Memorie inutili/Carlo Gozzi ai suoi concittadini fratelli

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Carlo Gozzi ai suoi concittadini fratelli

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Carlo Gozzi ai suoi concittadini fratelli
Ai suoi amati concittadini
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MEMORIE INUTILI

della vita

di CARLO GOZZI

scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà


PARTE PRIMA

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Libertà Eguaglianza

CARLO GOZZI

a’ suoi concittadini fratelli

Io fo pubblicare colla stampa un libro intitolato: Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi, scritte da lui medesimo, e da lui pubblicate per umiltà.

Cotesto libro da me cominciato a scrivere l’ultimo giorno d’aprile dell’anno 1780, condotto a fine nell’anno stesso, e che contiene il corso de’ non considerabili avvenimenti relativi alla mia vita, dalla mia infanzia sino all’anno sopra accennato, fu costretto dalla violenza a rimanere inedito e imprigionato sino al tempo presente.

Nella dedicatoria ch’io fo di quel mio libro agli amati miei concittadini, dirò loro qualche cosa più delle violenze e delle sopraffazioni, che ho dovuto soffrire da parecchi, un tempo detti «Grandi», sopra alcuni casi che stanno nelle mie Memorie, e lo dirò loro soltanto per farli ridere, se mi riesce, come fecero rider me, per quell’istinto che Dio m’ha voluto donare, imperturbabile, indifferente e sempre risibile sugli eventi a’ quali va soggetta l'umanità.

Sembrerà impossibile che, scrivend’io le inutili e frivole memorie della mia vita l’anno 1780, sia giunto ad empiere due tomi d’un volume palpabilissimo. Più riflessioni da non curare, che accidenti da leggere volentieri, accrebbero la mole.

Que’ due tomi sono pieni d’inezie opportunissime a far sbavigliare e dormire coloro che patiscono delle vigilie, ma io li pubblico per umiltà. [p. 4 modifica]

Sono scritti divisi in capitoli facetamente e comicamente al possibile, perch’io non mi sono mai giudicato persona seria e d’importanza.

Non mi costrinsi a proccurare di scriverli coll’esattezza, col sapore e colle grazie della nostra lingua, un giorno tanto in pregio e ridotta omai un bastardume da non poter più legittimarla.

Il miglior capitale che contenga il mio libro è una candida verità, la qual verità può accrescere in me, per avventura, argomento d’umiliazione per il giudizio degli uomini inclinati alle cose sublimi.

Scrissi soltanto le memorie della mia vita, delle mie debolezze e degli errori miei, che furono molti, perch’io non scrivo le memorie della vita, delle debolezze e degli errori altrui, che non so quanti sieno, salvo ciò ch’ebbe con me relazione.

Siccome dall’anno 1780 Dio m’ha lasciata la respirazione sino all’anno 1797 in cui siamo, abborrend’io l’ozio, mi intrattenni scrivendo anche un terzo tomo, nel quale, oltre alle memorie della mia vita posteriori a quelle de’ due primi tomi, inserisco la mia romorosa commedia intitolata: Le droghe d’amore, che io realmente trassi da una commedia di Tirso de Molina scrittore spagnuolo, intitolata: Celos con celos se curan, riducendola io ad uso de’ nostri teatri, insin dal dicembre 1775. Infelice commedia per sé, ma fatta romorosa dalle altrui mal suscitate collere, dalle altrui fanciullesche sospettose imprudenze, dalla altrui cecità, da’ malnati altrui maligni sopraffattori puntigli e maligne vendette, e dalla altrui esosa venalità; le quali cose si leggeranno, da chi vorrà leggerle, in tutta la loro estensione, con tutti gli aneddoti non ancora palesi e tutta la ingenuità, nel secondo tomo delle mie insulse Memorie.

Non si troveranno nell’opera mia, né tratti d’un livore che non ho mai avuto, né turpi ritratti, né vocaboli infamatori.

Arrossirei se avessi lordati i miei fogli con simili brutture e laidezze, le quali dinotano un disperato d’animo, ebbro d’ira, ineducato, vendicativo, basso e feccioso, in chi ha, non solo [p. 5 modifica]la brutalità di scriverli, ma anche quella di farli stampare e pubblicare a mente fredda e serena.

Qual uomo di senno potrà negarmi che ci sieno dei mortali di talento e d’onore, ma dominati dalla voluttà, da un cieco amor proprio e da una gigantesca presunzione ch’hanno concepita di lor medesimi, i quali per non sapere o non volere uniformarsi a’ sistemi di vivere del paese loro, né bilanciarsi col proprio stato, né con le condizioni tiranniche nelle quali è posta talora la misera umanità dove nacquero, né con la forza a cui devono star soggetti, massime se aspirano a de’ luminosi o lucrosi uffizi, combattuti e incalzati, possano farsi un grosso numero di nimici anche ingiusti e ordirsi un turbine di sciagure da lor medesimi senza avvedersi?

Tali uomini, niente filosofi, e da essere compianti nell’indole loro, vedono sempre gli oggetti delle loro sventure fuori da loro medesimi, e si tessono grado grado, per temperamento, tante avversità, che con dolore de’ loro ottimi consanguinei e de’ sensibili lor patrioti, gl’inducono a odiar la patria, a fuggire disperati, bestemmiando; e si può dire di questi, in Venezia, ciò che disse un giorno Boelò a Parigi:

     Mais le jour qu ’il partit, plus defait et plus blème
     que n’est un penitent sur la fin du caréme,
     la colère dans fame et le feu dans les yeux,
     il distila sa rage en des tristes adieux.

Miserabile quel scrittore che nel giustificarsi non vede in sé che meriti e argomenti da panegirici; trova in un esercito di persone oggetti, in suo confronto, da condannare e satireggiare, e crede di poter intitolare apologie de’ libelli.

Ho sempre compiante le crudeli sciagure sofferte, e in vero sofferte, in parte con ingiustizia, dall’autore del libro stampato in Stockholm l’anno 1779, e sparso per le famiglie di Venezia l’anno 1780; libro giudicato esecrando da’ possenti ingiusti oppressori ingiuriati, e libro che da quelli si volle affogato nella dimenticanza e nella obblivione, come scandaloso e sacrilego, con un mal impiegato e mal comandato silenzio. [p. 6 modifica]

Le vertigini dell’acceso cervello orgoglioso di quel scrittore iracondo per de’ puerili falsi principi contro un’innocente opera scenica e contro me, non hanno mai concesso di fargli comprendere la verità, ch’egli per le sue guercie imprudenze e per un’orba sua credulità, ed io per una dabbenaggine ed una semplice condiscendenza, fummo ambidue vittime della sopraffazione, del puntiglio, della forza, del mal talento, e del capriccio de’ suoi, e non miei, possenti nimici.

Quella forza medesima ch’ebbe l’inumano divertimento di sacrificar lui e me, tenne anche ferma la mia volontà di smentirlo e convincerlo di mendacio, come avrei fatto senza indugio con delle prove innegabili, e di farlo ritrattare di quanto egli scrisse di menzognero e calunnioso rapporto a me solo, siccome egli s’è impegnato, onestamente o furbescamente, di fare, se lo convincessi, nella pagina cinquantadue della stampa di Stockholm 1779 e nella pagina centotrentuna della ristampa fatta in Venezia in quest’anno 1797 di quel suo libro, composto di millanterie, di senapismi, non meno che di sofismi e di papaveri.

I miei concittadini rileveranno nella dedicatoria che io fo loro delle mie scipite Memorie e della mia cattiva commedia, la violenta costrizione a cui ho dovuto più volte inchinarmi e abbassare il capo, tacendo e ridendo filosoficamente, per non aver voglia di staccarmi da’ miei congiunti, da’ miei amici, né d’abbandonare la patria in cui nacqui, e nel grembo della quale voglio morire senza chiedere uffizi, senza pretese di grandeggiare, senza inquietarmi e senza odiare nessuno.

Se non ho meriti di conseguenza verso la mia patria, averò certamente quello d’averla amata, d’averla intrattenuta lecitamente e di non averla disturbata giammai.

Sperava di potermi appropriare il lieve merito d’aver sostenuto in essa con la mia penna, per quanto ho potuto, una morale ch’io credo sana, ma lo scrittore del nord, da me commiserato nella sua stoltezza, procelloso, furente e stizzito, co’ propositi che si leggeranno nelle mie Memorie, ha proccurato di guastare anche questo picciolo merito ch’io mi lusingava d’avere, abbaiando e ululando a tutto l’universo ch’io sono un falso filosofo, [p. 7 modifica]un ipocrita, un impostore, un caupone, e quelle altre delizie che si leggono nella soavità del suo inchiostro educato.

Mi rincresce di sapere fondatamente che l’arte di tutti coloro, i quali per levar degli ostacoli allo sfogo delle loro passioni viziose, è non solo quella di seminare nelle famiglie una morale a rovescio con de’ spiritosi sofismi, ma principalmente quella di dare alla radice e di screditare con tutto lo sforzo loro i fedeli sostenitori della morale più sana e più utile.

Siamo però tutti uomini soggetti ad errare, ed io non ho mai ostentato di farmi considerare qual filosofo, e come lo scrittore del settentrione ha cercato di dipingermi col suo fantastico, rabbioso, sgorbiatore pennello, e s’egli ebbe la cortesia di citare qualche mio verso con un suo bistorto proposito, riguardo a me, non avrebbe dovuto ommettere quest’altro, che contiene una mia proposizione, che fu tante volte pronunziato ne’ teatri, e si legge pubblicato a stampa nelle capricciose opere mie teatrali:

Filosofia v’è ben, ma non filosofo1.

L’error pernizioso non istá negli errori remissibili all’umana fragilitá, ma consiste nel far divenire l’errore virtú e la virtú errore nella testa degli uomini e delle femmine, dal vizio ingegnoso, eloquente ed industre mascherato da filosofia, e nel portare in trionfo il vessillo d’una tale animalesca vittoria.

Si troverà molto da leggere, spezialmente nel secondo tomo delle mie Memorie, in su questo argomento, ch’io credo, e dovrebbe essere creduto da tutti, d’una terribile conseguenza sulle popolazioni.

Nella saggia ed ottima libertà data alle stampe in questi beati giorni di ristabilita democrazia, tra le molte cose sane, istruttive e lodevoli che questa provvida libertà mette sotto le nostre riflessioni, non so tuttavia negare che l’avidità d’un inonesto mercimonio o della affamata indigenza dei nostri librai, non abusi di cotesta amabilissima libertà, colla sbrigliata furibonda [p. 8 modifica]pubblicazione di infinite schiocchezze, che scoprono una verminosa e fetente piaga d’educazione e fanno vergogna alla nazion nostra; e di molte inopportune arditezze, che amareggiano e irritano degli animi dissimili dall’animo mio, e contrarie a quella pace e a quella buona armonia ch’io sono certo che chi presiede al Governo brama di coltivare per la perfetta universale fratellanza e cordialità che si vuol stabilita e consolidata.

Il libro uscito da Stockholm l’anno 1779, ch’io m’era dimenticato, senza scordarmi le ingiuste sopraffazioni che oppressero il commiserabile autore di quello, e libro risuscitato da non so quante liberali stamperie di Venezia in quest’anno 1797, contiene moltissime verità, ed è peccato che il cruccio e il veleno che acciecano, piú che una filosofica calma, l’abbiano dettato.

Devo però altamente protestare che quanto contiene quel libro contro di me, non è che uno sfogo menzognero suggerito dalle false immagini che lo scrittore s’è formato di me senza conoscermi punto, come proverò ad evidenza; delle infantate supposizioni, che pertinacemente volle alimentare nella di lui sconnessa e rovente fantasia, e una rabbiosa da lui sperata vendetta contro di me d’una sciagura, che da se medesimo s’era tessuta con industria particolare.

La novella stampa fatta in Venezia di quel libro in quest’anno, che ha rinverdite delle fastidiose dicerie popolari in cosa ch’io giudicava dimenticata, m’obbliga finalmente a pubblicare le Memorie della mia vita sinora tenute inedite dalla violenza. Nel secondo tomo di quelle si leggerà, tra la serie de’ miei avvenimenti, per incidenza, estesamente e in una ingenua e chiara verità innegabile, avvalorata da que’ testimoni impuntabili che avrò nominati, che lo scrittore di quel libro ebbe fracido torto in quanto il tosco del suo infiammato cervello l’ha indotto a contaminare una quarta parte delle sue pagine di lorde invettive e d’asserzioni mendaci contro me.

S’egli avesse confessate nel suo libro le intrinseche vere cagioni che lo ridussero allo strettoio della disperazione, si troverebbe che le cause delle sue infelicità furono ben altro che una cattiva commedia da lui fatta divenire una satira personale, [p. 9 modifica]e da lui querelata, lacerando, per quanto ha potuto, con una vaneggiatrice biliosa empietà l’onore dello scrittore di quella.

Rimetto il giudizio a’ lettori delle mie mansuete veraci memorie.

Mi lusingo d’essere conosciuto dalla maggior parte de’ miei concittadini, di lineamenti diversi affatto da quelli co’ quali il cruccio indecente e bugiardo s’è incagnato a voler disegnare il carattere mio, invaghito di fare una vendetta d’un’offesa ch’io non mi sono giammai nemmen sognato di fare.

Tuttavia, siccome non sono conosciuto da tutto quel mondo in cui egli ha fatto piovere il suo libro vendicativo, e siccome io non ho la facoltà di guarire dalla indiscretezza, dalla ignoranza, dalla malignitá, né quella d’infondere un giusto criterio in tutti i mortali, potrebbe darsi che nella mente di alcuni di questi prendesse vigore a torto quel materiale volgare proverbio: «chi tace conferma».

È soltanto per ciò, che, valendomi d’una benefica libertà data alla stampa, levo anch’io dal suo sepolcro dove giaceva da diciassett’anni il mio manoscritto, di cui forse averei fatto unicamente un assai magro legato nel mio testamento, e lo fo uscire da’ torchi al pubblico.

Nella letargica taciturnità della mia lingua, non patirono però letargo giammai, né il mio guardo, né il mio udito, né la mia mente, e meno di quelli la penna mia.

Credo d’avere un picciolo numero di nimici, i quali si prendano la briga d’essermi nimici senza sapere il perché. Per gli accurati e rigidi esami e processi ch’io fo con frequenza a me medesimo, devo confessare di non comprendere cotesto perché nemmen’io.

Al picciolo numero de’ miei nimici, se però è vero ch’io gli abbia, non potrei che replicar loro un detto di Dante antico.

Un mulattiere cantava de’ versi di Dante, storpiandoli. Dante lo pregò dolcemente a non diformare i suoi versi. Quel brutale per tutta risposta gli fece in faccia parecchie fiche. La brigatella d’amici ch’era d’intorno a Dante gli chiedeva perché sofferisse quella ingiuria e lo stimolava a punire colui. Dante, [p. 10 modifica]volgendosi agli amici suoi, con una calma e una freddezza indicibile, rispose loro: — Non darei una delle mie fiche per cento delle sue.

Io non possiedo le doti di quel poeta filosofo immortale, ma tengo un poco della di lui natura.

Salute e fratellanza.


Stampato dal Cittadino Palese, li 13 mietitore, anno I della Libertà Italiana. Registrato a sola salvezza della proprietá.

Note

  1. Atto primo, scena decima dell’Augel belverde.