Michele Strogoff/Parte Seconda/Capitolo X. Baikal ed Angara

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Parte Seconda - Capitolo X. Baikal ed Angara

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Jules Verne - Michele Strogoff (1876)
Traduzione dal francese di Anonimo
Parte Seconda - Capitolo X. Baikal ed Angara
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CAPITOLO X.

baikal ed angara.


Il lago Baikal è situato a millesettecento piedi sopra il livello del mare. È lungo circa novecento verste, largo cento, La sua profondità non è nota. La signora di Bourboulon riferisce, al dire dei marinaj, che esso vuol essere chiamato il signor mare. Se lo si chiama è signor lago, subito va in collera. Nondimeno, stando alla leggenda, nessun Russo mai vi si è annegato.

Questo immenso bacino d’acqua dolce, alimentato da più di trecento fiumi, è incorniciato da una magnifica cerchia di montagne vulcaniche. Non ha altro sfogo che l’Angara, il quale, dopo d’essere passato ad Irkutsk, va a gettarsi nell’Yenisei, un po’ a monte della città d’Yeniseisk. Quanto ai monti che l’incoronano, formano un ramo dei Tunguzi e derivano dal vasto sistema orografico degli Altai.

Già, a quel tempo, il freddo s’era fatto sentire. Come accade in questo territorio, soggetto a condizioni climateriche tutte sue, l’autunno sembrava dover essere assorbito in un precoce inverno. S’era ancora ai primi giorni d’ottobre. Il sole lasciava oramai l’orizzonte alle cinque pomeridiane, e le lunghe notti facevano scendere la temperatura allo zero dei termometri. Le prime nevi, che dovevano persistere fino all’estate, [p. 19 modifica]imbiancavano già le vette circostanti del Baikal. Durante l’inverno siberiano, questo mare interno, congelato per una grossezza di molti piedi, è solcato dalle slitte dei corrieri e dalle carovane.

Sia che si manchi spesso ai riguardi dovuti, chiamandolo il signor lago, o per qualunque altra ragione più meteorologica, il Baikal è soggetto a violenti tempeste. Le sue onde, brevi come quelle di tutti i Mediterranei, sono molto temute dalle zattere, dalle prame, dai battelli che lo solcano d’estate.

Era alla punta sud-ovest del lago che Michele Strogoff era arrivato, portando Nadia, tutta la cui vita si concentrava per così dire negli occhi. Che potevano essi aspettarsi in questa parta selvaggia della provincia, fuorchè morirvi di stanchezza e d’inedia? Eppure, quanto rimaneva a fare di quel lungo tragitto di seimila verste perchè il corriere dello czar avesse a raggiungere il suo scopo! Null’altro che sessanta verste sul litorale del lago, fino alla foce dell’Angara, ed ottanta verste dalla foce dell’Angara fino ad Irkutsk: in tutto centoquaranta verste, ossia tre giorni di viaggio per un uomo valido e vigoroso, anche a piedi.

Poteva egli, Michele Strogoff, essere quest’uomo?

Il cielo, senza dubbio, non voleva metterlo a tal prova. La fatalità che lo perseguitava parve volerlo risparmiare un istante. Quest’estremità del Baikal, questa porzione della steppa che egli credeva deserta, e tale è infatti in ogni tempo, non lo era allora.

Una cinquantina d’individui stavano riuniti nell’angolo che forma la punta sud-ovest del lago.

Nadia vide subito quel crocchio, appena Michele [p. 20 modifica]Strogoff, portandola in braccio, sboccò dalla gola delle montagne.

La giovinetta dovette temere un istante che fosse un drappello tartaro, mandato per battere le rive del Balkal, ed in tal caso la fuga sarebbe stata impossibile ad entrambi. Ma Nadia fu subito rassicurata in proposito.

— Dei Russi! esclamò.

E, dopo quest’ultimo sforzo, si chiusero le sue palpebre e la sua testa ricadde sul petto di Michele Strogoff.

Ma erano stati veduti, ed alcuni di questi Russi, correndo loro incontro, trassero il cieco e la giovinetta in riva ad un piccolo greto a cui era ormeggiata una zattera.

La zattera stava per partire.

Codesti Russi erano fuggitivi, di condizioni diverse, che il medesimo interesse aveva riunito in quel punto del Baikal. Respinti dall’avanguardia tartara, essi cercavano di rifugiarsi in Irkutsk, e non potendo giungervi per terra, dacchè gli invasori avevano presa posizione sulle due rive dell’Angara, speravano d’arrivarvi scendendo il corso del fiume che attraversa la città.

Il loro disegno fece palpitare il cuore di Michele Strogoff. Un’ultima speranza entrava nel suo piano. Ma egli ebbe la forza di dissimulare volendosi serbare incognito.

Il proposito dei fuggitivi era semplicissimo. Una corrente del Baikal rasenta una riva superiore al lago fino alla foce dell’Angara. Gli è questa corrente che doveva servir loro a giungere anzitutto allo sbocco del Baikal. Di là ad Irkutsk le rapide acque del fiume dovevano trascinarli con una velocità di dieci o dodici verste all’ora. In [p. 21 modifica]un giorno e mezzo essi potevano dunque essere in vista della città.

Mancava in quel luogo qualsiasi battello, ed era stato necessario supplirvi con una zattera, o meglio un traino di legno, simile a quelli che se ne vanno solidamente alla deriva su per i fiumi siberiani. Una foresta d’abeti, che sorgeva sulla riva, aveva fornito l’apparecchio galleggiante. I tronchi, legati con vimini, formavano una piattaforma sulla quale sarebbero state comodamente cento persone.

Gli è su questa zattera che Michele Strogoff e Nadia furono trasportati. La giovinetta tornò in sè. Le venne dato un po’ di cibo, come al suo compagno. Poi, accomodata sopra un letto di foglie, cadde subito in profondo sonno.

A quanti lo interrogarono, Michele Strogoff non disse nulla dei fatti accaduti a Tomsk. Egli si spacciò per un abitante di Krasnoiarsk, il quale non aveva potuto giungere ad Irkutsk prima che le truppe fossero giunte sulla riva mancina del Dinka, ed aggiunse che, molto probabilmente, il grosso delle forze tartare aveva preso posizione avanti alla capitale della Siberia.

Non v’era dunque un momento da perdere. D’altra parte il freddo diventava sempre più intenso. La temperatura, durante la notte, scendeva sotto zero. Si erano già formati dei ghiaccioli alla superficie del Baikal. Se la zattera poteva manovrare facilmente sul lago, non sarebbe lo stesso fra le rive dell’Angara, caso mai i ghiacci venissero ad ingombrarne il corso.

Dunque, per tutte queste ragioni, bisognava che i fuggitivi partissero senza indugio.

Alle otto pomeridiane furono allentati gli [p. 22 modifica]ormeggi e, sotto l’azione della corrente, la zattera seguì il litorale. Lunghe pertiche maneggiate da qualche robusto mujik bastavano a correggere la direzione.

Un vecchio marinajo del Baikal aveva preso il comando della zattera. Era costui uomo sui sessantacinque anni, colla faccia abbronzata dalle brezze del lago. Gli scendeva sul petto una barba bianca foltissima. Un berretto di pelo gli copriva la testa dall’aspetto grave ed austero. La sua larga e lunga zimarra, stretta alla cintola, gli cadeva fino ai calcagni. Questo vecchio, taciturno, seduto a poppa, comandava col gesto e non pronunciava dieci parole in dieci ore. Del resto tutta la manovra si riduceva a mantenere la zattera nella corrente che filava lungo il litorale senza spingersi al largo.

Abbiamo detto che Russi di differenti condizioni avevano preso posto sulla zattera. Infatti, ai mujik indigeni, uomini, donne, vecchi e fanciulli, si erano aggiunti due o tre pellegrini sorpresi dall’invasione durante il loro viaggio, alcuni monaci ed un ministro. I pellegrini portavano il bastone da viaggio, la fiaschetta appesa alla cintola e salmodiavano con voce lamentosa. Uno veniva dall’Ukrania, un altro dal mar Giallo, un terzo dal golfo di Finlandia. Quest’ultimo, già molto innanzi negli anni, portava alla cintola un piccolo salvadanajo chiuso a catenaccio come se fosse stato appeso al pilastro della chiesa. Di quanto raccoglieva nel suo giro lungo e faticoso, nulla era per lui, che non possedeva neppure la chiave di quel catenaccio che si apriva solo al suo ritorno.

I monaci venivano dal nord dell’impero. [p. 23 modifica]Avevano lasciato da tre mesi quella città di Arcangelo, a cui certi viaggiatori trovano con ragione la fisionomia d’una città dell’Oriente. Essi avevano visitato le isole Sante, presso alla costa di Carelia, il convento di Solovetsk, il convento di Troitsa, quelli di Sant’Antonio e Santa Teodosia a Kiev, l’antica favorita dei Jagelloni, il monastero di Simeonof a Mosca, quello di Kazan, al pari della sua chiesa dei Vecchi Credenti, e si recavano ad Irkutsk, portando la sottana ed il cappuccio di sajo.

Quanto al ministro era un semplice prete di villaggio; uno di quei seicentomila pastori popolari che conta l’impero russo. Era vestito miseramente al pari dei mujik, e non era niente di meglio di essi, in verità, non avendo verun potere nè dignità nella Chiesa, coll’unica facoltà di battezzare, di sposare, di seppellire e di lavorare come un contadino il suo pezzo di terra. Egli aveva potuto sottrarre la moglie ed i figliuoli alla brutalità dei Tartari, relegandoli nelle provincie del Nord, ed era rimasto nella sua parrocchia fino all’ultimo momento; poi aveva dovuto fuggire, ma essendo chiusa la via d’Irkutsk, gli era toccato spingersi fino al lago Baikal.

Questi diversi religiosi, radunati a prua della zattera, pregavano ad intervalli regolari, alzando la voce in mezzo a quella notte silenziosa, ed alla fine d’ogni versetto della preghiera usciva dalla loro bocca, lo Slava Bogu, gloria a Dio.

Nessun incidente segnalò la navigazione. Nadia era rimasta immersa in una profonda meditazione. Michele Strogoff aveva vegliato accanto a lei. Il sonno non aveva preso su di lui se non a lunghi intervalli, ed il suo pensiero vegliava sempre medesimamente. [p. 24 modifica]

Sul far del giorno, la zattera ritardata da una brezza violenta che contrariava l’azione della corrente, era ancora a quaranta verste dalla foce dell’Angara; molto probabilmente non vi potrebbe giungere prima delle tre o quattro pomeridiane. Questo non era un inconveniente, tutt’altro, perchè i fuggitivi dovevano allora scendere il corso del fiume durante la notte, e l’oscurità avrebbe favorito il loro arrivo ad Irkutsk.

Il solo timore, più volte manifestato dal vecchio marinajo, si riferì alla formazione dei ghiacci alla superficie delle acque. La notte era stata freddissima. Si vedevano ghiacci numerosi correre verso l’ovest spinti dal vento.

Quelli non erano a temere, poichè non potevano penetrare nell’Angara di cui avevano oramai superata la foce, ma si doveva credere che gli altri provenienti dalle parti orientali del lago potessero essere attirati dalla corrente ed impigliarsi fra le due rive del fiume. Da ciò difficoltà e ritardi possibili e forse anche un ostacolo insuperabile che arresterebbe la zattera.

Michele Strogoff aveva dunque un immenso interesse di sapere quale fosse lo stato del lago, e se i ghiacci si mostrassero in gran numero. Siccome Nadia era sveglia, egli la interrogava spesso, ed essa gli rendeva conto di tutto quando accadeva alla superficie delle acque.

Mentre i ghiacci andavano così alla deriva, avvenivano fenomeni curiosi alla superficie del Baikal. Erano magnifici zampilli di sorgenti d’acqua bollente, uscenti da taluni di quei pozzi artesiani che la natura ha scavato nel letto medesimo del lago. Questi zampilli s’innalzavano a grande altezza e s’allargavano in vapori fatti iridescenti dai raggi [p. 25 modifica]solari, che il freddo condensava quasi subito. Questo curioso spettacolo avrebbe certamente meravigliato lo sguardo di uno che avesse viaggiato tranquillamente e per diletto su quel mare siberiano.

Alle quattro pomeridiane fu segnalata dal vecchio marinajo la foce dell’Angara fra le alte roccie granitiche del litorale. Si vedeva sulla riva destra il piccolo porto di Livenitchnaja, la sua chiesa e le sue poche case erette sul margine.

Ma, cosa molto grave, i primi ghiacci venuti dall’est andavano già alla deriva fra le sponde dell’Angara, e perciò scendevano verso Irkutsk. Per altro il loro numero non poteva essere ancora tanto grande da ostruire il fiume, nè il freddo tanto intenso da saldarli gli uni agli altri.

La zattera giunse al piccolo porto e vi si arrestò. Colà il vecchio marinajo aveva deciso di fermarsi un’ora per fare alcune riparazioni indispensabili: i tronchi disgiunti minacciavano di separarsi ed importava legarli saldamente perchè potessero resistere alla corrente dell’Angara, che è rapidissima.

Durante la bella stagione, il porto di Livenitchnaja è una stazione di sbarco o d’imbarco pei viaggiatori del lago Baikal, sia che si rechino a Kiakta, ultima città della frontiera russo-chinese, o sia che ne ritornino. Esso è dunque molto frequentato dai battelli e da tutte le piccole navi di cabotaggio del lago.

Ma in questo momento Livenitchanaja era abbandonata; i suoi abitanti non avevano potuto rimanere esposti alle depredazioni dei Tartari, che vagavano oramai per le due rive dell’Angara. Essi avevano mandato ad Irkutsk la piccola flotta di [p. 26 modifica]battelli e di barche che sverna solitamente nel loro porto, e, muniti di tutto quanto avevano potuto portar seco, eransi rifugiati a tempo nella capitale della Siberia orientale.

Il vecchio marinajo non s’aspettava dunque di raccogliere nuovi fuggitivi al porto di Livenitchnaja, eppure al momento in cui la zattera si accostava, due passeggieri, uscendo da una casa deserta, corsero sull’argine.

Nadia, seduta a poppa, guardava con occhio sbadato.

Per poco non le sfuggì un grido. Prese essa la mano di Michele Strogoff, che a quell’atto rialzò il capo.

— Che hai, Nadia? domandò egli.

— I nostri due compagni di viaggio, Michele.

— Quel Francese e quell’Inglese che abbiamo incontrato nelle gole dell’Ural?

— Sì.

Michele Strogoff, sussultò, perchè il severo incognito da cui non si voleva dipartire rischiava d’essere svelato.

Infatti non era più Nicola Korpanoff che Alcide Jolivet ed Harry Blount vedevano ora in lui, ma bensì il vero Michele Strogoff, corriere dello czar. I due giornalisti l’avevano già incontrato due volte dopo la loro separazione avvenuta alla posta di Ichim, la prima nel campo di Zabédiero, quando egli con un colpo di knut sfregiò la faccia di Ivan Ogareff, la seconda a Tomsk, quando fu condannato dall’Emiro. Sapevano dunque che pensare di lui e della sua vera qualità.

Michele Strogoff prese subito il suo partito.

— Nadia, disse egli, appena quel Francese e quell’Inglese saranno imbarcati, pregali di venire a me. [p. 27 modifica]

Erano infatti Harry Blount ed Alcide Jolivet, che non il caso, ma la forza degli avvenimenti aveva condotti al porto di Livenitchnaja, al pari di Michele Strogoff.

Come è noto, dopo di aver assistito all’entrata dei Tartari a Tomsk erano partiti prima della selvaggia esecuzione che terminò la festa. Non dubitavano dunque che il loro antico compagno di viaggio fosse stato messo a morte, ed ignoravano solo che l’Emiro si fosse accontentato di farlo acciecare.

Essendosi dunque procurati dei cavalli, avevano abbandonato Tomsk la sera medesima, col fermo proposito di scrivere le loro cronache dagli attendamenti russi della Siberia orientale.

Alcide Jolivet ed Harry Blount si diressero a marcie forzate verso Irkutsk. Speravano bene di giunger prima di Féofar-Kan, e vi sarebbero riusciti senza l’apparizione improvvisa di quella terza colonna venuta dalle regioni del sud per la vallata dall’Yenisei. Al pari di Michele Strogoff, essi ebbero tagliata la via prima ancora di aver potuto giungere al Dinka; donde la necessità per essi di ridiscendere fino al lago Baikal.

Quando giunsero a Livenitchnaja trovarono il porto già deserto. D’altra parte era loro impossibile entrare in Irkutsk oramai investita dalle armate tartare. Erano dunque là da tre giorni, ed impacciati molto, quando giunse la zattera.

Fu allora comunicato loro il disegno dei fuggitivi; vi era certamente qualche probabilità che essi potessero passare non visti di notte e penetrare in Irkutsk. Risolvettero dunque di tentar la cosa.

Alcide Jolivet si pose subito in rapporto col [p. 28 modifica]vecchio marinajo, e gli chiese un posto per sè e pel compagno, offrendo di pagare quel qualsiasi prezzo che avesse a chiedere.

— Qui non si paga, gli rispose gravemente il vecchio marinajo; si rischia la vita, nient’altro.

I due giornalisti s’imbarcarono, e Nadia li vide accomodarsi a prua della zattera.

Harry Blount era sempre il freddo Inglese, che le aveva rivolto appena la parola durante tutta la traversata dei monti Urali.

Alcide Jolivet pareva un po’ più grave del consueto, e si converrà che la sua gravità era giustificata da quella delle circostanze.

Alcide Jolivet erasi adunque accomodato a prua della zattera, quando sentì una mano appoggiarsi al suo braccio.

Si volse e riconobbe Nadia, la sorella di colui che era, non più Nicola Korpanoff, ma Michele Strogoff, corriere dello czar.

Un grido di stupore stava per isfuggirgli, quando vide la giovinetta appoggiare un dito alle labbra.

— Venite, gli disse Nadia.

E con aria indifferente Alcide Jolivet, facendo cenno ad Harry Blount d’accompagnarlo, la seguì.

Ma se grande era stato lo stupore dei giornalisti incontrando Nadia su quella zattera, fu senza confini quando essi videro Michele Strogoff che non potevano creder vivo.

Al loro appressarsi Michele Strogoff non si era mosso.

Alcide Jolivet erasi voltato verso la giovinetta.

— Egli non vi vede, signori, disse Nadia; i Tartari gli hanno bruciato gli occhi! Il mio povero fratello è cieco! [p. 29 modifica]

Un vivo sentimento di pietà si dipinse sulla faccia di Alcide Jolivet e del suo compagno.

Un istante dopo, entrambi, seduti presso a Michele Strogoff, gli stringevano la mano ed aspettavano ch’egli parlasse.

— Signori, disse Michele Strogoff a voce bassa, voi non dovete sapere chi sono io, nè quello che sono venuto a fare in Siberia. Vi chieggo di rispettare il mio segreto. Me lo promettete voi?

— Sull onore, rispose Alcide Jolivet.

— Sulla mia fede di gentiluomo, aggiunse Harry Blount.

— Bene, signori.

— Possiamo noi esservi utili? chiese Harry Blount; volete che vi ajutiamo a compiere la vostra impresa?

— Preferisco agir da solo, rispose Michele Strogoff.

— Ma quei cialtroni vi hanno bruciato gli occhi, disse Alcide Jolivet.

— Ho Nadia, e gli occhi suoi mi bastano.

Mezz’ora più tardi la zattera, dopo di aver lasciato il piccolo porto di Livenitchnaja, penetrava nel fiume. Erano le cinque pomeridiane. Stava per scendere la notte, che doveva essere oscura e freddissima, perchè la temperatura era già sotto zero. Alcide Jolivet ed Harry Blount, se avevano promesso il segreto a Michele Strogoff, non però lo lasciarono. Cianciarono con lui a bassa voce, ed il cieco, compiendo quello che già sapeva con ciò che essi gli appresero, potè farsi un’idea esatta dello stato delle cose.

Era certo che i Tartari investivano ora Irkutsk e che le tre colonne avevano fatto il loro congiungimento. Non si poteva dunque dubitare che [p. 30 modifica]l’Emiro ed Ivan Ogareff non fossero dinanzi alla capitale.

Ma perchè tanta fretta di giungervi da parte del corriere dello czar, ora che la lettera imperiale non poteva essere da lui consegnata al gran duca, e mentre egli non ne conosceva il contenuto? Alcide Jolivet ed Harry Blount non lo compresero meglio che non l’avesse compreso Nadia.

Del resto non fu fatta parola del passato se non nel momento in cui Alcide Jolivet credette di dover dire a Michele Strogoff:

— Vi dobbiamo quasi delle scuse per non avervi stretto la mano prima della nostra separazione alla posta d’Ichim.

— No, voi avevate il diritto di credermi un vile.

— Ad ogni modo, aggiunse Alcide Jolivet, avete magnificamente frustato la faccia di quel miserabile, ed egli ne porterà il segno un pezzo.

— Non un pezzo! rispose semplicemente Michele Strogoff.

Mezz’ora dopo la partenza da Livenitchnaja, Alcide Jolivet ed il suo compagno erano al fatto delle crudeli prove per le quali erano successivamente passati Michele Strogoff e la sua compagna. Essi non potevano che ammirare senza restrizioni un’energia che solo l’affetto della giovinetta aveva potuto eguagliare. E di Michele Strogoff pensarono esattamente ciò che ne aveva detto lo czar a Mosca. «Davvero costui è un uomo.»

In mezzo ai ghiacci che trascinava la corrente dell’Angara, la zattera filava rapidissima. Un mobile panorama si spiegava lateralmente sopra le due rive del fiume, e, per una illusione ottica, pareva che [p. 31 modifica]fosse l’apparecchio galleggiante quello che rimanesse immobile in tale successione di vedute pittoresche. Qui, erano alte rupi di granito, dagli strani profili; colà, gole selvaggie, d’onde sfuggiva qualche fiumicello impetuoso; talvolta un villaggio ancor fumante, poi fitte foreste di pini che gettavano splendide fiamme. Ma se i Tartari avevano lasciato per ogni dove traccie del loro passaggio, ancora non si lasciavano vedere, perchè erano adunati nei dintorni d’Irkutsk.

Frattanto i pellegrini continuavano ad alta voce le loro preghiere, ed il vecchio marinajo, respingendo i ghiacci che gli si facevano vicini, manteneva la zattera in mezzo alla rapida corrente dell’Angara.