Michele Strogoff/Parte Seconda/Capitolo XII. Irkutsk
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CAPITOLO XII.
irkutsk.
Irkutsk, capitale della Siberia orientale, è una città popolata, in tempi ordinarî, da trentamila abitanti. Un argine piuttosto alto che sorge sulla riva destra dell’Angara serve di base alle sue chiese, dominate da una maestosa cattedrale, ed alle sue case schierate in un disordine pittoresco.
Vista da una certa distanza, dall’alto della montagna che si erge ad una ventina di verste, sulla gran via siberiana, colle sue cupole, coi suoi campanili, colle sue guglie svelte al par di minareti, essa ha aspetto un po’ orientale. Ma questa fisionomia scompare agli occhi del viaggiatore appena egli vi fa il suo ingresso. La città, mezzo bisantina, mezzo chinese, ridiventa europea per le sue vie fiancheggiate da marciapiedi, attraversate da canali, piantate di betulle gigantesche; per le sue case di mattoni e di legno, alcune delle quali hanno molti piani; per gli equipaggi numerosi che la solcano, non solo tarentass e teleghe, ma calessi e carrozzelle; infine per tutta una categoria di abitanti molto innanzi nel progresso della civiltà ed ai quali sono note le mode più recenti di Parigi.
A quel tempo, Irkutsk, rifugio dei Siberiani della provincia, era ingombrata. Vi era abbondanza d’ogni cosa. Irkutsk è il deposito di quelle innumerevoli mercanzie che si scambiano fra la China, l’Asia centrale e l’Europa. Non si aveva dunque temuto di attirarvi contadini della vallata di Angara, Mongoli, Kalkas, Tunguzi, Bureti, e di lasciare che il deserto si stendesse fra gli invasori e la città.
Irkutsk è la residenza del governatore generale della Siberia orientale. Sotto di lui funzionano un governatore civile, nelle mani del quale si concentra l’amministrazione della provincia; un mastro di polizia, occupatissimo in una città ove abbondano gli esiliati; ed infine un sindaco, capo dei mercanti, personaggio importante per l’influenza che esercita sopra i suoi amministrati.
La guarnigione di Irkutsk si componeva allora di un reggimento di Cosacchi a piedi, che contava duemila uomini circa, e d’un corpo di volontarî sedentarî, portanti il casco e l’uniforme azzurra a galloni d’argento.
Inoltre, come è noto, in seguito a circostanze speciali, il fratello dello czar era chiuso nella città dal principio dell’invasione.
Questo stato di cose vuol essere determinato meglio.
Era un viaggio di un’importanza politica quello che aveva condotto il gran duca nelle lontane regioni dell’Asia orientale.
Il gran duca, dopo aver percorso le principali città siberiane, viaggiando come soldato meglio che come principe, senza apparato di sorta, accompagnato da’ suoi ufficiali, scortato da un drappello di Cosacchi, si era spinto fino alle regioni transbaikaliane. Nicolaevsk, l’ultima città russa che sia situata nel litorale del mare Okotsk, era stata onorata d’una sua visita.
Giunto ai confini dell’impero moscovita, il gran duca tornava verso Irkutsk, dove faceva il conto di ripigliare la via d’Europa, quando gli giunsero le notizie di quella invasione minacciosa ed improvvisa. S’affrettò a rientrare nella capitale, ma, quando vi giunse, le comunicazioni colla Russia stavano per essere interrotte. Egli ricevette ancora qualche telegramma da Pietroburgo e da Mosca, e potè anche rispondere. Poi il filo fu reciso nelle circostanze che sono note.
Irkutsk era isolata dal rimanente del mondo.
Il gran duca non aveva più altro a fare che preparare la resistenza; ed è ciò che fece con quella fermezza e freddezza d’animo di cui diede incontrastabili prove in altre occasioni.
Giunsero successivamente ad Irkutsk lo notizie della presa di Ichim, di Omsk, di Tomsk. Bisognava dunque ad ogni costo salvare dall’occupazione la capitale della Siberia. Non bisognava fare assegnamento sui prossimi soccorsi, perchè le poche truppe sparse nella provincia d’Amur e nel governo di Irkutsk non potevano giungere in tal numero da arrestare le colonne tartare. Ora, posto che Irkutsk non poteva sfuggire all’assalto, importava anzitutto mettere la città in grado di resistere ad un assedio lungo.
Tali lavori furono incominciati il giorno in cui Tomsk cadeva nelle mani dei Tartari. Insieme con questa gran notizia, il gran duca apprendeva che l’Emiro di Bukara ed i kani alleati dirigevano in persona il movimento; ignorava però che il luogotenente di questi capi barbari fosse Ivan Ogareff, un officiale russo che aveva egli medesimo degradato e che non conosceva di persona.
Come si è detto, s’incominciò ad ordinare agli abitanti della provincia di Irkutsk d’abbandonare la città e le borgate. Coloro che non si rifugiarono nella capitale dovettero portarsi indietro, al di là del lago Baikal, dove assai probabilmente l’invasione non stenderebbe i suoi disastri. I raccolti di grano e di foraggi furono requisiti per la città, e quest’ultimo bastione della potenza moscovita nell’estremo Oriente fu messo in grado di resistere qualche tempo.
Irkutsk, fondata nel 1611, è situata nel confluente dell’Irkut e dell’Angara, sulla riva destra di questo fiume. Due ponti di legno, costrutti sopra palafitte, disposti in modo da potersi aprire per tutta la lunghezza del canale per la navigazione, riuniscono la città a’ suoi sobborghi, che si stendono sulla riva mancina. Da questo lato era facile la difesa. I sobborghi furono abbandonati, i punti distrutti. Il passaggio dell’Angara, larghissimo in quel punto, non sarebbe stato possibile sotto il fuoco degli assediati.
Ma il fiume poteva essere valicato a monte ed a valle della città, e perciò Irkutsk, rischiava d’essere attaccata dalla parte est, non protetta da verun muro di cinta.
Le braccia furono dunque occupate da principio in lavori di fortificazione. Si lavorò giorno e notte. Il gran duca trovò una popolazione zelante nella fatica, come più tardi doveva trovarla coraggiosa nella difesa. Soldati, mercanti, esiliati, contadini, tutti si consacrarono alla comune salvezza. Otto giorni prima che i Tartari apparissero sull’Angara erano state erette muraglie di terra. Un fossato, inondato dalle acque dell’Angara, era scavato a scarpa e controscarpa. La città non poteva più essere presa con un colpo di mano. Era necessario assediarla.
La terza colonna tartara — quella che aveva risalito la valle dell’Yenisei — apparve il 24 settembre in vista d’Irkutsk, ed occupò immediatamente i sobborghi abbandonati, le cui case medesime erano state distrutte per non imbarazzare l’azione del gran duca, disgraziatamente insufficiente.
I Tartari dunque aspettarono l’arrivo delle altre due colonne, comandate dall’Emiro e dai suoi alleati.
Il congiungimento di questi ultimi due corpi avvenne il 25 settembre, al campo dell’Angara, e tutta l’armata, salvo le guarnigioni lasciate nelle principali città conquistate, fu concentrata sotto gli ordini di Féofar-Kan.
Siccome il passaggio dell’Angara dinanzi ad Irkutsk era stato giudicato impossibile da Ivan Ogareff, gran parte delle truppe attraversò il fiume a poche verste a valle, sopra ponti di barche preparate all’uopo. Il gran duca non tentò d’opporsi a questo passaggio. Egli avrebbe solo potuto disturbarlo, ma non impedirlo, non avendo artiglieria di campagna a sua disposizione; ed è con ragione che rimase chiuso in Irkutsk.
I Tartari occuparono dunque la riva destra del fiume; poi risalirono la città ed abbruciarono la casa d’estate del governatore generale, situata nei boschi che dominano dall’alto il corso dell’Angara, ed andarono a prendere posizione per l’assedio, dopo di aver interamente circondato Irkutsk.
Ivan Ogareff, abile ingegnere, era certamente in grado di dirigere i lavori d’un assedio regolare; ma gli mancavano i mezzi per operare rapidamente. Ond’egli aveva sperato di sorprendere Irkutsk, meta di tutti i suoi sforzi.
Si vede che le cose erano andate diversamente da quello che egli sperava. Da una parte, la marcia dell’armata tartara ritardata dalla battaglia di Tomsk; dall’altra, la rapidità data dal gran duca ai lavori di difesa; queste due cause erano bastate a far fallire i suoi disegni. Si trovò dunque nella necessità di fare un assedio in regola.
Per altro l’Emiro tentò due volte di pigliar d’assalto la città a prezzo d’un gran sagrificio d’uomini. Egli spinse i suoi soldati dalla parte delle fortificazioni di terra, che avevano qualche punto debole; ma questi assalti vennero respinti colla massima energia. Gli ufficiali non si risparmiarono, ed esposero la loro vita per trascinare la popolazione ai bastioni. Borghesi e mujik fecero tutti il loro dovere. Nel secondo assalto, i Tartari erano riusciti a forzare una delle porte del recinto. Avvenne un combattimento in capo a quella gran strada di Bolchaia, lunga due verste, che viene a mettere nelle rive dell’Angara. Ma i Cosacchi, i gendarmi, i cittadini opposero loro una viva resistenza, ed i Tartari dovettero ritornarsene nelle loro posizioni.
Ivan Ogareff pensò allora di domandare al tradimento ciò che la forza non gli poteva dare. Si sa che il suo disegno era di penetrare nella città, giungere fino al gran duca, guadagnarne la confidenza, e, venuto il buon momento, aprire una delle porte agli assedianti; ciò fatto, saziare poi la sua vendetta sopra il fratello dello czar.
La zingara Sangarre, che lo aveva accompagnato al campo dell’Angara, lo eccitò a porre in atto questo disegno.
Infatti, conveniva agire senza ritardo, perchè le truppe russe del governo di Irkutsk movevano verso Irkutsk, e si erano concentrate sul corso della Lena, di cui risalivano la vallata. Fra sei giorni dovevano essere arrivate. Bisognava dunque che fra sei giorni Irkutsk fosse presa a tradimento.
Ivan Ogareff non esitò più.
Una sera, il 2 ottobre, fu tenuto un consiglio nella gran sala del governatore generale, ove risiedeva il gran duca.
Questo palazzo, eretto all’estremità della via di Bolchaia, dominava il fiume per un gran tratto. Attraverso le finestre della sua facciata principale si vedeva il campo tartaro, ed un’artiglieria d’assedio dal tiro più lungo di quella dei Tartari l’avrebbe resa inabitabile.
Il gran duca, il generale Voranzoff ed il governatore della città, il capo dei mercanti, ai quali si erano riuniti un certo numero d’uffiziali superiori, avevano preso diverse risoluzioni.
— Signori, disse il gran duca, voi conoscete esattamente la nostra situazione. Io ho ferma speranza che potremo resistere fino all’arrivo delle truppe di Irkutsk. Allora sapremo pur cacciare queste orde barbare, e non dipenderà da me se non pagheranno a caro prezzo l’invasione del territorio moscovita.
— Vostra Altezza sa che può far assegnamento su tutta la popolazione d’Irkutsk, vapore il generale Voranzoff.
— Sì, generale, disse il gran duca, e rendo omaggio al suo patriottismo. Grazie a Dio, non fu ancora sottoposta agli orrori dell’epidemia e della fame, ed ho ragione di credere che le saranno risparmiati, ma ai bastioni ho dovuto ammirare il suo coraggio. Voi udite le mie parole, signor capo dei mercanti, e vi prego di riferirle tal quali.
— Ringrazio Vostra Altezza in nome della città, rispose il capo dei mercanti. Oserò io domandare quale tempo essa assegna all’arrivo dell’armata di soccorso?
— Sei giorni al più, signore, rispose il gran duca. Un emissario abile e coraggioso ha potuto entrare stamane nella città e m’ha appreso che cinquantamila Russi si avanzano a marcie forzate, sotto gli ordini del generale Kisselef. Essi erano, due giorni sono, sulla riva della Lena, a Kirensk, ed oramai nè freddo nè nevi impediranno loro di giungere. Cinquantamila uomini di buone truppe, pigliando di fianco i Tartari, ci avranno presto liberati.
— Aggiungerò, disse il capo dei mercanti, che il giorno in cui Vostra Altezza ordinerà una sortita, saremo pronti ad eseguire i suoi ordini.
— Sta bene, signore, disse il gran duca. Aspettiamo che le teste delle nostre colonne siano apparse sulle alture, e schiacceremo gl’invasori.
Poi, rivolgendosi al generale Voranzoff:
— Visiteremo domani i lavori della riva destra. L’Angara è ingombra dai massi di ghiaccio, e non tarderà a congelarsi; in questo caso i Tartari potrebbero forse passarla.
— Vostra Altezza mi permetta di farle un’osservazione, disse il capo dei mercanti.
— Fate, signore.
— Ho visto la temperatura scendere più d’una volta a trenta e quaranta gradi sotto zero, e l’Angara non si è mai congelata interamente, Ciò dipende, senza dubbio, dalla rapidità del suo corso. Se dunque i Tartari non hanno altro mezzo di valicare il fiume, posso assicurare a Vostra Altezza che non entreranno facilmente in Irkutsk.
Il governatore generale confermò quanto diceva il capo dei mercanti.
— È una fortuna, rispose il gran duca. Ad ogni modo ci terremo pronti a qualunque avvenimento.
Rivolgendosi allora al mastro di polizia:
— Non avete nulla a dirmi, signore?
— Debbo far conoscere a Vostra Altezza una supplica che gli vien mandata per mezzo mio.
— Mandata da chi?
— Dagli esiliati di Siberia, che, come Vostra Altezza sa, sono cinquecento nella città.
Infatti gli esiliati politici, disseminati in tutta la provincia, erano stati concentrati in Irkutsk dal principio dell’invasione, ed avevano obbedito all’ordine di abbandonare le borgate in cui esercitavano professioni differenti, medici gli uni, professori gli altri, al ginnasio, alla scuola giapponese, od alla scuola di navigazione. Fin dal principio, il gran duca, fidando, al par dello czar, nel loro patriottismo, li aveva armati, ed aveva trovato in essi difensori coraggiosi.
— Che chiedono gli esiliati? disse il gran duca.
— Chiedono a Vostra Altezza, rispose il mastro di polizia, la facoltà di formare un corpo speciale e di essere collocati avanti a tutti nella prima sortita.
— Sì, rispose il gran duca con una commozione che non cercò di nascondere, questi esiliati sono Russi, ed hanno pur diritto di battersi pel loro paese.
— Credo di poter assicurare a Vostra Altezza che non avrà soldati migliori.
— Ma abbisogna loro un capo, rispose il gran duca. Chi sarà mai?
— Vorrebbero far aggradire a Vostra Altezza, disse il mastro di polizia, uno di essi che si è segnalato in molte occasioni.
— È un Russo?
— Sì, un Russo delle provincie baltiche.
— Si chiama?
— Wassili Fédor.
Quest’esiliato era il padre di Nadia.
Wassili Fédor, come è noto, esercitava ad Irkutsk la professione di medico; era uomo istruito e caritatevole, ed anche coraggiosissimo e pieno di patriottismo sincero. Tutto il tempo che non consacrava agli infermi, lo spendeva nel prepararsi alla resistenza. È lui che aveva riuniti i compagni in un’azione comune. Gli esiliati, fino allora frammisti al rimanente della popolazione, si erano portati in guisa da fermare l’attenzione del gran duca. In molte sortite avevano pagato col sangue il loro debito alla Santa Russia, — santa in verità ed adorata da’ suoi figli. Wassili Fédor si era comportato eroicamente, il suo nome era stato citato più volte, ma egli non aveva mai chiesto nè grazie nè favori, e quando venne in mente agli esiliati di Irkutsk di formare un corpo speciale, egli ignorava perfino che avessero intenzione di sceglierlo per loro capo.
Quando il mastro di polizia ebbe pronunciato questo nome dinanzi al gran duca, costui rispose che non gli veniva nuovo.
— Infatti, rispose il generale Voranzoff: Wassili Fédor è uomo valoroso ed ebbe sempre grande influenza sui suoi compagni.
— Da quanto tempo è in Irkutsk? chiese il gran duca.
— Da due anni.
— E la sua condotta?
— La sua condotta, rispose il mastro di polizia, è quella d’un uomo soggetto alle leggi speciali degli esiliati.
— Generale, rispose il gran duca, compiacetevi di presentarmelo immediatamente.
Gli ordini del gran duca furono eseguiti, e, meno di mezz’ora dopo, Wassili Fédor veniva introdotto alla sua presenza.
Era uomo sui quarant’anni al più, alto, dalla faccia severa e mesta. Si sentiva che tutta la sua vita si compendiava in questa parola: «la lotta,» e che egli aveva lottato e sofferto. I suoi lineamenti ricordavano singolarmente quelli di sua figlia Nadia Fédor.
Più d’ogni altro, l’invasione tartara l’aveva colpito nella sua più cara affezione, ruinando la suprema speranza d’un padre esiliato ad ottomila verste dalla sua città natale. Una lettera gli aveva appreso la morte di sua moglie, ed al medesimo tempo la partenza di sua figlia, la quale aveva ottenuto dal governo la facoltà di raggiungerlo in Irkutsk.
Nadia aveva dovuto lasciar Riga il 10 luglio; l’invasione era avvenuta il 15. Se a quel tempo Nadia aveva passato la frontiera, che cosa era avvenuto di lei in mezzo agli invasori? Si capisce come il disgraziato padre fosse divorato dall’inquietudine, poichè da quel tempo egli non aveva più avuto notizie della figliuola.
Wassili Fédor, in presenza del gran duca, s’inchinò ed attese d’essere interrogato.
— Wassili Fédor, gli disse il gran duca, i tuoi compagni d’esilio hanno chiesto di formare un corpo scelto. Non ignorano essi che in questi corpi bisogna saper farsi ammazzare fino all’ultimo?
— Non lo ignorano, rispose Wassili Fédor.
— Essi vogliono te per capo.
— Me, altezza?
— Acconsenti tu di metterti alla loro testa?
— Sì, se il bene della Rnssia lo vuole.
— Comandante Fédor, disse il gran duca, tu non sei più esiliato.
— Grazie, Altezza, ma posso io comandare a coloro che sono ancora in esilio?
— Sono liberi anch’essi.
Era la grazia di tutti i suoi compagni d’esilio, ormai suoi compagni d’armi, che gli accordava il fratello dello czar?
Wassili Fédor strinse commosso la mano che gli veniva pôrta dal gran duca, ed uscì.
Costui, volgendosi allora verso i suoi ufficiali, disse sorridendo:
— Lo czar non rifiuterà di accettare la lettera di grazia che io faccio sopra di lui! Ci occorrono degli eroi per difendere la capitale della Siberia, ed io ne ho fatto.
Era, in verità, un atto di buona giustizia e di buona politica questa grazia generosamente accordata agli esiliati d’Irkutsk.
Era scesa la notte. Attraverso le finestre del palazzo brillavano i fuochi del campo tartaro, scintillanti al di là dell’Angara. Il fiume trasportava numerosi massi di ghiaccio, alcuni dei quali s’arrestavano contro le prime palafitte dei vecchi ponti di legno. Quelli che la corrente manteneva nel canale andavano alla deriva con estrema rapidità. Era evidente, come aveva fatto osservare il capo dei mercanti, che l’Angara difficilmente poteva congelarsi su tutta la sua superficie. Perciò il pericolo d’essere assaliti da questa parte non doveva inquietare i difensori d’Irkutsk.
Erano suonate le dieci pomeridiane. Il gran duca stava per accomiatare i suoi uffiziali e ritirarsi nelle sue stanze, quando fuori del palazzo avvenne una specie di tumulto.
Quasi subito s’aprì la porta della sala, ed apparve un ajutante di campo che, rivolgendosi al gran duca, disse:
— Altezza, un corriere dello czar!