Nel deserto/Parte II/Capitolo II
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II.
Nei giorni seguenti ebbe molto da fare per la nuova disposizione del l’appartamento. Ma la fatica non la spaventava; e il portinaio grasso e bonario, aiutandola a trasportare i mobili, le diceva parole d’incoraggiamento e di speranza che la commovevano.
— Coraggio, signora Lia! Sa di che cosa si deve aver paura soltanto? Della vecchiaia. Quella, veh, ammazza anche i morti; ma per il resto, i dispiaceri cadono, paffete, come le frutta quando son marcie. Il signorino ha un’aria da buon ragazzo.
Egli strizzava gli occhi celesti ingenui mentre Lia s’asciugava il sudore con la punta delle dita e sperava. Salvador e Nino aiutavano, strofinando con cura le gambe dello sedie; sottovoce pronunziavano qualche parola proibita, — di quelle parole che più son proibite, più son misteriose e piacevoli a dirsi, — e ridevano, sotto il divano, come due grilli sotto un tronco; poi, ebbri e stanchi di gioia, litigavano, piangevano, si rincorrevano carponi come cagnolini stizziti.
Finalmente tutto fu in ordine; la sala da pranzo trasformata in salotto, questo in sala da pranzo: per la mamma e i bimbi rimaneva la camera in fondo, la più piccola, ove stavano appena due lettini e un armadio.
Lia si riposò; ma dopo l’eccitazione dei primi giorni sentì una tristezza profonda: di nuovo provò l’umiliazione della sua impotenza, si vergognò di non aver cercato ancora lavoro, di aver accolto in casa un estraneo. Gli aveva ceduto la sua camera, la camera ove era morto Justo, s’era ritirata in fondo all’appartamentino che aveva conosciuto la sua felicità, come uno che balza indietro sgomentato, sulla spiaggia dorata, all’avanzarsi del flutto. Un sentimento di rancore verso l’estraneo, che per lei rappresentava tutto il prossimo indifferente e pericoloso, cominciò a tormentarla. Il mestiere di affittacamere le sembrava un grado di decadenza morale; ma questa stessa umiliazione le dava, a sua insaputa, una forza occulta: il desiderio di lottare, di sollevarsi, di tentare la sorte. Qualcosa doveva pur fare: ella non sapeva ancora che cosa, ma si sentiva pronta alla lotta.
La donna di servizio, che ella aveva dovuto prendere per le più urgenti faccende della mattina, la esasperava coi suoi racconti e la sua filosofia volgare. Era una donna di ottimo cuore che amava i bambini per un istinto quasi animale, e compativa Lia perchè conosceva la miseria di altre famiglie decadute. Piccola e grassa, con un gran petto rotondo e duro che pareva un bastione di offesa e di difesa, buono a farsi largo tra la folla, paffuta e grigiastra in viso, con gli occhi azzurri e i capelli così radi che sembravano pennellate d’inchiostro sulla cute pallida del cranio, correva di qua e di là come mia palla elastica e in un attimo rimetteva silenziosamente a posto ogni cosa: aveva un nome dolce che Lia pronunziava con piacere: Rosa, e parlava dei suoi padroni con pietà materna.
— L’altra signorina dove vado a servire alla mattina, quando ho finito qui, quella, sì, può dirsi disgraziata, non lei, signorina mia. Lei è in paradiso, in confronto: lei è bella, è sana, è intelligente: quell’altra è una povera anima. Pazienza! È un filo, un soffio, e deve lavorare per la nonna paralitica e tre sorelline piccole. Nè babbo nè mamma, pazienza, ma far lei da babbo e da mamma a diciott’anni, signorina mia, pensi!
— Come lavora? — domandò Lia.
— Scrivo a macchina. La macchina gliel’ha comprata una signora benefica, che va a trovare la povera paralitica: si chiama la signora Bianchi.
Lia trasalì. La signora Bianchi era la stessa che aveva mandato le rose rosse, a lei ed a Justo sposi; che li aveva sovente invitati alla sua tavola scintillante di cristalli e di sorrisi, e che ancora di tanto in tanto mandava a prendere Nino e Salvador per offrire la loro compagnia gaia e semplice al suo bimbo malaticcio.
— La signora Bianchi, io la conosco.... Sono stata a pranzo da lei....
La serva le balzò davanti, fissandola in viso con occhi scintillanti.
— Anche lei la conosce? È stata a pranzo? Allora....
Lia scosse la testa con fierezza.
— Ma io non ho bisogno di nessuno! Rosa!
— Non si sa mai, signorina mia; non si sa mai!
— Tacete! — disse Lia irritata. — Meglio morire che viver di elemosine.
Una mattina arrivò l’inquilino. Salvador era già a scuola, e Nino, relegato nella saletta da pranzo, si contentava di sporgere la testa dall’uscio, stringendo sotto il braccio la sua pecorina sporca e raccomandandole sottovoce di non belare.
— Altrimenti quel signore scappa via.
Il bambino provava per quel signore un sentimento arcano, misto di curiosità, di terrore, di odio e di stima. Eccolo che arriva! Come è alto! Come i suoi baffi son dorati e belli! Salvador ha un bel ridere: il bastone dal pomo lucente, l’anello con la goccia d’acqua che quel signore tiene al dito, lo scricchiolio delle sue scarpe, il colore violaceo della cravatta, tutto desta in Nino ammirazione e timore. Il bastone specialmente attira la sua curiosità e il suo desiderio, come un oggetto il cui possesso può dare una grande felicità. Ma questa felicità bisogna sapersela guadagnare, con la pazienza od anche con l’astuzia.
Un uomo grande e nero segue quel signore, portando sulle spalle un baule giallo: la voce velata della mamma dice: qui, qui, — e si sente un rumore di passi o di oggetti che stridono sul pavimento: poi l’uomo, il signore, la mamma spariscono, e per qualche minuto Nino non vede più nulla.
— Non miagolare, — egli ripete al suo pecorino, — altrimenti quel signore scappa via, ed io ti metto in castigo.
Ma intanto egli preme il braccio e il pecorino, così stretto, bela per forza.
— Ed io l’ho detto che disubbidivi! In castigo, adesso....
Per metterlo in castigo, cioè nell’angolo dietro la porta d’ingresso, uscì nel corridoio; così vide l’uscio della camera aperto, e la mamma, vestita di nero come sempre, ma insolitamente rossa in viso, che apriva i cassetti del canterano e consegnava una chiave a quel signore dicendogli!
— Qualunque cosa le occorra....
— Grazie, — disse quel signore, con la sua voce calda e sonora.
Nino s’avvicinò alla porta e quindi all’attaccapanni, dal quale pendeva il bastone color nocciola col pomo verdognolo che pareva un fico: impossibile non esaminarlo da vicino e non tentare di toccarlo; ma egli aveva appena teso la manina, quando la mamma e quel signore uscirono nel corridoio.
— E questa è la chiave del portone.
— Va bene, grazie; allora, se crede, lei può metter la roba a posto.
— Non dubiti: subito.
Fortunatamente quel signore uscì, senza veder Nino che aveva fatto a tempo a ritirarsi nell’angolo. Ma la mamma lo vide, sì, e lo prese per il braccio, dicendogli le cose che più lo umiliavano: — Subito subito hai disubbidito: sei più cattivo di Salvador. Come si fa?
Egli chinò la testa e ripetè fra sè: — Come si fa? — e ritornò nella saletta da pranzo; ma dopo un momento, dimenticate le sue pene, curiosava di nuovo nel corridoio. La mamma rimetteva nel cassettone e nell’armadio i vestiti e le camicie di quel signore; e ad un tratto si curvò ed estrasse dal baule un quadretto che guardò e poi depose sul marmo del comodino. Allora il bimbo non potè più tenersi: entrò, in punta di piedi, s’avvicinò, guardò: dal quadretto gli sorrisero tre figure; un vecchio dalla lunga barba e dall’aspetto nobile o fiero; una donna di mezza età, rubiconda, coi piccoli occhi azzurri e i capelli tirati come quelli di Rosa, e una giovinetta che rassomigliava a quel signore, così bianca e con la fossetta sul mento.
Incoraggiato dal silenzio della mamma, che continuava ad estrarre oggetti dal baule, Nino domandò!
— Chi è questa bambina? Di chi è?
— Sarà forse la sorella del signor Guidi
— E questo vecchio?
— Sarà suo padre.
— Suo padre? Ah, ah, tu mi fai ridere!
— Perchè, insolente?
— Perchè tutti i padri sono morti.*
L’estraneo era metodico e taciturno: usciva tardi alla mattina e rientrava tardi alla notte, sempre alle stesse ore: e se per caso rientrava durante la giornata non faceva chiasso, ma pretendeva che anche intorno a lui regnasse il silenzio più profondo. La sua camera era sempre in disordine, impregnata da un forte profumo di sapone fino.
Dopo il primo giorno egli non aveva più rivolto la parola a Lia, contentandosi di dare qualche ordine alla serva: e le domande, i sorrisi, le offerte e le investigazioni di questa s’erano spuntate come contro una pietra.
— O non capisce l’italiano, sebbene lo parli, o è sordo, — disse Rosa: e i bambini risero e fecero tesoro della scoperta. Se alla mattina Salvador faceva chiasso e la mamma lo sgridava, egli diceva con aria perfidamente ingenua:
— E tanto è sordo!
I due fratellini covavano una sorda antipatia contro l’estraneo: Salvador, più cosciente, aspettava ancora un segno di benevolenza da lui, e vedendosi trascurato provava un’ostilità invincibile; l’istinto primitivo del debole contro il forte da cui viene spostato e cacciato in un angolo.
Anche Lia provava lo stesso sentimento: di notte aveva paura e si chiudeva in camera e trasaliva ad ogni minimo rumore. Chi era là, nella sua casa? Un ignoto, un uomo che ella non aveva mai veduto nella sua strada. Egli poteva farle del male e andarsene come un ladro notturno. Che fare, che fare? Ella si stringeva ai suoi bambini, ma aveva paura anche per essi.
Una mattina Rosa, che divideva l’ostilità della sua padrona per l’estraneo, portò misteriose notizie di lui.
— È da poco a Roma. Era impiegato in un altro posto, chissà dove; ha cambiato con uno qui del Ministero, uno che aveva perduto al gioco e s’è come venduto il posto: sì, pazienza; e anche questo nostro signorino non si sa chi è: non parla mai con nessuno, ma il portiere del Ministero, che è mio amico, dico che dev’essere ammogliato. Ma la moglie dov’è? Pazienza: se si potesse domandarlo a lui; ma non capisce l’italiano.
Ammogliato? Diviso dalla moglie? Il suo aspetto non era certo quello d’un uomo felice. E d’un colpo il rancore e le paure di Lia caddero, ed ella si sentì legata all’estraneo dal filo sottile che unisce un infelice all’altro, anche se essi non lo vogliono, come il filo del ragno unisce le spine del cespuglio attorno a cui si aggira.
Allora la sua vita riprese, in apparenza, il suo corso se non lieto, tranquillo: fra la sua piccola rendita e quello che le dava il Guidi, ella riusciva a pagare il fitto di casa e a mantenere la famigliuola. È vero, però, che lei e i bimbi si contentavano del puro necessario: vivevano di latte, di uova, di erbe. La domenica ella faceva un dolce molto economico, di ricotta e di zucchero, ed i bimbi rimanevano contenti per tutto il resto della settimana, o fino al giorno in cui la signora Bianchi mandava a prenderli e faceva servir loro una merenda da novella di fate. Ma verso gli ultimi di maggio la pietosa signora partiva e le feste finivano.
Col primo di giugno Salvador andava a scuola alle otto meno un quarto, per tornare alle dodici o mezza: rientrava stanco e nervoso; e vedendolo così, Lia, anche lei sfinita, s’inquietava e si rattristava.
Ella doveva alzarsi presto, alla mattina, per accudire a tutto, preparava il caffè, scaldava l’acqua per l’estraneo; lavava i bambini e li chiudeva nella saletta da pranzo, perchè non facessero chiasso, sorvegliandoli come carcerati. Ma anche Salvador si ribellava; e nella lotta quotidiana fra lei e i bimbi ella vinceva sempre a forza di volontà e talvolta di rigore eccessivo.
Un giorno dovette dare uno scapaccione a Salvador che incitava Nino ad andare a picchiare all’uscio del Guidi; e il fanciullo si mise a piangere sconsolatamente.
— Tu mi maltratti perchè non mi vuoi bene. Nessuno mi vuol bene, nessuno, perchè io non ho papà e non ho mamma....
Per un senso di giustizia e per cancellare dall’anima di Salvador la triste impressione, ella percosse anche Nino.
Allora accadde una scena comica e pietosa: Nino cercò protezione nel fratellino; piansero assieme, e anche il piccolo ripeteva:
— Nicciuno mi vuol bene pecchè non ho papà nè mamma!...
Lia diventò nervosa. Sopravveniva il caldo, spesso soffiava lo scirocco e turbini di polvere velavano l’aria, rendendola irrespirabile. Tutti i giorni, dalle quattro alle sette, ella conduceva i bimbi a Villa Borghese, e mentre essi giocavano nei prati ove l’erba cominciava a inaridirsi, ella ripensava al passato, seduta davanti alla fontana, nello stesso pasto ove Justo le aveva dichiarato il suo amore. E cadeva in una specie di sogno sembrandole di riveder la figura dello zio, melanconica e tetra, e la figura melanconica e dolce di suo marito.
Quel luogo era per lei quasi sacro, come un tempio ove fossero sepolti i suoi cari; i loro spiriti le si aggiravano intorno, le parlavano con la voce monotona della fontana, col mormorio degli alberi. Le pareva di aver sognato e di sognare ancora: ecco, bastava alzarsi, volger la testa, per vedere ancora la mite figura di Justo stesa sull’erba, intenta ai giochi del piccolo Salvador. Sembrava ieri, sembrava un secolo!...
Ma ella si voltava, vedeva i bimbi vestiti di bianco, con una fascia nera al braccio, e trasaliva come svegliandosi di soprassalto; e un nodo le stringeva la gola, costringendola a curvare nuovamente la testa oppressa dal peso dei ricordi.
L’illusione tornava. Ella si rivedeva là, due anni prima, un anno prima: là, allo stesso posto, quieta, tranquilla, come assopita nella sua felicità quotidiana diventata abitudine. Bastava alzarsi, chiamare i bimbi, tornare a casa per trovare la tavola apparecchiata, il pranzo pronto, Justo che aveva finito il suo lavoro e aspettava i suoi figli e sua moglie e i loro baci, come un compenso al suo sforzo e alla sua tenacia di lavoratore.
Povero Justo! Nell’ultimo anno era diventato un po’ nervoso, più taciturno ma meno calmo del solito: e s’era vieppiù ingrassato, ma d’una pinguedine molle, pallida, quasi vuota. Qualche volta Lia, che aveva studiato lo spagnuolo, provava una strana impressione nel leggere gli articoli di suo marito: le pareva che anch’essi fossero sempre più abbondanti di parole, ma scialbi, morti: riflettevano, per così dire, la stanchezza e l’esaurimento del giornalista.
Lia non s’illudeva: Justo era in decadenza, come uomo e come scrittore, ed ella talvolta, accorgendosi di valer poco per lui, provava un senso di umiliazione. Un’altra donna forse avrebbe tenuta desta l’intelligenza di Justo, dedicandosi tutta a lui, eccitandone l’ambizione: neppure questo ella aveva saputo fare; non era riuscita a farsi amare da lui come un’ispiratrice, di quell’amore che è fonte di creazione artistica, e lo aveva legato a sè, nella cerchia della modesta felicità domestica, in modo ch’egli non cercasse fuori di casa altre ispiratrici ed altre inspirazioni.
Adesso si rimproverava tutto questo; ma nei momenti di rassegnazione pensava che, spinto a far di più, Justo si sarebbe egualmente esaurito, e sarebbe morto poichè la sua ora era giunta.
Allora si scuoteva e si guardava attorno come l’uccello che si sveglia sul nudo ramo, d’inverno. Rabbrividiva ma pensava a vivere, e la visione del presente le si svolgeva attorno desolata ma nitida.
Una notte Salvador si svegliò piangendo, tormentato da un forte dolore ad un orecchio. Era una notte burrascosa e calda; soffiava un forte scirocco, di tanto in tanto la grandine batteva ai vetri e il rombo del tuono dava la lugubre idea che la città crollasse.
I nomi delle malattie più fatali le passarono in mente: un folle terrore la invase al pensiero di trovarsi sola davanti a un pericolo oscuro. Ah, ella conosceva già quel terrore, e il ricordo delle ore passate al capezzale di Justo morente aumentava la sua angoscia. Tutto il mistero di una solitudine infinita, di una notte in mezzo al deserto la circondava.
Prese Salvador fra le braccia, lo cullò, gli parlò come ad un bimbo di due anni; egli piangeva, ma capiva il dolore di lei e, pur lamentandosi, cercava di confortarla.
— Domani sarà passato, mamma. Mamma cara, non può durare, se no, come vado a scuola? Ho fatto da cattivo, ho fatto chiasso, mentre il signor Guidi dormiva, e così ti ho recato dispiacere.... e perciò Dio mi castiga.... Ma tu mi perdoni, mamma, e anche Dio mi perdonerà....
Finalmente all’alba il dolore diminuì ed egli si riaddormentò.
Anche il tempo si rasserenava: Lia era stanca, affranta, ma non tornò a letto.
L’alba la chiamava. Aprì la finestra e sentì il profumo dei giardini, il canto degli uccelli. Guardò il cielo solcato da piccole nuvole di argento che si rincorrevano e parevano dirette verso un orizzonte ove tutto era pace e freschezza e sentì la nostalgia dei luoghi solitari, delle spiaggie marine e desiderò prendere con sè i suoi bambini, portarli fuori da quella stanzetta che sembrava una gabbia e seguire con loro le nuvolette che andavano verso le montagne e verso il mare. Ma ben presto s’accorse che tutto questo era poesia. La realtà sogghignava alle sue spalle, e la richiamò con lo squillo tremulo del campanello del signor Guidi.
Era la prima volta che egli suonava a quell’ora insolita. Lia corse contrariata ed inquieta, provando, come sempre, un senso d’umiliazione e di pudore offeso nel vedere un estraneo nel suo letto, al posto del povero Justo.
Egli stava sollevato sul gomito ed era pallido in viso, coi baffi spioventi, gli occhi cerchiati di nero.
— Scusi, — disse con voce rauca. — Mi sono sentito poco bene stanotte. Vorrei una tazza di caffè.... se non le dà noia...
— Subito! — ella rispose, placata all’idea che anche lui soffriva.
— Anche il suo bambino è stato poco bene? — egli domandò quando Lia portò il caffè. — Era il piccolo?
— No, era Salvador che aveva male ad un orecchio.
— Lo porti dal medico, — aggiunse il signor Guidi con premura, mentre Lia lo guardava sorpresa, — perchè non ha chiamato, signora Lia?
— Ma le pare? E lei come sta, adesso? Le occorre niente?
— Grazie, nulla. Senta. Ha il medico, per i suoi bambini? Se no, posso darle un biglietto per un mio amico, il dottor Fontana, che ha un ospedalino infantile in via Mecenate. Vada, signora Lia; il male del suo bambino potrebbe anche essere un’otite e non bisogna trascurarla.
Lia lo fissava, stupita: negli occhi di lui brillava una luce di pietà, ed ella uscì dalla camera con l’impressione che i loro rapporti fossero a un tratto divenuti amichevoli: e tanto si sentiva sola, nella vita, che bastò quest’idea per confortarla.
Più tardi, sebbene Salvador non sentisse più alcun disturbo, cedendo alle premure del signor Guidi ella prese il biglietto e assieme coi bimbi andò dal medico. Fu quasi una gita di piacere perchè attraversarono a piedi tutta la via Merulana allagata di sole e di azzurro, fecero il giro del mercato di piazza Vittorio Emanuele, comprarono un mazzettino di ciliegie e sostarono nel giardino, davanti al laghetto verde solcato dai cigni neri che si lasciavano addietro un nastro d’oro.
Ma il luogo pareva assediato da una folla agitata e urlante; attraverso il verde si vedeva, sui marciapiedi ancora lucenti per la pioggia della notte passata, un luccicare di mercanzia di latta, di bicchieri di vetro, di specchi e di quadretti dalla cornice dorata. Tutto un popolo multicolore s’agitava attorno alle erbivendole le cui teste emergevano dal verde umido degli erbaggi, diaboliche e irrequiete come teste di Medusa: e accanto ai carretti colmi di ciliegie d’un rosso livido, i grandi mazzi di gigli già languenti sembravano più bianchi, d’un candore anemico di fiori malati.
Lia osservò che tutto era un po’ guasto o di qualità scadente, in quel mercato popolare; le fragole erano pallide, le ciliegie troppo mature, come piene di sangue malato: l’odore del pesce guasto si mischiava al profumo acre dei fiori che marcivano. Lo scirocco aveva sciupato ogni cosa, non tanto però da allontanare la povera gente mediocre le cui condizioni — pensava Lia — rassomigliano in qualche modo a quelle della roba che compra.
Ella si vedeva nel gran numero, e un brivido di pietà e di disgusto l’assaliva. Anche il giardino era invaso da mia folla misteriosa di giovanotti pallidi dall’eleganza equivoca, vestiti di verde, con le scarpe gialle; alcuni si abbandonavano a una fosca contemplazione del lago e dei cigni; altri sorridevano e gridavano parole insolenti a una donna bruna e scarmigliata che attraversava il viale sollevando le gonne sulle scarpine bianche infangate.
Lia riprese per mano i bimbi pensando con terrore che se voleva spender poco doveva abitare nelle case ove si rifugiavano quei disgraziati.
In fondo a via Mecenate si fermarono davanti a una casetta silenziosa alla cui porta batteva una striscia di sole e al cui fianco, come in certe vignette romantiche, un albero protendeva i suoi rami un po’ scuri. Aprì un’infermiera grassa e candida come una colomba e sorrise ai bimbi che la fissavano con curiosità. Lia porse il biglietto, ma dovette egualmente aspettare a lungo, nel salottino dalle pareti smaltate e dai sedili di vimini. Si udiva nell’ambulatorio attiguo un sommesso chiacchierio di donne povere e il pianto d’un bimbo malato: e mentre Lia si confortava pensando che esistevano miserie più grandi della sua, Salvador leggeva i diplomi d’onore dell’Ospedalino, attaccati come quadri alle pareti. A un tratto diede un grido di sorpresa:
— Mamma, qui c’è scritto il nome della signora Bianchi, leggi!
Ella s’alzò, ma prima di leggere i nomi dei benefattori dell’Ospedalino, sentì il dottore entrare a passi lievi e ricordò allora di aver altre volte veduto quel viso calmo quasi immobile, quella testa marmorea dai folti capelli bianchi scarmigliati, alquanto rigettata all’indietro: gli occhi sporgenti e velati, con le palpebre grevi, fissavano un punto lontano. Sembrava distratto; ma quando Lia gli ricordò che s’erano già conosciuti dalla pia signora, e gli spiegò il perchè della sua visita, curvò la testò, leonina; ed i suoi occhi si fecero luminosi e attenti. Mise Salvador accanto alla finestra, gli esaminò la gola, gli palpò la nuca, gli diede un colpettino sulla testa.
— Andiamo a scuola?
— Sono già in terza! — esclamò Salvador, ridendo dell’ingenua domanda.
La mamma lo guardò corrugando le sopracciglia, e anche Nino, che aveva già aperto la bocca, per interloquire, rimase silenzioso.
— Sì, fa la terza. L’orario è lungo; cinque ore di seguito, e poi còmpito a casa, e troppa aritmetica. Il bambino si stanca, forse....
— E quindi l’anemia scolastica. IL bambino è debole. Lo conduca al mare, ma non quando fa troppo caldo.
Salvador guardò la mamma, sicuro di sentirle ripetere che per quell’anno non si poteva andare al mare perchè il papà era morto e nessuno più, in casa, guadagnava soldi; ella invece domandò se i bimbi dovevano fare il bagno tutti i giorni, o star soltanto sulla sabbia, e avuta la risposta porse la mano al dottore, ringraziandolo e promettendo di tornare.
Egli era ricaduto nella sua apparente distrazione, ma quando Lia s’avviò per andarsene si scosse e parve ricordarsi di qualche cosa.
— La signora Bianchi mi disse che lei voleva tornarsene al suo paese: s’è invece stabilita qui?
— Sì! Non era possibile andar via.... per i bambini.... che devono studiare....
— Bene, bene!.... ma non li faccia studiar troppo!
Lia trasalì. La signora Bianchi aveva parlato di lei? Perchè? Conosceva le sue condizioni? Per un momento ebbe l’idea di rivelare al dottore le sue inquietudini, domandargli aiuto e pregarlo di intercedere per lei presso la pia signora, onde questa le procurasse lavoro e guadagno; ma egli aveva già aperto l’uscio, e come un mormorio triste di preghiera, di lamento e di minaccia, venne su dall’ambulatorio, dove le madri povere coi bimbi malati in braccio aspettavano; ed ella pensò che altre miserie incalzavano, e uscì.
Nell’attraversare l’ambulatorio le parve che il suo dolore, confuso col dolore di tutta l’umanità povera, fosse meno distinto, meno vivo, come una macchia su un fondo scuro.
Appena furono nella strada, Salvador domandò con malizia:
— Dunque i soldi li abbiamo? E tu dicevi....
— Non li abbiamo, ma li troveremo.
— E come si fa? I soldi non si trovano mica per terra; lo hai detto tu.
— La mamma trova sempre i soldi per i suoi bambini, purchè questi sieno bravi. Anche per terra, se occorre.
Allora egli, rassicurato, si mise a ridere; e stringeva la mano alla mamma, gliela baciava, camminava con una gamba sola. Nino, invece, che pareva non avesse capito nulla della visita al dottore, camminava pensieroso e taciturno, a testa, bassa.
— Ma che guardi, Nino?
— Guardo se per terra si trovano i soldi.