Myricae/Nota bibliografica

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NOTA BIBLIOGRAFICA

(della sesta edizione)



Di questo libro che giunge ora alla sua sesta edizione, non rincresca al lettore, e specialmente alla soave lettrice, un po’ di storia.

Le più vecchie poesie del volume sono il Maniero (Ricordi IV) e Rio Salto (ib. III), che furono fatti e, mi pare, anche pubblicati prima dell’80. Viene poi Romagna (Ricordi I) che è dell’80 o giù di lì. Fu pubblicata nella Cronaca Bizantina, ma non so in qual numero: non la vidi mai. Poi ci fu un intervallo. Ero stretto dalle necessità della vita, e il canto, non usciva dalla gola serrata.

Quando potei avere un pochino di respiro, ricominciai. Davo le poesiole che facevo, a cari amici, tra i quali principalissimo Angiolo Orvieto, che le stampava nella sua Vita Nova prima e poi nel suo Marzocco, Nella Vita Nova del 10 agosto 1890 comparvero 9 di queste, col titolo, che poi si propagò a tutte le altre, di Myricae. Prima avevo pubblicato in opuscoli, nel settembre 86, [p. 208 modifica]L’ultima passeggiata, per le nozze di Severino Ferrari; il 28 agosto 87, tre favole (Le pene del poeta I e II, più Nozze) per le nozze di Giulio Vita; il 25 novembre 1887, alcuni sonetti in parte editi (Primavera II, IV, Ricordi IV, V, VI, IX), per le nozze del mio amatissimo fratello Raffaele. Ecco le lettere con le quali dedicavo agli amici e al fratello le piccole raccolte:


a severino ferrari


Amico mio,

oltre i versi di Severino ci saranno dunque anche i figli di Severino. E io, che salutai i versi nascenti e saluto sin d’ora i figli nascituri, mi ricordo del tempo che di te non si raccontavano che i motti. Chi allora aspettava da te altra figliolanza? Intorno a te la gente cadeva di meraviglia in meraviglia: non io; che con altri pochi non credeva festevolezza nemica d’ingegno nè al buon ingegno odioso il buon giudizio. Tu, come già hai dimostrato che si può essere studioso e valente giovane senza farne professione, ora provi che si può avere serietà d’uomo fatto senza accavallarsela sul naso. Hai vinto; e ne godo anch’io, tanto più quanto per mia parte meno posso bastare alla battaglia e alla vittoria. Come si può vedere anche da questi versi che pubblico in tuo onore bene augurando.

Massa, settembre 86.

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a giulio vita:


Caro Giulio,

con gli auguri e i rallegramenti vengono a te questi tre apologhi. Che cosa hanno essi che vedere nelle tue felici nozze? Non so io; ma tu, ingegnoso giovine, potresti immaginare che io li avessi tratti da qualche codice obliato; e allora ben sai che sarebbero opportuni. Non solo: ma io potrei lodarmi d’averli copiati, come ora mi vergogno d’averli fatti; e i dotti e gli studiosi mi farebbero della loro schiera onorata. Tanto più, quanto, avendo stampata la cosa tal quale la scrissi, avrei fatta un’edizione diplomatica.

Massa, 25 agosto 1887.


Eh? Aveva un po’ voglia di scherzare. Peraltro... anche oggi direi le stesse cose. Perchè, in fin dei conti, non dicevo nè direi già che facciano male gli eruditi, anzi pensavo e penso che fanno un lavorìo utilissimo, anzi necessarissimo, fondamentale. Solamente non è ragionevole che ne menino tanto vampo; perchè è lavorìo fondamentale bensì, ma facile; e ai lavori più facili si trovano atte più persone, e non sempre inette quelle che fanno lavori più difficili e rari.

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a raffaele pascoli:


Degli anni giovanili che passammo insieme, dolce fratello, vorrei nel giorno delle tue nozze evocare qualche idea, qualche imagine, qualche larva, liete; e non posso; chè nella nostra vita a letizia non apparì, nè il molto dolore fu tale che ora, a ricordarlo, torni in letizia. Abbiti per ciò questi che pur sono fiori del passato, ma non ebbero profumo e vista; i quali come richiamarti alla memoria non potranno la gioia, che non fu, così nè pur l’affanno, che in essi non pare. Chè fiorirono in quei momenti, brevi e rari, in cui l’uno moriva e l’altra non era; e io guardava, un poco stupito, intorno a me, con occhi velati sì ma attenti.

Pace ora dunque, fratello mio buono, se non felicità; o anche felicità, poi che l’hai e meritata, per aver con fiera virtù repugnato alla fortuna, e conquistata, per aver saputo conservare all’amore il tuo nobile cuore e ad Angiola la tua nobile vita.

Di Livorno il dì 25 di novembre del 1887.

E fui buon profeta. Ora il fratello mio buono è allietato da due creature, Gina e Ruggiero.

Nel 1891 per le nozze del mio affettuosissimo amico Raffaello Marcovigi ripubblicai in un [p. 211 modifica]volumetto le già dette Myricae e alcune altre poesie (Le gioie del poeta IV; Elegie I; Ida e Maria; Campane a sera; Creature I, IV; In campagna XIII, XV, I, IV, VIII, XVII, XVIII; Dolcezze V, I, VIII, IV; Tristezze II; Pensieri I; Alberi e fiori III; Ultima passeggiata XIII, e parte di Dialogo). Le offrivo all’amico con questa lettera:

Ti ricordi? Sono passati molti anni: a te la vita prometteva molto e a me poco. Ora (la vita è buona) a te ha atteso quel molto e a me assai più di quel poco; che a te ha serbato cotesto amore e a me ha reso facile e dolcissimo un mio dovere. Tu sei adunque felice, e io sereno: la vita è buona, e così ci resti a lungo. Così, possa tu vedere andare a nozze una tua nuova Clemenza la quale ricordi (una stilla di dolore nel vin dolce della tua coppa!) quella cara fanciulla che la morte conserva giovane per sempre. Così, possa io saziar gli occhi miei delle cose belle, e significarne altrui. Chè non ancora ho potuto; e sorrida chi vuole; non ancora: tanto fu tempestosa la primavera, tanto è affaticata l’estate; sicchè questa raccolta che ti presento, non è ancora un saggio per me, nè più pure una promessa per gli altri. Ma già, sano memore e calmo, quasi novello, mi preparo a sentir le voci autunnali, tante e così fuggevoli, e anche, nei ghiacci estremi, iridati, gli squilli dei cigni candidissimi.

Ma perchè parlarti di me? Tu mi ami anche oggi.

Livorno 22 di luglio 1891.


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Questa raccoltina fu la prima edizione di Myricae. La seconda molto accresciuta uscì nel gennaio del 92. Era dedicata a mio padre e preceduta da queste parole:


Io vedo — come è questo giorno, oscuro —
vedo in mio cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.
E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco; ad ora ad ora in pianto
sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

     O casa di mia gente, unica...


A mezza strada tra Savignano e San Mauro è questa casa unica di mia gente e mia, là dove l’11 agosto 1867 (quanti anni! e a me pare non ancor tramontato quel giorno) deposero, con la nobile fronte forata e sanguinante, il mio padre, che vi chiamò con la virtù della passione di lì a poco anche mia madre, e prima di lei, una mia sorella, e poi un fratello e un altro. Tutta una famiglia è lì accolta, ineffabilmente triste, e io vivo con loro, ed essi non lo sanno e non mi vedono: hanno gli occhi troppo pieni di lagrime. Ma io non ho avuto e non ho altro fine al quale indirizzare l’opera e lo studio, se non questo, che a ogni momento trovo dolorosamente vano: farmi approvare, lodare e benedire da loro. Quanta inerzia, grama e lagrimosa, succede ai non radi impeti di quel lavoro nullo! Onde è che volendo almeno onorare la memoria di quelle care vittime, sento che è ben poco e piccolo ciò che posso dare a [p. 213 modifica]questo effetto, e più amara mi si rende quella sventura.

Non soggiacquero essi al destino comune e non li spense natura, coi suoi soavi strali, la quale concede ai superstiti il conforto e anche l’oblìo, necessario alla vita. Li uccise tutti, nel mio padre, la malvagità degli uomini, i quali finiscono la loro vittima, non l’annullano. Egli fu colpito nella strada, a qualche miglio da casa sua; ed egli è ancora per me (e anche per voi, che sapete) là; nella strada.

Non potere arrivare — singhiozza il mio povero babbo. Così piccole, così sole — sospira la mamma, morta di dolore. Non hanno essi della morte la requie, non si spense d’essi con la vita il dolore; questo (oh! solo questo) rimane d’essi. E intendo anche le vostre voci, o fratelli miei, Margherita, Luigi, Giacomo. Infelicissimi io vi sento e so tutti, e ho sempre contristata la vita dai vostri gemiti, che odo; poichè in me voi avete conservata metà della vostra vita, come io in voi ho perduta metà della mia.

Per questa causa non posso, per ora almeno, far sì che di voi, de’ quali si bisbiglia ancora appena, qua si pianga, e là, in tuguri o in palazzi, impallidiscano quelli che sanno, e pallidi restino sino alla morte. Ma per questo fine, non per la gloriola, la quale rifiuto come troppo meschino compenso della giustizia che la società mi deve, per questo io lavoro.

Intanto? Nel giorno de’ morti, i miei, nè donati nè visitati, in un canto del cimitero, uniti, [p. 214 modifica]tutta la famiglia,

piangono; la pupilla umida e pia
ricerca gli altri visi a uno a uno
e forma un’altra lagrima per via.
Piangono; e quando un grido ch’esce stretto
in un sospiro, mormora, Nessuno!
cupo rompe un singhiozzo lor dal petto.

Levan le bianche mani ai bianchi volti;
che non alcuno, al pianto disusato,
sollevi il capo attonito ed ascolti.
Posa ogni morto, e nel suo sonno culla
qualche figlio de’ figli ancor non nato.
Nessuno! i morti miei gemono: nulla!

Oh! sia questo libretto, per ora, qualche cosa.

Livorno, gennaio del 1892.


Quella volta, insieme coi frammenti del Giorno dei morti, stampai anche altre poesie di dolore intimo e nascosto sino ad allora nell’intimità della casa. Le mie sorelle — Ida e Maria — vollero che le unissi alle altre. Diedi retta. Io pensai che quel dolore non mi apparteneva in proprio se non per lo strazio che ne soffrivo; ma che in realtà era di tutti, doveva essere di tutti. Doveva essere, e non era, e non fu mai nè di tutti nè di molti nè di pochi. Fu solo nostro, e accompagnato da un tale abbandono, da un tal disprezzo, da un tal odio degli altri, che mi inchiodò nel capo la convinzione che nella società umana il delitto si sconta sì e crudelmente e a lungo, ma dalle vittime, non dagli autori. Chi ha toccato una volta [p. 215 modifica]un’ingiuria — di sangue e di morte — non cesserà mai di toccarne di nuove. Piove sul bagnato: lagrime su sangue, e sangue su lagrime. Di quercia caduta ognuno viene a far legna. E tagliato l’albero, così grande e bello, perchè hanno a sopravvivere i novelli? E i novelli si strappano da tutti. Bisogna far piazza pulita. S’era detto dall’indifferenza degli spettatori che il delitto era grande, atroce, insuperabile? Gli spettatori ci mettono dell’amor proprio, a che il delitto resti, nelle conseguenze, grande, atroce, insuperabile. Quando vedono che il dramma devìa e sembra conchiudere con qualche conforto e con qualche rivendicazione, s’ingegnano anche loro, i buoni spettatori, perchè non vada sciupata quella loro lagrimuzza iniziale, se ci fu.

Quali tristi parole, o lettore buono, o soave lettrice! Ma io ve le ho volute dire, nè solo per giustificare questa divulgazione (che altrimenti mi sarebbe parsa invereconda) delle mie sventure, ma anche darvi come il filo che vi conduca sicuramente attraverso questi e altri andirivieni della mia anima. E il filo, eccolo. Io credo che il male di cui tutti soffriamo, e che è così aggravato da cercare impaziente le cure più strane e diverse, è un grande residuo di crudeltà che circola per tutte le vene della società umana, la quale non vorrebbe essere di belve. Oh! se ha a durar così, se questo residuo ha a continuare a essere tanto e tale, meglio aprir la gabbia sociale, in cui, trovandosi strette, le belve sono anche più feroci, e trovano più vicini i vicini su cui esercitare gli artigli e le zanne, e li trovano [p. 216 modifica]più impacciati nel difendersi e meno provvidi nel guardarsi! Aprite la gabbia di ferro: se no, ammansate le fiere, ammansatevi, o fiere; e allora... non ci sarà bisogno di gabbia.

E tu, padre mio, e tu, povera madre, e voi, miei infelici fratelli, dormite in pace. Verrò anch’io presto. Il di più che io avrò vissuto in paragone di voi, non sarà stato tale da tenerne conto. Fui ucciso anch’io come tutti gli altri, in te e con te, o nobile vittima, dimenticata a quest’ora, forse, persino dai tuoi assassini.

Ma torniamo alla nota e facciamo nel tempo stesso che la lettrice si raddolcisca l’anima. Le Myricae furono accolte bene dalla critica. Ne fu anche tradotta qualcuna in altre lingue. Gentile lettrice, legga questa, tradotta da un gentile amico, Domenico Mosca. In che lingua? In una lingua fraterna.


 
La naiv, dadora, flocca flocca flocca:
Taidla: üna chüna in stüva va vi e nan.
Un pitschen crida, cul daintin in bocca;
La nonna chanta, cul misun sül man.
La nonna chanta: «Intuorn a teis lettin
Da rosas, gilgias es ün bel zardin».
Nel bel zardin il pitschen ’s drumanzet.
Dador la naiv flocca planet planet.

Fine.