.

Quattro giorni dopo giunse il governatore in compagnia del cancelliere e di un altro uffiziale di giustizia col titolo di vicario, il [p. 59 modifica] quale in questo paese, come in molti altri dello Stato veneto, unisce il suo voto nei giudizi e nelle sentenze a quello del potestà.

Misi pertanto da parte per qualche mese qualunque idea di piacere e di divertimento, e mi occupai con serietà e lavoro, tanto più, che dopo questo secondo governo, nel quale tenevo il posto di coadiutore, potevo aspirare a quello di cancelliere. Percorsi i fogli della cancelleria, e trovandovi una commissione del Senato, trascurata dai miei predecessori, ne resi conto al mio principale, che giudicò l’affare importante, e m’incaricò di continuarlo con tutto l’impegno.

Era questo un processo criminale originato da un taglio di legnami da costruzione fatto nelle foreste della Repubblica, ed erano implicate in questa colpa dugento persone. Abbisognando trasferirsi sul luogo per contestare il corpo del delitto, vi andai io medesimo con agrimensori e guardie, traversando dirupi, torrenti e precipizi. Questo processo faceva grande strepito: era sottosopra tutto il paese, poichè fin da cent’anni si tagliavano i boschi impunemente; vi era perciò da temere qualche tumulto, che avrebbe forse potuto piombare su quel povero diavolo di coadiutore, da cui era stato svegliato il can che dormiva. Per buona sorte questo grandioso processo finì come il parto della montagna. La Repubblica si contentò soltanto di garantire le sue boscaglie per il tempo successivo: il cancelliere non vi perdè nulla, ed il coadiutore restò libero della sua paura. Poco tempo dopo mi s’incaricò di altra commissione molto più piacevole, e di maggior diletto. Si trattava di un processo verbale da eseguirsi dieci leghe lontano dalla città per ragione di una rissa accompagnata da scarica d’armi da fuoco con ferite pericolose. Siccome questo era un paese piano, nel quale vi si cammina costeggiando sempre terre e abitazioni di campagna molto deliziose, impegnai parecchi miei amici a seguirmi; eravamo dodici, sei uomini, sei donne, con quattro servitori. Ciascuno era a cavallo, ed impiegammo dodici giorni in questa piacevole spedizione. In tutto questo tempo non desinammo, nè cenammo mai nel medesimo luogo, e per dodici notti non si prese mai riposo in letto.

Andavamo spessissimo a piedi per strade amenissime circondate di verdeggianti viti, ed ombreggiate da ramose piante di fico; facendo colazione col latte, e qualche volta col quotidiano cibo dei contadini, che è la polenta di granoturco, con la quale ancora si facevano arrosti gustosissimi. Per tutto ove giungevamo si facevano feste, banchetti, allegrie; dove passavamo la sera, vi era ballo, che durava tutta la notte, e le nostre donne sostenevano la loro parte al pari degli uomini. Si trovavano in questa compagnia due sorelle, una delle quali era maritata, l’altra no. Quest’ultima mi andava molto a genio: posso dire che per lei sola avevo messo insieme questo divertimento. Ella era savia e modesta, quanto sua sorella era matta: la singolarità del nostro viaggio ci somministrò il comodo di palesarci a vicenda i nostri sentimenti, onde divenimmo amanti l’uno dell’altra. Il mio processo verbale fu spedito in fretta in due ore di tempo. Nel ritorno prendemmo diversa strada per variar il piacere, ma al nostro arrivo a Feltre eravamo tutti avviliti, rovinati, e rotti, talchè io me ne risentii per un mese, e la mia povera Angelica portò la febbre quaranta giorni.

I sei cavalieri della nostra cavalcata vennero a propormi un’altra sorte di divertimento. Nel palazzo del governo vi era una sala da spettacolo: avevano voglia di cavarne profitto, e mi fecero l’onore di dirmi, che soltanto a riguardo mio avevano concepito il disegno, [p. 60 modifica] e che però mi lasciavano padrone della scelta della rappresentazione e delle parti.

Feci loro i miei ringraziamenti, accettai la proposizione, e col dovuto permesso di sua eccellenza e del mio cancelliere mi posi alla testa di questo nuovo passatempo. Avrei avuto molto desiderio che questo fosse stato del genere comico; e poichè le arlecchinate non mi piacevano, e dall’altro canto mancavano buone commedie, preferii ad ogni altro il genere tragico. Siccome in questo tempo si rappresentavano ovunque le Opere del Metastasio senza musica inclusive, misi le ariette in recitativi, procurai di avvicinarmi meglio che potei allo stile di quel dilettevole autore, e scelsi per le nostre rappresentazioni la Didone, ed il Siroe. Feci la distribuzione delle parti, adattandole al personale dei miei attori, dei quali avevo piena cognizione; riservai per me le ultime e, feci benissimo, essendo nel tragico compiutamente cattivo.

Per buona sorte avevo composte due piccole rappresentazioni; vi recitai due parti di carattere, e così riparai alla mia riputazione. La prima di queste era il Buon Padre, la seconda la Cantatrice, l’una e l’altra si trovò buona, e la mia maniera di recitare assai passabile per un dilettante. Vidi l’ultima di queste due composizioni a Venezia poco tempo dopo. Un giovane avvocato se n’era impadronito; la dava per sua, e ne riceveva i complimenti; ma avendo avuto l’ardire di farla stampare sotto il suo nome, ebbe il dispiacere di vedere smascherato il suo plagio. Feci tutto quel che potei per impegnare la mia bella Angelica ad accettare una parte nelle nostre tragedie, ma non fu possibile; ella era timida, e poi non l’avrebbero permesso i suoi genitori. Venne bensì a vederci, ma questo piacere le costò molte lacrime, poichè era gelosa, e soffriva molto nel vedermi in familiarità con le mie belle compagne.

La povera ragazzina mi amava teneramente e con piena fiducia; l’amava io pure con tutta l’anima, e posso dire che questa sia la prima persona che veramente abbia amata. Ella aspirava a divenir mia moglie, e tale sarebbe realmente divenuta, se alcune particolari e ben fondate riflessioni non mi avessero distolto. La di lei sorella maggiore era stata una rara bellezza, e divenne brutta dopo i primi parti. La minore aveva la medesima carnagione, i medesimi lineamenti, ed era una di quelle delicate bellezze, che l’aria istessa fa appassire, e che il minimo incomodo scompone: io n’ebbi un’evidente prova. La fatica del viaggio fatto insieme l’aveva enormemente cangiata. Ero giovine; e se mia moglie dopo qualche tempo avesse perduta la sua freschezza, prevedevo qual sarebbe stata la mia disperazione. È vero, che questo era troppo ragionare per un amante; ma o fosse virtù, o debolezza, o incostanza, lasciai Feltre senza sposarla.