Vai al contenuto

Naufraghi in porto/Capitolo IV

Da Wikisource.
Capitolo IV

../Capitolo III ../Capitolo V IncludiIntestazione 22 settembre 2019 100% Da definire

Capitolo III Capitolo V
[p. 42 modifica]

IV.

L’indomani verso sera Brontu Dejas rientrò di campagna, e appena smontato di cavallo cominciò a brontolare. In famiglia egli brontolava sempre, mentre con gli estranei si mostrava amabilissimo; del resto era un buon diavolo, giovine e bello, molto magro e molto bruno, e per contrasto con la barba rossa, corta e ricciuta. Aveva bellissimi denti e quando parlava con le donne sorrideva continuamente per mostrarli.

Rientrando di campagna, dunque, cominciò a brontolare perchè la madre non aveva acceso il lume nè preparata la cena; e forse non aveva torto, perchè infine era un lavoratore, lui, e dopo una settimana di fatica, quando il sabato rientrava in paese, trovava sempre la casa buia e squallida come quella d’un mendicante.

— Eh! Eh! Sembra la casa di Isidoro Pane — diceva, scaricando le bisacce dal cavallo. — Accendete dunque il lume, almeno, che non ci si [p. 43 modifica]vede neppure per imprecare. Che c’è da mangiare? pietre?

— Ci son delle uova, ecco, e del lardo, figlio mio, abbi pazienza — disse zia Martina. — Sai che Costantino Ledda è stato condannato a trent’anni?

— A ventisette. Ebbene, queste uova? Quel lardo è rancido, mamma mia; perché non lo buttate alle galline? Alle galline! — ripetè, stringendo i bei denti per la stizza.

Zia Martina rispose tranquilla:

— Non ne mangiano. Sì, a ventisette anni. Ah, son lunghi ventisette anni! Io sognai che lo avevano condannato ai lavori forzati.

— Ci siete stata, voi, da quelle donne? Ah! adesso saranno contente del loro matrimonio, quelle immonde pezzenti, — egli disse furioso: ma appena la madre ebbe risposto che, sì, c’era stata, che Giovanna si disperava e si strappava i capelli; e che zia Bachisia le aveva fatto capire d’essersi pentita di non aver affogato la figlia prima di permetterle quel matrimonio, Brontu si arrabbiò.

— Perché ci andate, voi? Che avete voi da fare nella tana di quei pidocchi affamati?

— Ah, figlio mio, la carità cristiana tu non sai cosa sia! C’era anche prete Elias, questa mattina; sì, andò da loro per confortarle. Giovanna vuol portare il bambino a Nuoro perchè Costantino lo veda prima di partire; io osservavo che è una pazzia, con questo sole; ma prete Elias diceva di portarlo, e quasi si metteva a piangere. [p. 44 modifica]

— Che ne sa lui di bambini? Come tutti i preti, anche lui è un uomo sterile, — disse Brontu, che odiava i preti perchè un suo zio, parroco del paese, aveva lasciato i suoi beni ad un ospedale. Anche zia Martina conservava rancore per questo fatto, ma sapeva fingere, la vecchia volpe, e ogni volta che Brontu parlava male dei preti, ella si faceva il segno della croce.

— Cosa dici tu, scimunito? Tu non sai neppure dove porti i piedi. Prete Elias è un santo. Se egli ti sente parlar male, guai! Egli ha i libri sacri e può maledire i nostri campi e far venire le cavallette e far morire le api.

— Allora è un bel santo! — osservò Brontu, poi insistè: — Come gridava Giovanna? Cosa diceva zia Bachisia, il vecchio nibbio?

Ebbene, Giovanna piangeva da schiantar le pietre, e zia Bachisia si disperava perchè, oltre al resto, adesso l’avvocato e le spese di giustizia l’avrebbero cacciata nuda anche di casa.

Il giovine ascoltava intento, beato, mostrando i bei denti di fanciullo. Nella sua contentezza era semplicemente feroce.

— Ecco, — disse poi zia Martina, — Giacobbe Dejas verrà fra poco, per parlare anche con te. Egli voleva cominciare il servizio domani, ma io gli dissi che aspettasse a lunedì. Ebbene, domani è festa: perchè deve mangiare a ufo?

— San Costantino bello, siete ben stretta (avara) mamma mia... [p. 45 modifica] — Ah, tu sei ancora un bimbo! Perchè sprecare? La vita è lunga, e per vivere ce ne vuole!

— E quelle due donne, come faranno? — domandò Brontu, dopo un momento di silenzio, sedendosi davanti ad un canestro dove zia Martina aveva deposto il pane e le uova.

— Ebbene, andranno a cercar chiocciole! — rispose zia Martina con ironia. Aveva ripreso il fuso e filava accanto alla porta aperta.

— T’interessano assai, quelle donne, Brontu Dejas!

Silenzio. S’udiva il rotolìo del fuso e il suono dei forti denti di Brontu che masticavano il pane duro: e fuori, di là dal portico, il zirlare dei grilli, e più in là, nella solitudine delle macchie, nella calda oscurità della sera, il grido melanconico della civetta.

Brontu prese un bicchiere e lo colmò di vino: e aprì la bocca, ma non per bere. Voleva dire una cosa a sua madre, ma non potè. Bevette: alcune goccie rimasero sulla sua barbetta rossa, ed egli le asciugò col dorso della mano, abbassando gli occhi e aprendo ancora le labbra per dire quella cosa. E neppure questa volta potè dirla.

Ed ecco un suono di scarponi nello spiazzo. Zia Martina, sempre filando, s’avvicinò al figlio, disse che veniva Giacobbe Dejas, prese il canestro ed il vino e li ripose nell’armadio.

Entrando, Giacobbe s’accorse dell’atto della vecchia e pensò che ella nascondesse il vino per non offrirgliene un bicchiere; ma era troppo [p. 46 modifica]uomo di mondo (così egli diceva) per offendersi, e si avanzò sorridente e lieto.

— Scommetto, — disse, portandosi un dito al naso — scommetto che parlavate di me.

— No. Parlavamo di quel povero Costantino Ledda.

— Ah, sì, povera creatura! — disse Giacobbe, facendosi serio. E dire che è innocente! Innocente come il sole! Nessuno meglio di me potrebbe affermarlo.

Brontu si mise in posa, accavallando le gambe, rovesciandosi un po’ indietro e mostrando i denti come faceva con le donne.

— Le opinioni sono varie! — disse con voce nasale. — Mia madre, per esempio, ha sognato che lo avevano condannato alla morte.

— O no, Brontu, cosa dici! Ai lavori forzati!

— Be’, fa lo stesso. Parliamo di noi.

Parlarono e conclusero l’affare del servizio: poi i due uomini uscirono assieme, e Brontu condusse il nuovo servo alla bettola: poichè non era avaro, Brontu, e se qualcuno andava a trovarlo a casa non gli dava un bicchiere di vino per non irritare la madre, ma poi lo conduceva alla bettola, dove si mostrava generoso. Quella sera fece bere tanto Giacobbe e tanto egli stesso bevette, che si ubriacarono.

Usciti poi sullo stradale buio e silenzioso, fin dove giungeva il profumo aspro dei campi, ripresero a parlare di Costantino, e Brontu disse crudelmente che era contento della condanna. [p. 47 modifica]

— Va’ al diavolo! — gridò Giacobbe. — Tu sei un uomo senza cuore.

— Ebbene, sì, sono un uomo senza cuore.

— Perchè Giovanna non ti ha voluto, tu ti contenti della morte di un tuo simile, anzi di qualche cosa peggiore della morte?

— Costantino non è morto, e non è mio simile, e Giovanna Era son io che non l’ho voluta. Se l’avessi voluta, mi avrebbe leccato la suola delle scarpe.

— Bum! Bada che cadi, uccellino di primavera. Tu sei bugiardo come una serva.

— Io? Io... non... sono... una... serva! — gridò Brontu, staccando le parole. — Se tu mi ripeti una cosa simile, ti prendo per il cocuzzolo e ti ammazzo.

— Bum! Ti ho detto che cascavi per terra, uccellino di primavera! — gridò Giacobbe.

Le loro voci risonarono nella notte: poi tacquero e tutto fu di nuovo silenzio. In lontananza, al brillare delle stelle che incoronavano di fiori d’oro i profili di sfinge delle montagne nere, l’assiuolo rispondeva al grido melanconico della civetta.

E d’un tratto Brontu si mise a piangere; uno strano pianto d’ubriaco, senza lagrime nè singhiozzi.

— Ebbene, che hai? — chiese l’altro sottovoce: — Sei ubriaco?

— Sì, sono ubriaco. Ubriaco di veleno, che tu possa morire affogato, avanzo di galera!

L’altro si offese, perchè non era stato mai non [p. 48 modifica]solo in carcere, ma neppure colpito da una contravvenzione; tuttavia domandò con voce timida:

— Diventi matto? che hai, perchè parli così? che ti ho fatto io?

Allora Brontu cominciò a lamentarsi, come se gli facesse male qualche membro, e disse che amava Giovanna come un pazzo, e che aveva sempre pregato il diavolo perchè Costantino venisse condannato.

— Si pigli pure la mia anima, il diavolo, non mi importa nulla, tanto io non credo a lui! — disse poi; e rise con un riso stridente più triste del pianto di poco prima. — Io sposerò Giovanna.

Giacobbe si meravigliò, ma dimostrò una meraviglia ancor maggiore di quella che realmente provava.

— Io sono come un uomo affogato! — disse. — Come, perchè, cosa vuol dire tutto ciò? Come tu puoi sposare Giovanna?

— Farà divorzio, ecco tutto. Ebbene? Ci sarà una legge che alle donne il cui marito è condannato a molti anni di reclusione, permetterà di riprendere marito.

Giacobbe aveva già sentito parlare di questa legge, e per non mostrarsi stupido disse:

— Ah, sì, lo so. Ma è peccato mortale. Giovanna non vorrà.

— È questo che mi affligge, Giacobbe Dejas! Vuoi tu parlargliene? Sì, domani.

— Sì, proprio domani! Come sei stupido, Brontu Dejas. Sei ricco ma sei stupido come [p. 49 modifica]una lucertola. Eppoi sei ancora più stupido. Tu che puoi sposare una donna pura, ricca, una fanciulla simile ad una rosa rugiadosa, tu vuoi sposare quella donna lì. In verità mia c’è da ridere per sette mesi...

— Ebbene, che tu possa ridere fino a spaccarti come il frutto del melograno! Io la sposerò! — disse Brontu, arrabbiandosi di nuovo. — Nessuna donna è come lei. Io, vedi, io la sposerò!

— E sposala, uccellino di primavera! — rispose l’altro ridendo. Anche Brontu si mise a ridere; e risero assieme a lungo, finchè videro un uomo alto, con un lungo bastone, venire loro incontro a passi silenziosi.

— Zio Isidoro Pane, avete fatto buona pesca? — domandò Giacobbe. — Sono ben punte le vostre gambe?

— Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe, — disse il vecchio. — Che odore di acquavite! Ah, devono aver rotto qualche barile, qui!

— Tu vuoi dire che noi siamo ubriachi? — gridò Brontu, minaccioso. — Tu non ti ubriachi perchè non hai di che; allontanati o ti ammazzo. Ti schiaccio come una rana...

Il vecchio fece una risatina soave e si allontanò.

— Stupido, — disse Giacobbe. — Egli può farti l’ambasciata; è amico di Giovanna.

— Ebbene, — cominciò a gridare Brontu, volgendosi e scuotendo le braccia, vieni, vieni! [p. 50 modifica]Vieni qui, ti dico, Sidore Pane, che ti morsichi il cane!

Rise della sua rima ben riuscita, ma Isidoro non si fermò.

— E dunque! — gridò ancora l’ubriaco, balbettando un poco; — ti dico di venire! Ah, tu non vuoi venire, piccolo rospo? Ti ho detto...

Ma Isidoro s’allontanava a passi silenziosi.

— Non parlare così, che modo è questo? — mormorò Giacobbe.

Allora Brontu cambiò metodo.

— Fiorellino, vieni! Vieni chè ho da parlarti. Dirai a quella donna tua amica... ebbene, sì, a Giovanna, che se fa divorzio io la sposo.

Allora il vecchio si fermò di botto, si volse, chiamò con voce sonora!

— Giacobbe Dejas!

— Che volete, anima mia? — disse il servo con voce sarcastica.

— Fallo ta...ce...re! — rispose Isidoro in tono di severo comando.

Non seppe perchè, nel sentire quella voce e quelle parole, Giacobbe prese il padrone per il braccio e lo trascinò via, mormorando:

— Sì, sei uno stupido. Che modi sono questi? Ti comporti come un montone, uccellino di primavera.....

— Non me l’hai detto tu?

— Io? Tu vacilli. Io non sono pazzo.

E andarono via uniti, barcollanti: nel portico dei Dejas trovarono zia Martina che filava ancora, al buio. Ella s’accorse che il figlio era [p. 51 modifica]ubriaco, ma non gli fece osservazioni, perchè sapeva che quando egli si trovava in quello stato, per un nulla montava in furore: soltanto quando Brontu le chiese del vino, ella rispose che non ce n’era.

— Ah, non c’è vino in casa Dejas, la più ricca del paese? Come siete avara, mamma mia! — egli cominciò a urlare. — Io non farò scandali, no, ma sposerò Giovanna.

— Sì, sì, tu la sposerai, — disse zia Martina per calmarlo. — Intanto coricati e non gridare, perchè se essa ti sente non ti vuole.

Egli tacque, ma volle che Giacobbe spiegasse e stendesse per terra due stuoie di giunco, vi si coricò e volle che il servo gli si coricasse accanto. Zia Martina lasciò fare per non irritarlo, e così Giacobbe invece che al lunedì prese servizio il sabato sera.