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Nel deserto/Parte II/Capitolo I

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Capitolo I

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Parte II Parte II - Capitolo II

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I.

Gli anni passarono. Una mattina verso la metà di maggio un uomo ancora giovane, alto ed elegante, si fermò davanti all’ingresso sempre polveroso del palazzo ove abitava Lia, e lesse con attenzione i cartellini d’affitto inchiodati al muro; poi si tirò un po’ indietro per guardar bene la facciata della casa, si volse di qua e di là, osservò la strada, osservò i dintorni. Il posto gli piaceva: la casa doveva esser piena di luce e d’aria; graziosi villini, alcuni già terminati, altri in costruzione, sorgevano di fronte, nei terreni che pur conservavano qualcosa d’agreste con le loro file d’alberi, i cespugli, i ciuffi di canne: ma i gridi delle erbivendolo, ritiratesi più in là verso la piazza Sallustio, il rumore dei carri colmi di materiale da costruzione e gli urli dei carrettieri che spingevano i cavalli attraverso i varchi fangosi praticati nei muri dei giardini, tutto quell’agitarsi di uomini e di bestie intorno alle pietre e alla terra [p. 116 modifica]smossa, gli dava una certa inquietudine. Tornò a guardare le finestre della casa, si battè a lungo nervosamente il pomo del bastone sulla palma della mano, e infine si decise a entrare.

Sì, lo finestre guardavano verso ponente: ed egli voleva questo; una camera solitaria, un rifugio ove al mattino il sole non lo irridesse con la sua luce di gioia, ma che al tramonto lo salutasse fraternamente, ricordandogli che tutto, nella giornata e nella vita, tutto, gioia e dolore, ha fine.

— Portiere, che camere ci sono?

L’uomo, grasso e rosso, in camicia turchina e grembiale di cuoio, stringeva fra le ginocchia una scarpa e tirava lo spago senza mai sollevare gli occhi.

— Al numero tre, camera e salotto.

— È una pensione?

— No.

— Che famiglia?

— Una vedova con due bambini.

— Allora niente.

L’uomo sollevò gli occhi: vide nel vano dell’uscio il bel giovane alto al cui viso bianco i capelli castanei divisi sulla fronte, gli occhi glauchi lunghi e socchiusi, la fossetta del mento e le labbra un po’ carnose e d’un rosa pallido, davano un’aria dolce, quasi feminea, e accorgendosi d’aver a che fare con una persona distinta [p. 117 modifica]da cui c’era molto a sperare, decise di sostenere validamente la causa della vedova.

— Sono bambini beneducati che d’altronde non stanno quasi mai a casa. La camera è bella, ariosa, il salotto è di lusso. Vada a vedere. La signora non ha mai affittato e non prenderà che un solo inquilino; è una signora molto per bene, onesta e seria. Poveraccia, fin troppo.... Il marito era un giornalista, bravo, dicono; scriveva per i giornali d’America. È morto nel novembre scorso, di polmonite; in tre giorni, taffete, a terra: molto sano però non era...

Adesso il bel giovane si batteva lievemente il pomo del bastone sulla guancia: e pareva ascoltasse con interesse la breve storia dolorosa, ma i suoi occhi non esprimevano che una dolce indifferenza.

— Un giornalista? Come si chiamava?

— Villanueva.

— Umh! Bè, andiamo a vedere.

Per un caso straordinario la scala era pulita e deserta: dalle finestre spalancate penetrava un profumo agreste d’erba e di terra smossa, e arrivava, simile a un lontano mormorio d’acque, un canto incessante di passeri.

Salvador, seguito dal fratellino, corse ad aprire. Entrambi indossavano lunghi grembiali neri che facevano risaltare il pallore diafano del visetto di Salvador e la tinta rosea delle guancie paffute dell’altro bimbo: ma il lutto dei due [p. 118 modifica]fratellini non intenerì l’estraneo, il quale anzi entrò guardandoli con diffidenza. Il salotto ove Salvador, sempre seguito dal fratellino, lo introdusse, era modesto e melanconico; e quei due bimbi, poi, uno magrolino e sdentato come un vecchietto, l’altro troppo roseo e grasso e con una capigliatura così abbondante e ricciuta che pareva una parrucca, lo fissavano con tale curiosità ch’egli si pentì di essere salito. Ma la vedova entrò, alta e pallida, vestita di nero, coi capelli così lisci e scuri che sembravano anch’essi una benda da lutto: il dolore, ma un dolore nobile e fiero, traspariva da tutta la sua persona, sopratutto dal suo sguardo, dalla piega della bocca, dal movimento delle suo mani fini e nervose: l’estraneo fu colpito dalla figura di lei, dalla luce limpida e triste di quei grandi occhi rimasti infantili, e la salutò come una dama.

— Favorisca, — ella disse precedendolo.

La camera vasta e signorile aveva alcunchè di allegro e di verginale: carta azzurra, mobili bianchi laccati, una copia di una Madonnina del Dolci sulla parete sopra il letto. Il fruscio incessante dei passeri penetrava come un soffio di gioia attraverso le tende di mussola dorata.

— Se il letto le sembrasse troppo grande, si può cambiare, — disse Lia, passando quasi con lenta carezza la mano sulla coltre azzurra.

Egli volgeva attorno i suoi dolci occhi d’egoista: guardò il quadretto, sollevò le tende, vide [p. 119 modifica]lo spazio verde di piante e d’erba e le costruzioni su cui gli operai si arrampicavano come su piccole montagne. Il cielo azzurro, sopra i palazzi gialli di via Boncompagni, era sparso di nuvolette bianche che parevano colombi; e non ostante i gridi degli operai e delle erbivendole una pace serena regnava in quell’angolo di città nuova, ancora vergine.

L’estraneo decise di restare.

— Il salotto, — disse Lia spingendo l’uscio, — lo farei qui. Adesso è la nostra sala da pranzo.

I bimbi, accanto alla finestra, guardavano silenziosi: Lia vide il volto dell’estraneo oscurarsi e disse con fermezza:

— I bambini non le daranno fastidio.

Allora egli trasse la sua carta da visita, e gliela diede.

— Se non le dispiace, tornerò più tardi per darle una risposta definitiva.

Ella prese la carta senza guardarla, e solo dopo che egli se ne fu andato lesse il nome stampato sui cartoncino:

Cav. Pietro Guidi

Capo Sezione nel Ministero del Tesoro.

I due fratellini si alzarono sulla punta dei piedi, appoggiandosi a lei.

— Fa vedere! Fa leggere....

— Piano! Io non ho mai veduto bimbi così curiosi. Ma che v’importa? [p. 120 modifica]

Ma cos’è che non importava a loro? Non si staccarono da lei finchè non ebbero il cartoncino: e il nome e la persona dell’estraneo riempirono il loro mondo.

— Ma lui non ha casa? — domandò Nino.

— Quanti anni avrà? — domandò Salvador.

— Forse dieci, — rispose l’altro pensieroso.

Dieci anni erano già per lui un’età avanzata.

— Eh, forse trentatrè o trentaquattro, — corresse la mamma: e Salvador, pensieroso anche lui, cominciò a contare con le dita.

— Allora, se muore come papà, ha altri otto anni da vivere.

Lia tornò in cucina senza rispondere, con gli occhi pieni di lagrime. La serenità dei bimbi, che, pur sapendolo morto, parlavano del padre come se fosse vivo e dovesse da un momento all’altro riapparire fra loro, era il suo strazio maggiore.

D’altronde ella si faceva un dovere di non turbarli col suo dolore; ma non aveva ancora la forza di parlare di lui come d’un caro lontano che deve ritornare o che si deve raggiungere.

Si rimise a preparare la modesta colazione, e le sue lagrime caddero sulle vivande. Da tanti mesi lei e i bimbi mangiavamo spesso il desinare condito così: ed erano lagrime di dolore, d’inquietudine, qualche volta anche di rimorso.

— Ecco, ecco — ella pensava — tutta l’orribile profezia s’è avverata, ed io non credevo, io [p. 121 modifica]chiudevo gli occhi! Che faremo, dunque, io e loro?

E riviveva continuamente nel passato, in quei brevi anni che erano stati come un’oasi nel deserto. Adesso ella aveva ripreso il viaggio, non più sola, ma peggio che sola, e i suoi occhi erano come colpiti da un bagliore accecante, dall’immensità spaventosa di un deserto ancora più grande e arido di quello che prima la circondava.

E ciò che più l’atterriva era il ricordo delle sue inquietudini, dei suoi presentimenti, delle avvertenze dello zio Asquer e degli altri. Ricordava la visita al paesetto, i brontolii della zia Gaina, i suoi propositi di lavoro. Gli anni erano passati inutilmente. Ella aveva allevato il bambino suo, ed educato il bambino altrui: poca cosa invero contro le insidie dei destino che si divertiva a tormentarla. Ella lo odiava, questo destino maligno, ed era pronta a combatterlo; ma si sentiva ancora fiaccata dai terribili colpi avuti, e le pareva di procedere a stento, barcollando.

— Che avverrà di noi, che avverrà? Farò dunque l’affittacamere, sì; ma se io morrò, che avverrà di loro? — È impossibile; tu non morrai, le rispondeva una voce interna, più disperata che convinta. — Anche per lui dicevo così. Ed egli è morto! Egli è morto! — ripeteva l’altra voce.

Allora il ricordo che, nonostante le sue [p. 122 modifica]inquietudini e le previsioni sue e degli altri, l’orribile avvenimento s’era compiuto, le dava impeti di disperazione profonda. Non è vero che le cose prevedute non succedono: sono anzi inevitabili, come dopo il giorno la notte e dopo l’autunno l’inverno.

Ella ricordava le confidenze, le preghiere, le raccomandazioni di suo marito, negli ultimi suoi giorni.

— Io ti ho sposata per amore, Lia, mia gioia, — le diceva baciandole le mani e aggrappandosi a lei come un naufrago all’asse fragile che la corrente trasporta assieme con lui, — ma anche per dare una madre al mio piccolo orfano. Tu non lo lascerai, vero, tu non lo abbandonerai, Lia.... Io ho sempre avuto paura di morir presto e di lasciarlo solo al mondo....

Ed egli era morto presto e Salvador non era rimasto solo. Ma perchè Justo, così amante della famiglia, non aveva preveduto anche il resto? Sì, aveva cercato di prevederlo; e negli ultimi anni, dopo la nascita del secondo bambino, per assicurare alla famigliuola un piccolo capitale egli aveva lavorato giorno e notte come uno schiavo, logorando la sua vita come un panno troppo usato.

Ma cos’è un piccolo capitale di diecimila lire in una grande città? mucchietto di paglia che il vento disperde in un attimo.

— Noi non morremo di fame, — pensava Lia, [p. 123 modifica]— ma se io non riuscirò a guadagnare qualche cosa morremo di inedia, il che è peggio ancora....

I bimbi avevan bisogno di nutrimento sano, di spazio, di moto; ella non aveva paura della povertà, ma si sentiva soffocare all’idea di doversi ritirare con loro in una camera stretta e senz’aria; d’altronde era necessario. Tutte le cose più tristi da lei prevedute succedevano: ella aveva già intaccato il piccolo capitale, e adesso, ecco, doveva piegarsi ad accettare in casa un estraneo, un ignoto, a cedergli il suo letto, la sua camera, a ritirarsi coi bimbi in uno spazio limitato.

Aveva dunque ragione di piangere, invece di rallegrarsi; e rimescolava i piselli nel piccolo tegame rivolgendosi la domanda che da tanti anni la perseguitava:

— Che posso fare?

Un grido di Salvador e il pianto di Nino la richiamarono dai suoi torbidi pensieri: vigile e pronta tornò alla realtà e corse e trovò i due omini che litigavano per un pezzetto di carta rossa.

— È mio, ti dico, è mio!

— È mio, invece, è mio!

Salvador scuoteva il fratellino; ma l’istinto della proprietà dava a Nino una forza di Ercole infante: il suo visetto rosso appariva, attraverso il velo dei capelli frementi, come un pomo in [p. 124 modifica]mezzo al fogliame d’autunno; coi dentini brillanti stringeva la lingua tesa nello sforzo, e i suoi pugni, non del tutto innocui, piovevano rapidi sul fratello maggiore.

Lia piombò in mezzo a loro e li divise.

— Vergogna! Per un pezzo di carta!

— Mamma, senti, il fatto è stato questo: la carta era mia, lui, che è dispettoso, tu lo sai, l’ha stracciata.

— No, no, no! — gridava Nino, che era il più prepotente, e negava tutto, negava sempre, negava anche la luce del sole. Por lui non esisteva che la sua volontà; quando si trattava di difenderla, tutte le armi, e specialmente quelle della bugia erano buone.

— Sentite, — disse Lia, minacciandoli ed esortandoli assieme. — Vi ho detto mille volte che non dovete litigare. Siete fratelli, non siete nemici. Se non vi volete bene fra di voi, fratellini, chi amerete dunque? Chi vi vorrà bone? Se poi sarete cattivi, peggio ancora: Tu poi che capisci già, Salvador, tu dovresti compatire il tuo fratellino e dargli il buon esempio. Spero poi che quando verrà a star qui quel signore non farai chiasso. Lo sai che siamo poveri e abbiamo bisogno di affittare le camere, adesso. Ma se tu farai così, gl’inquilini scapperanno; e allora?

Egli ascoltava pensieroso, rosicchiando la cocca del grembiale, mentre Nino, contento che la [p. 125 modifica]mamma non lo sgridasse troppo, le baciava la mano.

— Quando sarò grande lavorerò, — promise Salvador. — Anzi adesso farò il còmpito!

Andò a cercare la sua cartella e «illustrò una vignetta».

«A pagina 46 del mio libro di lettura io vedo un bambino seduto davanti a una tavola, davanti a una finestra dalla quale si vede un bel paesaggio coi buoi che arano la terra e il contadino che ci va dietro; e un altro contadino lavora col badile, e in aria c’è un uccellaccio che va in cerca di mosche da portarle ai suoi piccini. Il bambino seduto davanti alla tavola deve fare il suo còmpito ed io penso che lui dice fra sè: tutti lavorano, e devo lavorare anch’io se voglio vivere tranquillo. E quindi si mette a lavorare con piacere e fa il suo dovere e rende contenta la mamma».

Finito di scrivere rimase alquanto pensieroso; pulì con le dita una macchia d’inchiostro, rosicchiò la punta della penna, infine, per render completamente contento la mamma, «fece» anche un problema.

«Una povera donna deve pagare settanta lire al mese per la sua casa: affitta una camera a un signore e prende trecento lire: quanto rimane alla povera donna?»

Un sorriso di gioia illuminò il suo visetto di madreperla: prese il quaderno e corse in cucina. [p. 126 modifica]

La mamma lesse, corresse, e in ultimo sorrise anche lei.

— Se continua di questo passo, la povera donna diventa milionaria.

— È meglio, allora! — disse fervidamente il fanciullo. — Anche noi possiamo fare così, e diventar ricchi anche noi.

E in attesa di questa fantastica fortuna andò ad apparecchiare la tavola: mise la sedia davanti alla credenza, vi salì d’un balzo, a piedi giunti, prese i piatti, i bicchieri, la bottiglia, la saliera, porgendo mano mano ogni cosa a Nino e dandogli ordini severi.

Durante la colazione si parlò continuamente di «quel signore», e furono, da parte dei bimbi, promesse di non disturbarlo mai, progetti e castelli in aria, ma anche osservazioni e critiche non prive di finezza. Il naso, i baffi, i bottoni, le scarpe, il bastone dell’estraneo avevano già preso un gran posto nel mondo dei due fratellini: come non occuparsene e non scovarne i difetti e i lati ridicoli? Come non imitare il suo modo di parlare e di camminare? La mamma, al solito, mise fine alla commedia, di cui naturalmente Salvador era spesso l’attore e Nino lo spettatore che rideva fino a farsi venire il singulto: il piccolo dovette andare a letto, mentre Salvador s’affaccendava in cucina e nella saletta da pranzo, sparecchiando, scopando, aiutando ad asciugare i piatti, svelto e [p. 127 modifica]chiacchierone come una donnina. Ma quasi sempre i discorsi fra lui e la mamma erano elevati, e spesso anzi si aggiravano intorno a cose sublimi. Mentre la mamma, curva, con le sottane fra le gambe, lavava per terra, egli, con lo strofinaccio in mano, fissava gli occhioni luminosi nel vano infocato della finestra, su quel ìembo di cielo azzurro lontano e ardente come un cielo tropicale, e domandava:

— Quanti metri cubi può essere grande il cielo?

— Il cielo è infinito, lo sai; non si può misurare.

— Nessuno ha provato, però. Se uno provasse?

Egli si slanciava verso la finestra, agitando le braccia, sembrandogli già di nuotare nell'infinito; ma una savia osservazione di Lia lo richiamava realtà.

— Bada di non cadere, intanto.

— Mamma, che cos’è la vertigine? Tu sei mai stata in dirigibile?

— Io no. Ci andrai tu, spero!

— Io no, veh! Io non voglio cadere e lasciarti sola. Io non voglio aver vizi. Non voglio fumare, non voglio portare il bastone nè gli anelli.

Tutto ciò che era superfluo già rappresentava per lui un vizio.

Nino, intanto, nel suo lettino, non poteva addormentarsi. Sentiva la mamma ed il fratellino [p. 128 modifica]a chiacchierare ed era geloso; di tanto in tanto sollevava la bella testa riccioluta e tendeva le orecchie, e ogni parola di Salvador o di Lia rappresentava per lui un mistero. Egli viveva una meravigliosa vita di sognatore; ogni riflesso, ogni ombra, ogni gioco di luce era per lui un fenomeno; fantasmi luminosi e mostri, contro i quali del resto bastava La sola protezione della mamma, animavano il suo mondo.

Quando Salvador e Lia entrarono in camera, abbandonò la testa sul cuscino e chiuse forte gli occhi; ma come la mamma si curvava a guardarlo scoppiò a ridere, e dopo che ella, per convincerlo ad addormentarsi, ebbe raccontato la storia di un bimbo del suo paese, che, per non voler mai riposarsi, era diventato gobbo, egli a sua volta disse con serietà:

— Anche al mio paese un bambino mio amico incontrò un lupo, in riva a un fiume rosso, e cominciò a gridare «al lupo, al lupo». Allora....

Salvador rideva: la mamma disse:

— Adesso, basta; dormiamo.

Per un momento tutto fu silenzio, nella camera buia; ma a un tratto Salvador disse, inquieto:

— E se quel signore suona? Se non lo sentiamo?

— Lo sentiremo. Non pensarci.

Ma egli non potò addormentarsi.

E in attesa di «quel signore» Lia e i bimbi [p. 129 modifica]dovettero passare il pomeriggio a casa. Essa lavorava accanto alla finestra dei salottino, un po’ seguendo il corso dei suoi ricordi, un po’ abbandonandosi già al presente e pensando al modo di disporre la casa se «quel signore» si decideva a prender la camera e il salotto; i bimbi intanto si rincorrevano nelle altre camere, giocando e litigando, un po’ nervosi per la forzata clausura. Salvador ne capiva il perchè e non si lamentava; ma Nino entrava ogni tanto dalla mamma e le baciava la mano, le ginocchia, o si alzava sulla punta dei piedini mormorando!

— Un pacio, un pacio, — e lei reclinava la testa ed egli la afferrava al collo e la baciava sulle guancie, come sempre quando desiderava qualche cosa.

— Che cosa vuoi, Nino?

— Andiamo fuori, mamma!

— Più tardi, anima mia. Aspettiamo quel signore, poi usciamo.

Ma le ore del lungo pomeriggio luminoso passavano inutilmente, e una volta Nino, che era sempre l’ambasciatore delle cause che il fratello non osava perorare, andò a dire in segreto alla mamma:

— Anche Salvador vuole uscire!...

Lia chiamò il fanciullo, e lo abbracciò, stringendogli forte le spalle magroline. Egli era già alto come lei quando stava seduta e le [p. 130 modifica]rassomigliava in modo strano: il suo visetto pallido dai grandi occhi dolci e ardenti esprimeva ansia, desideri, fantasticherie superiori alla sua età.

— E vero che hai mandato tu Nino?

Salvador negò; ma siccome Lia lo fissava negli occhi dicendo che gli vedeva un punto giallo nelle pupille, segno di bugia, egli, sebbene non credesse al punto giallo, chiuse gli occhi e strinse le labbra per non ridere.

— Sì, ho detto la bugia.

— Usciremo più tardi, anima mia. Tu capisci; abbi pazienza.

Ma i bimbi erano stanchi di giocare; entrarono nel salottino e sedettero sul divano, sospirando e sbadigliando. Dopo un momento di silenzio Salvador domandò!

— Mamma, cosa mangiano le tartarughe? Tu, al tuo paese, avevi qualche tartaruga? Qualche biscia?

Allora ricominciarono i racconti del paese lontano, ai quali i bimbi s’interessavano in modo straordinario. Salvador ricordava ancora la brughiera, la casupola, i giorni di libertà goduti laggiù; e Lia, a misura che gli anni passavano, che la vita le mostrava sempre la stessa faccia di sfinge, ripensava anche lei alla brughiera, alla casupola, ai giorni del passato, con quella nostalgia infantile che colorisce le cose lontane e le rende belle, come la nebbia rosea del mattino rende belli i più aridi paesaggi. [p. 131 modifica]

Talvolta la pareva di sentir ancora il grido dell’assiuolo e di veder lo specchio delle paludi. Nulla era cambiato nell’animo suo: le pareva d’essere ancora la fanciulla melanconica che all’ombra del palmizio sognava il mondo bello e grandioso. Dov’era questo mondo? Ella era partita una mattina di primavera, in cerca della vita: e la vita l’aveva irrisa, gettandole appena qualche briciola per saziare la sua fame, e l’aveva percossa e buttata a terra. Eppure ella conservava, in fondo al suo cuore, un senso d’attesa e di speranza. Gira o rigira si trovava allo stesso punto dond’era partita: sola in mezzo ad una solitudine desolata; ma l’orizzonte non era chiuso, e al di là qualcosa doveva pur esistere: qualcosa d’ignoto e di grande, ch’ella non conosceva e neppure indovinava, ma verso cui anelava con tutte le forze represse della sua anima, come il cieco alla luce.

Cammina, cammina, dunque, voleva andar oltre, non tornar indietro, e sebbene la pace morta della landa la richiamasse, resisteva all’invito, e andava avanti.

— Sai cosa dobbiamo fare? — disse a un tratto Salvador. — Andiamo ancora a star là. Tanto adesso papà è morto. Là almeno c’è da correre, eppoi ci fanno tanti regali.

— Ah no, — disse subito Lia. — Là non ci sono scuole. E voi dovete studiare, carini miei, e abituarvi a lavorare, a vivere fra la gente. [p. 132 modifica]

— Ma là ci sono anche i contadini. A me piacerebbe molto a fare il contadino.

— A me il cavallino! — disse subito l’altro, che ascoltava avidamente.

— Tu non sai quello che dici! — gridò Salvador, spingendolo sul divano.

— Quando si è intelligenti come voi bisogna studiare e diventare grandi uomini.

— Il papà era un grande uomo?

Ella disse pietosamente di sì.

Uno squillo di campanello li fece trasalire.

— È lui! — disse Salvador balzando nel corridoio. Ma la mamma lo richiamò con un gesto, lo fece rientrare in salotto e impose:

— Silenzio, eh? E niente domande.

Andò ad aprire, e non sapeva perchè le batteva il cuore.