Memorie storiche della città e marchesato di Ceva/Capo XLI - Convento di S. Agostino.

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Capo XLI - Convento di S. Agostino.

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CAPO XLI.


Convento di S. Agostino.



Nell’anno 1473, il rev. Padre Giovanni Battista Poggio Genovese, personaggio di gran merito e di santità di vita, fondatore della congregazione detta dal suo nome dei Battistini, col concorso di Gerardo e Teodoro Marchesi di Ceva, eresse canonicamente la casa dei padri di S. Agostino, sulla sponda destra del Tanaro su d’un poggio ameno e salubre, solo diviso dalla città di Ceva, dalla piana del Broglio. Questi due Marchesi provvidero di abitazione e di Chiesa i nuovi Padri e loro cedettero alcune terre pel loro sostentamento. Quest’erezione fu riconosciuta da Sisto IV, con apposita bolla in data 11 giugno 1472, secondo anno di suo pontificato. In questa bolla si legge che i suddetti marchesi Gerardo e Teodoro unitamente al comune di Ceva diedero ai padri eremitani di S. Agostino: «Domum unam ad usum et habitationem fratrum, cum Ecclesia sub titolo S. Mariæ de gratia, campanile, campana, claustro, cimiterio et aliis necessariis officinis, etc.»

La Chiesa di questo convento sotto il titolo della Madonna delle grazie fu consecrata li 23 ottobre 1530 da monsignor Gioan Maria Biglioni cittadino di Mondovì1. [p. 222 modifica]Il già più volte citato monsignor Peruzzi nella sua visita pastorale del 1585, descrive minutamente la chiesa di questo convento che chiama dei Frati eremitani dell’ordine di S. Agostino, della Congregazione della Consolazione della città di Genova, e dice che è satis ampia et decens, ma mancante in parte di volta che decretò si portasse a compimento.

Parlando dell’altar maggiore, lasciò scritto che avanti il Santissimo Sacramento che ivi si conservava, ardeva una lampada provvista d’olio dal Rev. D. Ludovico Vescovo di Nizza. Occupava in allora quella sede vescovile monsignor Giovanni Ludovico Pallavicino, figliuolo del marchese Giulio Cesare dei marchesi di Ceva, il quale da Vescovo di Saluzzo passò a vescovo di Nizza nel 1584, ed ivi cessò di vivere nel 1598, come già si disse altra volta. Non vi sembra luogo a dubitare che non fosse quest’insigne prelato il benefattore di questa Chiesa.

Quest’altare era dotato di reddito da Ludovico Giogia.

Venivano in seguito quello dell’Annunziata, della famiglia Mina, di S. Catterina, dell’Ascensione di N. S. G. C, della

[p. 223 modifica]Natività di G. C, di S. Luigi, di S. Stefano, di S. Giovanni Battista, di S. Giacomo, e di S. Nicola, chi più chi meno in buon stato, ma quasi tutti sprovvisti di croce, di candellieri, e la chiesa sprovvista di confessionali.

Trovò il convento privo di cinta per la clausura, e libero l’accesso alle persone di sesso diverso, e decretò che si circondasse di convenienti mura il giardino ed il sito circostante, e si stabilisse la clausura a norma delle Pontificie prescrizioni.

Questo convento ricorda un avvenimento strano e disgustoso narrato dal Gioffredo e dal Guichenon, qual si è il seguente.

Verso il fine dell’anno 1647 fu in esso arrestato D. Giovanni Gandolfo dell’ordine dei Fogliensi (riformati di san Bernardo) che essendo stato scoperto autore di certo almanacco2 nel quale si predicevano cose infauste sopra la persona di S. A. R. (che fu poi Carlo Emanuele II) e dei suoi ministri, si era egli da Torino ricoverato alle Carcare dove aveva qualche parente, sperando di trafugarsi a Savona, e nello stato del genovesato. Ma negatogli il passaporto dagli spagnuoli che colà comandavano, erasi ricoverato in questo convento dove fu fatto prigione come si disse. Si fece condurre a Torino, per potersi ivi col debito modo ed ordine istruire il processo. Nel veder venire dalle finestre della prigione quelli che erano stati comandati per fargli scorta, aprendosi col ferro una vena tentò di accelerarsi la morte, il che non gli riuscì per la vigilanza dei suoi custodi.

«Instruttogli il processo (dice il Gioffredo) avanti un commissario pontificio si lasciò intendere aver egli saputo [p. 224 modifica]quanto aveva predetto, dal già senatore Bernardo Sillano, e dal già Valletto della camera di S. A. R. Giovanni Antonio Gioia, quali diceva aver più volte passati seco discorsi circa i modi coi quali si fosse potuto levar occultamente di vita il Duca, al qual fine avevano concertato di servirsi di incantesimi nei quali tra gli altri ingredienti dovea adoperarsi un’immagine di cera con una spina di certo pesce, che Andrea Masino Nizzardo si era incaricato di far loro avere. Di questi tre complici da lui indicati; il Sillano dopo aver negato il tutto, sopraffatto dall’età, dalla debolezza contratta per una lunga indisposizione, e dalla malinconia, spirò senz’altra violenza l’anima in prigione, il Gioia avendo ne’ tormenti confirmato il delitto appostogli, fu condannato per crime di lesa Maestà in primo capo, la qual sentenza fu eseguita sì contro lui, che qualche tempo dopo contro il Gandolfo, quantunque per essere ecclesiastico vi si frapponessero varii intoppi.» (a detta del Guichenon fu strangolato in prigione dopo aver confessato che tutto quanto aveva detto era vero).

Ai tempi del barone Vernazza, il capo del D. Gandolfo serbavasi ancor esposto in una nicchia praticata nel pilastro delle forche innalzato fuori porta Palazzo in Torino.

Davide Bertolotti illustre autore della storia di Casa Savoia stampata in Torino nel 1830 a pag. 134, del 2° vol., così parla di questa trama infernale.

«Era destino che la reggenza di Madama Reale dovesse correre tutta quanta fra pericoli, angosce e disastri.

Un frate entusiastico e visionario che facea pubblicamente professione d’astronomia e d’astrologia, e segretamente di fattucchieria, ordì una congiura contro al giovine Duca. Essa venne scoperta e giustiziati ne furono i complici.

La voce popolare, dice il Saluzzo, accusava Gandolfo e i suoi complici dell’aver tentato di far perire il Duca con sortilegi e malie, e conficcando spilletti ed aghi nel busto [p. 225 modifica]in cera del giovine Principe. Sembra che quest’assurda fantasia acquistasse credito nel popolo il quale affannoso mirava la salute di Carlo da qualche tempo illanguidire.»

Della scoperta di questa congiura diede avviso Madama Reale alla Città di Ceva, assicurandola dei sensi di sua riconoscenza per l’amore e fedeltà dimostratale in tale occorrenza. Così nel libro degli ordinati del 1648, N. 24, a carte 20.

Ritornando al convento degli Agostiniani diremo che con R. Patenti 13 marzo 1798 ne venne decretata la soppressione, e messe in vendita le cascine di sua spettanza.

Il convento colla chiesa e qualche fondo adiacente, fu poi venduto dal governo francese a certi signori Pietro Silvano e Pietro Boasso. A quest’ultimo toccò in parte la chiesa ed il convento, che furono da lui miseramente distrutti per trarre profitto dei materiali.

Questa distruzione richiama alla memoria una predizione fatta da un vecchio, laico Agostiniano ad un chierico Cevese, da cui l’apprese, lo scrittor di queste memorie, all’epoca che questo chierico fatto sacerdote trovatasi in età ottuagenaria.

Negli ultimi anni d’esistenza di questo convento, erasi talmente rilasciata la disciplina monastica da diventare oggetto di scandalo. Una sera questo buon laico venerando, per santità di costumi, avanti la porta della chiesa, disse sospirando allo stesso chierico: Oh se sapesse come vanno le cose in questo convento. Se andiamo avanti di questo passo, non resterà più di questo sacro chiostro, pietra su pietra. Cosi avvenne pur troppo.

Certo padre Giovanni Francesco Franco fu Giovanni Battista Nizzardo Agostiniano, per l’affezione che aveva alla sua religione, fece acquisto d’una porzione di questo convento, attigua all’attuale cimitero vi fece praticar un sotterraneo che dovea servirgli di sepolcro, con sopra una piccola cappella. Vi fu difatti sepolto li 3 ottobre 1825. Questo degno ministro del Signore lasciò di sè ottima fama presso i cittadini [p. 226 modifica]di Ceva, vi insegnò rettorica, e fu precettore di Carlo Marenco e del notaio Giansecondo Rovea, che lasciò erede d’ogni suo avere. Godeva della stima e benevolenza dei più distinti cittadini Cevesi, di modi assai gentili e di carattere franco, e conversar ameno, lasciò memoria di detti spiritosi ed arguti. Trovandosi oppresso dal male, nell’ultima sua malattia fu visitato da un distinto personaggio, il quale per fargli coraggio ebbe a dirgli: padre, non si perda d’animo, che la sua fisonomia non presenta sintomi allarmanti, e lui sorridendo disse: Vatti a fidare della faccia d’un frate.

Nell’anno 1843 li 4 gennaio, la compagnia del suffragio fece acquisto dal suddetto signor notaio Rovea di quel resto di convento che fu ridotto a chiesa mortuaria sotto il titolo di S. Agostino, molto frequentata dai cittadini Cevesi, i quali ben sovente vi fan celebrar messe pei loro defunti.



Note

  1. Vi era nella Chiesa suddetta la iscrizione relativa alla sua consecrazione fatta da M. Biglione, Vescovo Cononiense o Conacense, o di Cahonia, Vicario Generale del Vescovo di Mondovì Carlo de Camera, ed Arciprete della stessa Cattedrale, colla licenza del Vescovo d’Alba.
    L’iscrizione per avventura ci fu conservata dal dotto e benemerito Can. e Cav. Grassi nelle sue Memorie storiche della Chiesa di Monteregale in Piemonte ecc. Torino MDCCXXXIX, Stamperia Reale; ed è la seguente;

    Ad laudē eterni et ōipotētis Dei
    Ad honrē Bē Spqūe ginis Mē
    Grā loci Ceve consecrata fuit
    Psēs Ecclesia
    1530 D. 23 octobris
    Q. fuit Dnīca Dies per verēdiss
    Imū Dinū Dminū Ioanē Mariā
    De Biglionibus de Mōnteregali
    Epm Canonhiesē Archipresbitq. ec.
    Chat.lis ejusdē Civitāt. et Vicar. gnalē
    Eyusdē Diocesis de licēn. R.mi D.ni Epi
    Alben et Comit.

    (A. B.)

  2. Due almanacchi stampati in Mondovì per l’anno 1648 da Rosso e Gislandi, uno piccolo intitolato: Almanacco astrologico; e l’altro grande intitolato: Accademia planetaria. Quest’ultimo conteneva la predizione della morte di Madama Reale. Non si trovano nella Tipografia del Grassi, ma sono citati dal Cibrario nella Storia di Torino. (A. B.)