Michele Strogoff/Parte Seconda/Capitolo XI. Fra due rive

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Parte Seconda - Capitolo XI. Fra due rive

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Jules Verne - Michele Strogoff (1876)
Traduzione dal francese di Anonimo
Parte Seconda - Capitolo XI. Fra due rive
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CAPITOLO XI.

fra due rive.


Alle 8 pom., come aveva fatto presentire lo stato del cielo, un’oscurità profonda avvolse tutta la regione. La luna, essendo nuova, non doveva apparire sull’orizzonte. Dal mezzo del fiume le rive rimanevano invisibili e si confondevano con quelle nuvole grevi che si libravano quasi immobili. Ad intervalli veniva dall’est qualche soffio d’aria e pareva spirare sulla stretta vallata dell’Angara.

L’oscurità non poteva che favorire moltissimo i disegni de’ fuggitivi. Infatti, benchè gli avamposti tartari dovessero essere scaglionati sulle due sponde, la zattera aveva probabilità di [p. 32 modifica]passare inavvertita; non era neppur verisimile che gli assedianti avessero sbarrato il fiume a monte d’Irkutsk, perchè sapevano che i Russi non potevano aspettare alcun soccorso dal sud della provincia. Fra poco, d’altra parte, la natura avrebbe essa medesima messo quell’ostacolo saldando col freddo i massi di ghiaccio accumulati sulle due rive.

A bordo della zattera regnava ora un silenzio assoluto. Dacchè scendeva il corso del fiume, più non si faceva udire la voce dei pellegrini, i quali pregavano ancora bensì, ma con un lieve mormorío, che non poteva giungere fino alle due sponde. I fuggitivi, sdrajati sulla piattaforma, rompevano appena colla sporgenza dei loro corpi la linea orizzontale delle acque. Il vecchio marinajo, collocato a poppa, non faceva altro che allontanare i massi di ghiaccio.

Favorevole circostanza era pure questa presenza dei massi di ghiaccio, se non doveva più tardi opporre un ostacolo insuperabile al passaggio della zattera. Infatti l’apparecchio, trovandosi solo sulle acque del fiume, correva pericolo di essere veduto, anche attraverso l’ombra fitta, mentre si confondeva allora con quelle masse mobili d’ogni grandezza, d’ogni forma, ed il frastuono, prodotto dall’urto dei massi fra di loro, copriva pure ogni altro rumore sospetto.

Un freddo acutissimo attraversava l’atmosfera, ed i fuggitivi ne soffrivano immensamente, non avendo altro riparo che pochi rami di betulla. Si stringevano essi gli uni contro gli altri, per meglio sopportare l’abbassamento di temperatura, che quella notte doveva toccare i dieci gradi sotto zero. Il poco vento che soffiava, essendo [p. 33 modifica]prima passato sulle montagne dell’est, tappezzate di neve, era proprio mordente.

Michele Strogoff e Nadia, collocati a poppa, sopportavano senza lamentarsi questa nuova pena. Alcide Jolivet ed Harry Blount, che stavano loro vicini, resistevano alla meglio ai primi assalti dell’inverno siberiano. Nissuno più cianciava, nemmeno a bassa voce. La situazione d’altra parte li assorbiva per intero. Ad ogni istante poteva accadere un pericolo od anche una catastrofe da cui non sarebbero usciti incolumi.

Per un uomo, che faceva conto di toccar presto la sua meta, Michele Strogoff pareva singolarmente tranquillo. D’altra parte, nelle più gravi congiunture, l’energia non l’aveva mai abbandonato. Già egli intravedeva il momento in cui avrebbe potuto pensare a sua madre, a Nadia, a sè medesimo. Non temeva che un ultimo contrasto, ed era che la zattera venisse assolutamente arrestata dai ghiacci prima di giungere ad Irkutsk. Egli non pensava che a questo: tentare qualche supremo colpo d’audacia, se fosse necessario.

Nadia, ristorata dalle poche ore di riposo, aveva ritrovato quell’energia fisica che la miseria aveva potuto spezzare qualche volta, senza però mai far tentennare la sua energia morale. Essa pensava che se Michele Strogoff avesse a fare un nuovo sforzo per riuscire nel suo intento, doveva essere pronta a guidarlo: ma nel medesimo tempo che veniva accostandosi ad Irkutsk, si disegnava nel suo spirito il padre suo. Lo vedeva nella città assediata, lungi da quelli che lo amavano, ma — di questo non dubitava — lottante contro gl’invasori con tutto lo slancio del suo [p. 34 modifica]patriottismo. Fra poche ore, se il cielo li favoriva, essa sarebbe nelle sue braccia, ripetendogli le ultime parole di sua madre, e nulla più dovrebbe separarli. Se l’esilio di Wassili Fédor non doveva aver termine, sua figlia rimarrebbe esiliata con lui. Poi, per una china naturale, essa ritornava col pensiero a colui al quale essa dovrebbe d’aver riveduto suo padre, a quel generoso compagno, a quel fratello, che, respinti i Tartari, ripiglierebbe la via di Mosca e che essa forse non rivedrebbe mai più!...

Quanto ad Alcide Jolivet e ad Harry Blount non avevano che un solo e medesimo pensiero, cioè che la situazione era veramente drammatica e che, messa bene in scena, formerebbe una cronaca interessantissima. L’Inglese pensava dunque ai lettori del Daily-Telegraph, ed il Francese a quelli di sua cugina Maddalena. In fondo provavano una certa commozione tutti e due.

— Tanto meglio, pensava Alcide Jolivet. Per commovere, bisogna essere commossi! Credo anzi che la cosa sia stata detta in versi rimati... ch’io sia dannato se ne so qualcosa....

E co’ suoi occhi penetranti cercava di trapassare la fitta nebbia che avvolgeva il fiume.

Frattanto, gran bagliori di luce rompevano quelle tenebre, mostrando la riva con forme stravaganti. Era qualche incendio di villaggio non ancora spento: sinistra riproduzione dei quadri del giorno, più il contrasto della notte. L’Angara s’illuminava ancora da un argine all’altro. I ghiacci formavano tanti specchi che, riflettendo le fiamme, si movevano a seconda della corrente. La zattera, confusa in mezzo a quei corpi galleggianti, passava non vista. [p. 35 modifica]Il pericolo non era dunque là.

Ma un pericolo d’altra natura minacciava i fuggitivi, i quali non potevano prevederlo, e peggio ancora rimediarvi. Fu ad Alcide Jolivet che il caso lo segnalò, ed ecco come.

Alcide Jolivet aveva lasciato penzolare la mano a fior d’acqua, e all’improvviso fu sorpreso dal senso che gli cagionò il contatto della corrente alla sua superficie. Pareva di una consistenza viscida, come se fosse stata formata d’un olio minerale.

Alcide Jolivet, accertando la cosa colla mano, non poteva essere più dubbioso. Era proprio uno strato di nafta liquida che galleggiava alla superficie della corrente e scorreva con essa!

La zattera era dunque veramente sopra questa sostanza così eminentemente combustibile? E d’onde veniva questa nafta? Era un fenomeno naturale che l’aveva spinta alla superficie dell’Angara, oppure doveva essa servire come strumento di distruzione messo in opera dai Tartari? Volevano forse costoro portar l’incendio fin dentro Irkutsk con mezzi che i diritti della guerra non giustificano mai fra nazioni incivilite?

Tali furono i due quesiti che si propose Alcide Jolivet; ma di questo incidente credette dover istruire solo Harry Blount, ed entrambi convennero di non mettere in allarme i compagni svelando loro il nuovo pericolo.

Si sa che il suolo dell’Asia centrale è come una spugna inzuppata di carburi d’idrogeno liquidi. Nel porto di Baku, sulla frontiera persiana, nella penisola dell’Abchéron, sul Caspio, nell’Asia Minore, in China, nell’Yug-Hyan, nella Birmania, le sorgenti di olî minerali spicciano a migliaja [p. 36 modifica]sulla superficie del suolo; è il paese dell’olio, simile a quello che porta oramai questo nome nell’America del Nord.

Segnatamente nel porto di Baku gl’indigeni, adoratori del fuoco, gettano sulla superficie del mare la nafta liquida, che galleggia a causa della sua densità minore di quella dell’acqua. Venuta la notte, quando uno strato d’olio minerale si è così sparso sul mar Caspio, essi lo accendono e si dànno l’incomparabile spettacolo di un oceano di fuoco che ondeggia e si avventa alla sponda sotto la brezza.

Ma quello che non è che un’allegria a Baku, sarebbe stato un disastro sulle acque dell’Angara. Sia che il fuoco fosse stato appiccato da malevolenza o da imprudenza, in un batter d’occhio le fiamme si sarebbero propagate fino al di là di Irkutsk.

In ogni caso, sulla zattera non era a temere alcuna disgrazia; erano però una continua minaccia quegli incendî sulle due sponde dell’Angara, poichè bastava una scintilla caduta nel fiume per accendere la corrente di nafta.

Le apprensioni di Alcide Jolivet e di Harry Blount si comprendono meglio che non si dipingano. In faccia a questo nuovo pericolo non sarebbe stato preferibile sbarcare su una delle sponde ed attendere? Si consultarono.

— Qualunque sia il pericolo, disse Alcide Jolivet, c’è qualcuno che non sbarcherebbe.

Alludeva a Michele Strogoff.

Frattanto la zattera andava rapidamente alla deriva, in mezzo ai ghiacci che s’affollavano sempre più.

Fino allora nessun drappello tartaro era stato [p. 37 modifica]segnalato sulle sponde dell’Angara, il che indicava che la zattera non era ancora giunta all’altezza dei loro avamposti. Pure verso le dieci pomeridiane Harry Blount credette di scorgere molti corpi neri che si movessero alla superficie dei ghiacci. Queste ombre, balzando dall’una all’altra, s’avvicinavano rapidamente.

— Dei Tartari! pensò egli; e spingendosi vicino al vecchio marinajo che se ne stava a prua gli mostrò quel movimento sospetto.

Il marinajo guardò attentamente.

— Non sono che lupi, diss’egli; li preferisco ai Tartari; bisogna difendersi e senza rumore.

Infatti i fuggitivi ebbero a lottare contro questi feroci carnivori che la fame ed il freddo spingevano attraverso la provincia. I lupi avevano vista la zattera, e poco stante l’assalirono; d’onde necessità pei fuggitivi d’impegnar la lotta, ma senza servirsi d’armi da fuoco, perchè non potevano essere lontani dai posti tartari. Le donne ed i fanciulli si radunarono nel centro della zattera, e gli uomini, armati chi di pertiche, chi di coltello, la maggior parte di bastoni, si disposero a respingere gli assalitori. Essi non mandarono un grido, ma gli urli dei lupi laceravano l’aria.

Michele Strogoff non aveva voluto rimanere inoperoso. Egli si era coricato a fianco della zattera salita dai carnivori. Sguainò il suo coltello, ed ogni volta che veniva assalito da un lupo sapeva cacciargli la lama nella gola. Harry Blount ed Alcide Jolivet non stettero in ozio neppur essi. I coraggiosi compagni li assecondavano. Quella carnificina avveniva in silenzio, quantunque molti fuggitivi non avessero potuto evitare gravi morsicature. [p. 38 modifica]Per altro la lotta sembrava non dover finire tanto presto. La frotta di lupi si rinnovava di continuo, e bisognava che la riva destra dell’Angara ne fosse infestata.

— Non la vorrà finire mai! diceva Alcide Jolivet maneggiando il suo pugnale rosso di sangue.

Infatti, mezz’ora dopo il principio dell’attacco, i lupi correvano ancora a centinaja attraverso ai ghiacciai.

I fuggitivi, sfiniti di forze, piegavano visibilmente, e già la lotta volgeva loro sfavorevole; in quella dieci grossi lupi inferociti dalla collera e dalla fame, cogli occhi che luccicavano nell’ombra come bragia, invasero la piattaforma della zattera. Alcide Jolivet ed il suo compagno si gettarono in mezzo ai formidabili animali, e Michele Strogoff strisciava verso di loro, quando avvenne un improvviso mutamento di fronte.

In pochi secondi i lupi ebbero abbandonato non solo la zattera, ma anche i ghiacci sparsi sul fiume. Tutti quei corpi neri furono dispersi, e poco stante fu palese che se n’erano in gran fretta tornati sulla riva destra del fiume.

Gli è che a codesti lupi erano necessarie le tenebre per agire, ed allora invece una luce intensa illuminava tutto il corso dell’Angara.

Era il bagliore d’un immenso incendio. La borgata di Poshkavsk ardeva intera. Stavolta i Tartari erano là, alle loro opre. Quind’innanzi occupavano le due sponde fino al di là d’Irkutsk. I fuggitivi giungevano dunque alla zona pericolosa della loro traversata e si trovavano ancora a trenta verste dalla capitale.

Erano le undici e mezzo pomeridiane; la zattera continuava a scivolare nell’ombra in mezzo ai [p. 39 modifica]ghiacci, coi quali si confondeva assolutamente; ma lunghe strisce di luce s’allungavano talvolta fino ad essa, e però i fuggitivi, stesi sulla piattaforma, non si permettevano alcun movimento che li potesse tradire.

L’incendio della borgata avveniva con straordinaria violenza. Quelle case, costrutte di abete, ardevano come resina, e ve ne erano centocinquanta che bruciavano insieme. Al crepitío dell’incendio si mescevano le urla dei Tartari. Il vecchio marinajo, pigliando un punto d’appoggio sui ghiacci vicini alla zattera, era riuscito a spingerla verso la riva destra, e una distanza di tre o quattrocento piedi li separava allora dagli argini fiammeggianti di Poshkavsk.

Pure i fuggitivi, illuminati ad intervalli, sarebbero stati certamente veduti se gl’incendiarî non fossero stati troppo occupati nella distruzione della borgata; ma si comprenderà quali dovessero essere allora le ansie di Alcide Jolivet e di Karry Blount pensando a quel liquido combustibile su cui la zattera galleggiava.

Infatti, zampilli di fuoco s’innalzavano dalle case, che erano come tante fornaci ardenti. In mezzo alle volute di fumo queste scintille salivano nell’aria ad un’altezza di cinque o seicento piedi. Sulla riva destra, esposta in faccia all’incendio, gli alberi e le ripe sembravano in fiamme. Ora bastava una scintilla caduta sulla superficie dell’Angara perchè l’incendio si propagasse sul fiume e portasse il disastro sulle due rive. Sarebbe stata la distruzione in breve ora della zattera e di tutti coloro che trasportava.

Ma, fortunatamente, le brezze notturne non soffiavano da questa parte. Continuavano a venire [p. 40 modifica]dall’est ed a respingere le fiamme verso la mancina. Poteva dunque darsi che i fuggitivi scampassero al nuovo pericolo.

Infatti la borgata in fiamme fu finalmente lasciata indietro. A poco a poco scemò il bagliore dell’incendio, si affievolì il crepitìo, e gli ultimi bagliori sparvero al di là delle alte ripe che si ergevano ad un gomito dell’Angara.

Era circa la mezzanotte. L’ombra, ridivenuta fitta, proteggeva un’altra volta la zattera. I Tartari erano sempre là, ed andavano e venivano sulle due sponde. Non si vedevano, ma era facile udirli. Brillavano straordinariamente i fuochi dei posti avanzati.

Era dunque necessario manovrar con maggior precisione in mezzo ai ghiacci che si facevano più fitti.

Il vecchio marinajo s’alzò, ed i mujik presero i loro ganci. Tutti avevano il loro da fare, chè il guidar la zattera diveniva sempre più difficile, sendo che il letto del fiume si ostruiva a vista d’occhio.

Michele Strogoff si era spinto fino a prua.

Alcide Jolivet l’aveva seguito.

Entrambi ascoltavano ciò che dicevano il vecchio marinajo ed i suoi uomini.

— Bada a dritta.

— Ecco i ghiacci che vengono da mancina.

— Tienti discosto col gancio.

— Fra un’ora saremo arrestati!...

— Se Dio lo vuole! rispose il wecchio marinajo. Contro il suo volere non v’è nulla da fare.

— Intendete? disse Alcide Jolivet.

— Sì, rispose Michele Strogoff, ma Dio è con noi! [p. 41 modifica]

Frattanto le cose peggioravano sempre più. Se la zattera venisse ad essere arrestata, non solo i fuggitivi non giungerebbero ad Irkutsk, ma sarebbero costretti ad abbandonare il loro apparecchio galleggiante, che, schiacciato dai ghiacci, non tarderebbe a venir meno sotto ai loro piedi. Le corde di vimini si dovevano allora spezzare, i tronchi d’abeti, separati violentemente, rimarrebbero impigliati sotto la crosta indurita, ed i disgraziati non avrebbero più altro rifugio fuorchè i ghiacci medesimi. Ora, venuto il giorno, dovevano essere veduti dai Tartari e trucidati senza pietà.

Michele Strogoff tornò a poppa, là dove Nadia lo aspettava; s’accostò alla giovinetta, le prese una mano, e le fece questa domanda invariabile:

— Nadia, sei tu pronta?

Alla quale essa rispose come sempre:

— Sono pronta.

Per qualche versta ancora la zattera continuò ad andare alla deriva in mezzo ai ghiacci galleggianti. Se l’Angara si chiudeva, se si formava una specie di chiusa, sarebbe impossibile seguir la corrente. Già la deriva si compieva molto più lentamente: ad ogni istante erano urti o giravolte; qui un masso di ghiaccio da evitare, là un passaggio da infilare; insomma ritardi penosissimi.

Invero non rimanevano più che poche ore di notte, e se i fuggitivi non giungevano ad Irkutsk prima delle cinque del mattino, dovevano perdere ogni speranza di entrarvi giammai.

Ora all’una e mezza, per quanti sforzi si fossero tentati, la zattera s’arrestò definitivamente contro i massi di ghiaccio. Altri massi, che andavano alla deriva a monte, le si fecero addosso e la strinsero contro l’ostacolo, rendendola [p. 42 modifica]immobile come se fosse stata arenata sopra uno scoglio.

In quel luogo l’Angara si stringeva, ed il suo letto era ridotto a mezza la sua larghezza normale, d’onde accumulazioni di ghiacci a poco a poco saldati gli uni agli altri sotto la doppia influenza della pressione immensa e del freddo, la cui intensità raddoppiava. Cinquecento passi a valle, il letto del fiume s’allargava di nuovo, ed i ghiacci, staccandosi a poco a poco, continuavano ad andare alla deriva verso Irkutsk. È dunque probabile che senza questo restringimento delle rive l’ostacolo non si sarebbe formato, e la zattera avrebbe potuto continuare a discendere la corrente. Ma la disgrazia era irreparabile, ed i fuggitivi dovevano rinunciare alla speranza di giungere alla loro meta.

Se avessero avuto a loro disposizione gli utensili che solitamente adoperano i balenieri per aprirsi un sentiero tra i ghiacci, se avessero potuto tagliare quel campo sino al punto in cui il fiume s’allargava, forse non sarebbe loro mancato il tempo. Ma non avevano una sega, un piccone, nulla che permettesse di intaccare quella crosta, che l’estremo freddo rendeva dura come granito.

Quale partito prendere?

In quella s’udirono schioppettate sulla riva destra dell’Angara. Ed una pioggia di palle fu diretta sulla zattera. Dunque i disgraziati erano stati veduti? Evidentemente sì, perchè altri spari s’udirono sulla sponda mancina, ed i fuggitivi, presi fra due fuochi, divennero il bersaglio dei tiratori tartari. Qualcuno fu ferito da queste palle, benchè in mezzo all’oscurità le giungessero a casaccio. [p. 43 modifica]

— Vieni, Nadia, mormorò Michele Strogoff all’orecchio della giovinetta.

Senza fare alcuna osservazione, pronta a tutto, Nadia prese la mano di Michele Strogoff.

— Si tratta di attraversare l’ostacolo, le disse sotto voce. Guidami, ma che nessuno ci veda lasciar la zattera!

Nadia obbedì. Essa e Michele Strogoff si cacciarono rapidamente sulla superficie del campo di ghiaccio, in quella profonda oscurità, rotta solo qua e là dai bagliori delle schioppettate.

Nadia strisciò dinanzi a Michele Strogoff. Le palle cadevano intorno ad essi come grandine, crepitando sui ghiacci. La superficie del campo, aspra e solcata da punte acute, insanguinò loro le mani, ma essi andavano innanzi egualmente.

Dieci minuti più tardi, erano giunti all’orlo estremo del campo di ghiaccio. Colà, le acque dell’Angara ridivenivano libere. Alcuni massi di ghiaccio, staccati a poco a poco dal campo, ripigliavano la corrente e scendevano verso la città.

Nadia comprese ciò che Michele Strogoff voleva tentare. Essa vide uno di quei massi di ghiaccio trattenuto solo da una stretta lingua.

— Vieni, disse Nadia.

E tutt’e due si coricarono su quel pezzo di ghiaccio, che un leggiero dondolio staccò dalla zona congelata.

Il masso cominciò ad andare alla deriva. Il letto del fiume s’allargava, e la via era libera.

Michele Strogoff e Nadia ascoltavano le schioppettate, le grida d’affanno, le urla dei Tartari che s’udivano a monte... Poi, a poco a poco, questi rumori di profonda angoscia e di gioia feroce si spensero in lontananza. [p. 44 modifica]

— Poveri compagni! mormorò Nadia.

Per mezz’ora, la corrente trasse rapidamente il masso di ghiaccio che portava Michele Strogoff e Nadia. Ad ogni istante potevano temere che venisse meno sotto i loro piedi. Preso nel filo delle acque, seguiva il mezzo del fiume, e non doveva essere necessario imprimergli una direzione obliqua se non quando bisognasse pensare ad accostarsi alle ripe d’Irkutsk.

Michele Strogoff, coi denti stretti, l’orecchio intento, non proferiva parola. Non mai egli era stato tanto vicino alla sua meta. Egli sentiva che stava per raggiungerla!...

Verso le due del mattino, una doppia fila di luci scintillò nel bujo orizzonte, nel quale si confondevano le due sponde dell’Angara.

A dritta, erano i bagliori gettati da Irkutsk — a mancina, i fuochi del campo tartaro.

Michele Strogoff non era più che a mezza verstà dalla città.

— Finalmente! mormorò.

Ma, d’un tratto, Nadia mandò un grido.

A quel grido, Michele Strogoff si drizzò sul ghiaccio che vacillava. La sua mano si tese verso l’alto dell’Angara. La sua faccia, tutta illuminata dai riflessi azzurrognoli, divenne orribile a vedersi, ed allora, come se gli occhi suoi si fossero riaperti alla luce.

— Ah! esclamò, Dio medesimo è dunque contro di noi!