Memorie inutili/Ai suoi amati concittadini

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Ai suoi amati concittadini

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Carlo Gozzi ai suoi concittadini fratelli Proemio
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a’ suoi amati concittadini

CARLO GOZZI

Sparsa la voce che Pietro Antonio Gratarol, fu secretario dell’ora ex-senato di Venezia, era fuggito, giudicai placidamente ch’egli fosse fuggito per non poter piú star fermo.

M’increbbe la di lui fuga, e per i suoi congiunti e per lui, e perché sapeva da quali funeste conseguenze, fuggendo egli dall’uffizio che sosteneva, sarebbe stato fulminato dall’ex-governo.

Le persone ch’hanno il diletto, ch’io non ebbi mai, di leggere tutte le gazzette del mondo, trovarono in una gazzetta forestiera che Pietro Antonio enunziava di star scrivendo un suo libro intitolato: Narrazione apologetica, e minacciava che l’averebbe fatto comparire tra noi.

Venezia è la vera sede della curiositá, ed attendeva con una gran aviditá quel fenomeno.

Chi diceva: — Il Gratarol fa bene. — Chi diceva: — Il Gratarol fa male. — Io non diceva ch’egli facesse né bene né male, e considerava soltanto che ognuno è padrone della sua carta, delle sue penne e del suo inchiostro.

Comparve finalmente quel libro cometa da Stockholm, uscito dalle stampe del cavalier Fougt, e fu donato con secretezza da’ fautori di Pietro Antonio a molte famiglie della nostra patria, le quali se lo prestavano l’una all’altra colle dita alla bocca ordinando silenzio.

Alcuni decantavano quel libro scritto con una penna dell’ala dritta dell’angelo Gabriele. Alcuni altri sostenevano ch’egli era scritto con una penna dell’ala sinistra di Belzebú. Io ero [p. 12 modifica]certissimo ch’egli era scritto con una penna di pollo d’India o con una penna d’oca.

Si narrava che in quel libro molte dame e molti signori de’ piú cospicui, massime di quelli che presiedevano allora al governo, erano dipinti co’ piú neri colori del libello. Il mormorio era sordo, perché ognuno aveva di quelle paure che oggi non s’hanno piú.

Mi si diceva all’orecchio ch’io ero trattato in quel libro da falso filosofo, da ipocrita, da malvagio, e con altri deliziosi epiteti dell’urbanitá dello scrittore, per que’ propositi che si leggeranno nelle Memorie della mia vita.

Io non alterava punto il mio istinto risibile, perdonava ad un cervello rovente e disperato, e quasi lo ringraziava ch’egli m’avesse posto nel ruolo di tante gran signore e di tanti gran signori.

Mi si esibiva il libro da leggere, stimolandomi a rispondere. Io ricusai per alcuni mesi una tale lettura, perché non vado in traccia giammai di cimentare la mia umanitá a concepire dell’odio, e perché veramente commiserava nel mio interno il povero Pietro Antonio, qualunque fosse la causa vera della sua disperazione, emigrazione e delle sue afflittive sciagure.

Finalmente un giorno trovai sul mio scrittoio quel libro gemma. Chiesi chi l’avesse recato. Mi fu risposto che una bella signora, la quale non aveva voluto palesare il suo nome, mi faceva quel regalo.

Non volli far torto al dono d’una bella signora, e mi costrinsi a leggere la Narrazione apologetica.

Quantunque molti tratti di quel libro rabbioso dovessero tenermi risvegliato, cercai del soccorso in una infinitá di tabacco ed in molti caffè, per non addormentarmi sulla lettura e per giugnere all’ultima pagina.

Passando sopravvia ad alcune narrazioni, accuse e invettive contenute e scagliate da quel volume per lacerare la riputazione di parecchi personaggi, in quel tempo tremendi, per delle ragioni che per avventura aveva l’infelice emigrato, ma ragioni che, o di consimili o di poco differenti da quelle, avevano [p. 13 modifica]molti altri meno di lui superbi e piú di lui saggi e sofferenti, sarei passato sopravvia anche alle narrazioni, accuse e invettive libellatrici, ch’egli s’è ricreato a scrivere contro me, se non le avessi vedute appoggiate a delle solenni menzogne.

Un pensiero che coteste menzogne potessero esser credute veritá e cagionare qualche mala impressione a discapito del mio carattere, sugli animi di coloro che non mi conoscono, s’io le lasciassi correre tacendo, m’indusse a voler rintuzzare la menzogna e a porre in chiarezza la veritá, soltanto però riguardo a me solo, con delle prove di fatto, in una operetta gioviale che mi recai tosto a comporre.

M’ingannava a creder lecita l’opera mia. Il mio determinato disegno non poté rimanere occulto. Fui chiamato da una persona, che doveva impormi, la quale mi disse con gravitá: — Io so che scrivete contro quell’esecrabile libro del Gratarol. Non si deve tener viva per nessun modo la memoria di quella nefanditá con risposte e confutazioni. Ella deve morire da se medesima e seppellirsi nella obblivione.

— Mi perdoni — rispos’io chinando il capo; — quel libro, creduto proibito, diverrá anzi ricercato maggiormente. Se ne faranno delle replicate edizioni nelle estere stamperie per mercimonio, perché questo è il destino de’ libri proscritti.

Giudicherei miglior consiglio il far ricamare quel libro di vibrate, saporite, laconiche annotazioni. Farei stampare di quello un numero grande di esemplari in Venezia, dinotando superioritá e franchezza d’animo. Comanderei che fosse venduto pubblicamente da’ nostri librai al prezzo di soli cinque soldi per esemplare.

Questo, al parer mio, sarebbe il miglior partito per strozzare la curiositá e per far cadere quel libro nell’avvilimento e nella dimenticanza.

Io, per altro, non fo che un picciolo opuscolo scherzevole che riguarda a me solo, per smentire delle bugiarde asserzioni e per ributtare de’ titoli, che nulla hanno che fare con me, di impostore, d’ipocrita, di malvagio, di caupone, ecc., de’ quali quel disperato scrittore ha voluto onorarmi. [p. 14 modifica]

La persona rispettabile si eresse con maggior serietá dicendomi: — Sono tanti i personaggi illustri e maggiori di voi lacerati in quel libro temerario, i quali sorpassano, che dovete sorpassare anche voi. È stabilito e fissato dalla maturitá che non sia scritta linea in quest’argomento. Siete avvertito. Siate prudente.

L’ordine mi parve tiranno, ma siccome io non voleva abbandonare né la patria né i parenti né gli amici per andare a Stockholm a far porre alle stampe il mio opuscolo dal cavalier Fougt, mi raccomandai alle mie solite risa, lacerai i miei fogli, e usai quella prudenza che usavano i personaggi illustri.

Nulla ostante però alla politica austeritá minaccievole usata verso la mia penna obbediente, si vide sbucare un libretto scritto in Milano a’ dí 16 d’aprile dell’anno 1780 e stampato tra i Svizzeri, intitolato: Riflessioni d’un imparziale sopra la «Narrazione apologetica» di Pietro Antonio Gratarol.

Io mi sono sforzato a non voler credere che quel libro sia stato proccurato da alcuni de’ personaggi illustri i quali avevano fissato politicamente e filosoficamente di sorpassare in silenzio le sanguinose ingiurie grataroliane, quantunque alcuni elogi, poeticamente caricati in quel libro, mi facessero sospettare che ciò fosse. Egli mi fu mandato per alcuni momenti, forse per farmi leggere degli elogi che quell’opuscolo conteneva anche per me.

Ringraziai col cuore l’«Imparziale», ma rifiutai quegli elogi, prima perché io non li meritava, poscia perché erano tanto gravi, che dinotavano non avere lo scrittore alcuna cognizione del mio intrinseco carattere niente grave.

L’«Imparziale» non era informato de’ veri aneddoti a me relativi. Il suo libro era una confutazione riflessiva, non sprezzabile, ma mancante di calore, e soprattutto mancante affatto della grand’arte di farsi leggere, mancanza fatale nell’argomento di cui si trattava.

Fu deciso dal nostro universale, che non si prende incomodo d’occupar molto l’applicazione, che quell’opuscolo era una sciocchezza illeggibile, e fu condannato al gran buio della dimenticanza.

Questa condanna non aveva a far nulla con me. Pure chi avrebbe creduto che il nostro intelligente universale, salvi pochi [p. 15 modifica]intelligenti, si determinasse a giudicare con pienezza di voti e con perfetta credenza, ch’io fossi l’autore di quell’opuscolo battezzato con nome d’insigne sciocchezza? — Buono! — diss’io: — oltre ad un menzognero libello, e a’ titoli d’ipocrita, d’impostore, di malvagio, ecc., vengo illustrato dall’opinione presso che generale de’ miei patrioti anche con quello di «scrittor sciocco»?

Volli allora pubblicare un lepido, calzante, solenne manifesto, per guarire le menti dalla cieca credenza adottata, facendo intendere altamente ch’io non aveva scritto il libro dell’«Imparziale» per levarmi d’addosso ed espurgarmi almeno dell’epiteto di scioccone.

Siccome aveva io letto a qualche mio amico il frizzante ed efficace manifesto, sparsa la voce, non so come, del mio apparecchio, fui chiamato dalla solita persona da temersi, con ordine di portar meco il mio scritto. V’andai. Le presentai da leggere l’opuscoletto. Lo lesse facendo di quando in quando la bocca ridente. Sperai di non trovare opposizione violente. M’ingannava.

Al termine della lettura mi fu intuonato, con un sussiego da dar soggezione: — Trattengo appresso di me questi vostri fogli, perché non possiate darli alle stampe e pubblicarli.

Addussi tutte le mie lecite, buone e belle ragioni, spezialmente sulla credenza estesa che il libro pubblicato dall’«Imparziale» fosse mio parto.

Furono parole gettate. Mi si rispose che in Venezia non si doveva stampar nulla che risvegliasse la memoria dell’orribile libro del Gratarol, e ch’io dovessi usare la prudenza e il giudizio.

Il Gratarol avrebbe dato delle pugna all’aria ad una tale sopraffazione. Le risa di Democrito vennero in mio soccorso, e, per non imitare le di lui furie, soffersi taciturno, pazientemente, dall’opinione de’ pochi intelligenti anche il titolo di scioccone.

Ma perché il libro dell’«Imparziale» non fece altro effetto che quello di far eruttare il Vesuvio del bilioso Gratarol, si vide ben tosto comparire una novella edizione della giudicata sacrilega opera sua, con un’aggiunta d’annotazioni, che mettevano in chiarezza i nomi e le persone verso le quali egli aveva scoccate [p. 16 modifica]le sue velenose saette. Per tal modo la rigida, matura massima stabilita da’ saggi, di non risvegliare memorie colle stampe di quel libro, aveva l’intento che s’è veduto.

De’ sopiattoni, librai e non librai, inondarono Venezia di quel libello, facendo un traffico opulentissimo, celatamente, di un’opera che, per dire il vero, non aveva altro merito che quello d’un’arrischiata temeritá né altro rilievo che quello della proibizione che la voleva affogata.

Io aveva preveduto e predetto questo avvenimento, e perciò non maravigliai; ma siccome vidi inconcusse e replicate alla perpetua memoria degli uomini, delle menzogne che potevano rannuvolare l’onor mio, sopra il quale, per paterna ereditá di natura sono veramente sensibile e non molto moderno filosofo, mi posi a scrivere i frivoli accidenti del corso della mia vita, dall’etá mia puerile sino all’anno 1780, a solo fine di poter anche narrare per incidenza e pubblicare in una purissima veritá l’avvenutomi col stravagante e balzano cervello del Gratarol nell’occasione della mia commedia: Le droghe d’amore, onde porre a confronto, e sempre relativamente a me solo, la candida veritá, colla sordida menzognera calunnia immaginata da un uomo che io sempre compiansi nelle sue vere sciagure non meritate, e a torto cruccioso verso di me, e con me irragionevole, pertinace, e inflessibile.

Sperai d’esser padrone di poter dare al pubblico il quadro de’ non considerabili accidenti della mia vita, i quali non potevano far altro effetto che quello d’annoiare de’ lettori e di umiliar me medesimo, ed io m’assoggettava volentieri a questo misero effetto, per non lasciar vive e credibili col mio silenzio delle bugiarde diffamatorie mordacitá a me dirette.

Prendeva uno sbaglio anche nella lusinga di questa mia padronanza. Il mio divisamente innocente non poté star celato, e mi fu suonato di nuovo che dal ravvivare discorsi sul libro del Gratarol, Dio mi guardasse.

Beato risibile istinto mio! Posi a dormire in un sonno profondo tra i miei scartafacci scordati, due grossi volumi ch’io aveva scritti, perché volli star desto io sopra a quel «Dio mi guardasse dal pubblicarli». [p. 17 modifica]

Se un’ampia libertá data oggidí alle stampe non avesse quasi fatto venire alle pugna de’ nostri librai per rinnovellare a gara la stampa della Narrazione apologetica del Gratarol, omai schizzata da non so quanti torchi di Venezia, i miei volumi dormirebbero ancora i lor sonni tranquilli, tanto piú quando si è sparsa voce che l’infelice autore della Narrazione, che fu sempre da me commiserato e compianto nelle sue sventure e ne’ pregiudizi della sua alterata fantasia, sia mancato di vita.

Quantunque egli abbia voluto a forza dichiararsi nimico mio, io non potei mai essere nimico di lui, e se de’ librai di Venezia, che colla unica morale teologia del loro interesse abusano con dolore de’ saggi a diritto e a rovescio d’un’utile e provvida libertá, non avessero avuta la gentilezza di allagare novellamente la patria mia delle false e ingiuste detrazioni a me dirette, non scuoterei oggi dal sonno i miei volumi, cogliendo il punto d’una democratica libertá, ch’io non contaminerò giammai.

I miei volumi, che sin dall’anno 1780 erano due, sono oggi tre, perché mi sono spassato a scrivere anche gli accidentuzzi della mia vita dall’anno 1780 sino all’anno 1797, in cui ho ancora gli occhi aperti per godere della vista de’ miei amici, e ancora la penna tra le dita per occuparmi ne’ pochi momenti che mi restano d’ozio.

Nel secondo volume potrannosi leggere, da chi sa leggere o non ricusa di leggere, diffusamente in una luminosa veritá, le cose avvenute tra me, la comica Ricci e il Gratarol; e chi le avrá lette potrá poscia giudicare liberamente se l’apologetico scrittore potesse dilaniare il mio nome per quanto ha potuto, con la guercia e biliosa sua penna.

Non è mia colpa se tutti gli onorati testimoni da me nominati a’ casi che ingenuamente ho scritti, non abbiano potuto vivere dall’anno 1780 all’anno 1797. Ce ne sono però tanti di vivi, ancora in cognizione del vero, quanti bastano ad attestare ch’io non ho lordate le mie narrazioni colla menoma ombra della menzogna. Oltre a ciò, la veritá semplice porta con sé un certo lume naturale, che la fa palese ad ognuno. [p. 18 modifica]

Nel terzo volume, oltre a’ pochi successi posteriori a’ primi della mia vita, si potrá leggere nella sua puritá la mia cattiva, ma innocente commedia: Le droghe d’amore, che fece tanto accendere il cervello combustibile del povero Gratarol, per quelle cause che si potranno leggere nel tomo secondo.

Tutto il voluminoso ammasso di queste mie agghiacciate inutilitá è da me donato liberamente ad uno de’ piú onesti e piú abili veneti stampatori, a cui lo consegno benedicendo il di lui capitale.

Ardisco di dedicare a voi, amatissimi miei concittadini, cotesto ammasso, non giá perch’io presuma di dedicarvi cosa degna della vostra attenzione e del vostro merito, ma puramente per farvi giudici sopra la Narrazione del Gratarol a me relativa e sopra la narrazione mia relativa a lui, onde possiate decidere s’egli abbia avuta ragione alcuna di andar a vomitare sopra de’ fogli nella Svezia delle ingiurie brutali contro me, dipingendo il carattere mio con le schife tinte del suo ingiusto livore.

Impresso egli ostinatamente ch’io abbia voluto malignarlo ed esporlo alle pubbliche risa in una commedia per delle ragioni che s’è immaginato, o credè ciecamente, senza voler condannare la sua incauta direzione e senza riflettere a’ suoi possenti nimici, da’ quali io medesimo fui amareggiato per sua cagione, volle svelenarsi e vendicarsi solennemente, componendo una acerba commedia, a suo modo, di me, nella sua Narrazione.

Egli non mi conosceva e ricusò di conoscermi, e per ciò la sua commedia non istá bene al mio dosso.

Supplisco io a’ difetti della sua commedia, e nelle Memorie della mia vita, dalla mia infanzia sino all’etá mia senile, vi do la intera, vera e autentica commedia del mio naturale e del mio carattere.

La mia commedia è lunga ed insulsa, ma per lo meno averete in essa dipinto sul vero il mio originale ritratto, e conoscerete che il mal talento del collerico Gratarol non poteva sapere né lodarmi né infamarmi senza cadere nelle falsitá.

Se mai v’incontrate a qualche rispettosa mia espressione verso de’ personaggi detti «Grandi» nel passato governo [p. 19 modifica]riflettete ch’io scrissi negli anni trascorsi, e ch’io rispettai, rispetto e rispetterò sempre chi presiede a’ governi con mansuetudine.

So ben vedere che nessuno deve aver desiderio di aver ragguaglio degli accidenti della mia vita, e che la serie delle mie Memorie contenente puerilitá, studi inutili, debolezze, piccioli viaggi, infermitá, vita militare, dissensioni domestiche, occupazioni nel fòro, filologiche controversie, composizioni teatrali, lunghe pratiche, tanto contrarie all’ipocrisia, da me tenute con una falange di comici, di comiche, di ballerini, di ballerine, di canterini, di canterine, riflessetti e osservazioncelle sopra la umanitá in generale, non può interessarvi, né tenervi fermi sulla lettura.

S’io pubblicassi le Memorie della mia vita colla presunzione di darvi un’idea grandiosa di me, e non le pubblicassi per umiltá, averei debito di sentire de’ pungenti rimorsi.