Note sulla Fine di un regno/Capo I

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Capo I

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Capo II

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I.

Memor col titolo «la Fine di un Regno» ha pubblicato alcuni importanti articoli nel Corriere di Napoli, e ne ha fatto la ristampa in un volume a parte, ch’è molto ricercato. Ma le geste della Polizia borbonica contro i liberali, e la lotta da questi sostenuta, meritano il racconto di altri particolari, che servono a ritrarre più chiaramente quei tristi tempi: ed io mi accingo a farlo con queste brevi Note.

Sotto pena di galera erano proibite le pubblicazioni politiche, e si permettevano solamente pochi giornali letterarii e scientifici. Oltre ai Revisori di opere, di cui discorre Memor, n’erano addetti altri per ogni stampa periodica, scelti tutti dalla Polizia, e senza il visto di questi nuovi Minossi, non poteva andare in macchina alcun foglio. Erano essi la vera disperazione degli scrittori, perchè a loro libito storpiavano, mutavano [p. 4 modifica]parole, cancellavano frasi, e toglievano persino pagine intere.

In un giornale, che doveva stamparsi il giorno appresso, si trovava per caso l’esclamazione: «diavolo!», e il Revisore cassó, e sostituì invece «cavolo!» Oh che bei tempi! Non si poteva nominare neanche il diavolo. E se ne potrebbero raccontare migliaia di simili amenità.

Salvatore Tommasi, emigrato a Torino, mandò un articolo da inserirsi nel Morgagni. Si trattava di una confutazione al materialismo di Moleschott. Il Revisore prof. Minichini tolse per intero la parte espositiva di Moleschot, ch’era messa innanzi al detto articolo. Allora il Redattore del Morgagni, che ora scrive le presenti Note, si recò dal Minichini a lamentarsi, che in tal guisa il lavoro riusciva incompleto, monco, e mancava la base sulla quale Tommasi aveva fondata la sua critica. E quello, con voce nasale, rispose: eh, mio caro, l’ho tolta, perchè i lettori potrebbero più volentieri invaghirsi della dottrina materialista di Moleschott, anzichè della critica di Tommasi. Questi ne rimase indignato, e non volle più per molto tempo collaborare al Morgagni.

Si stampava pure in Napoli la così detta Gazzetta Officiale del Regno, che si voleva far passare per giornale politico, nella quale di politica si discorreva sì poco e in così minima parte, che parea come l’Europa non esistesse. Vi s’inserivano sola mente i decreti, le nomine agli impieghi, gli annunzi, [p. 5 modifica]gli avvisi d’asta ec. ec.; e per tutto il resto le notizie erano quisquiglie che addormentavano il rispettabile pubblico.

Per avere un’idea del modo com’era compilata, basta riferire il seguente esempio. Un fatto avvenuto in un paese di Calabria fu annunziato dalla Gazzetta Officiale del Regno dopo due mesi! Ma non sta qui il bello: si toglieva siffatta notizia da un giornale d’America! Non descriverò in queste Note le sevizie, le condanne, i martirii inflitti ai liberali dal passato governo borbonico: sono cose note oramai a tutto il mondo. Accennerò soltanto a qualche lato ridicolo della Polizia, che non sapendo più che fare, incominciò una guerra spietata contro le barbe ed i cappelli.

Il Maestro di musica Battista, molto popolare in Napoli per sue belle operette rappresentate al Teatro Nuovo, portava folta la barba per nascondere un suo difetto alle guance. Fu arrestato in via S. Giacomo dal Commissario Campagna, e circondato da guardie fu condotto in Questura, ove gli si ordinò, presente un barbiere, di radersi quella barba. Battista si oppose, e non valsero ragioni nè santi. Campagna lo chiuse in prigione dicendogli: di qui non uscirai più se non sbarbizzato, e gli pose a fianco di guardia un barbiere. Il Maestro tenne duro per qualche tempo; ma poi non potendone più si fece radere. Uscendo di prigione ricorse subito dal Direttore di Polizia per protestare di [p. 6 modifica]quello sfregio commesso al suo viso: protesta inutile perchè la barba era già rasa.

Ad un giovane, arrestato pure per la barba, l’ispettore di Polizia domandò: siete voi italiano? Quegli rispose: sissignoro. Allora l’ispettore balzò di sedia furibondo, chiamò le guardie, gridando: è un reo confesso!

L’istesso Campagna arrestò di pieno giorno in via Toledo un ricco signore abruzzese, Nicola Mayer, perchè non gli piaceva il suo modo di camminare, e senz’altro motivo lo ritenne in carcere più di un mese.

La vera caccia poi si dava agli studenti. Per non farne radunare molti in una volta a Napoli s’impartirono ordini rigorosissimi a tutti i sindaci di non rilasciar passaporto se non a quelli che fossero muniti della licenza professionale, ottenuta in un liceo di provincia. Di questi licei ve n’era uno a Bari per le Puglie, uno ad Aquila per gli Abruzzi, ed un altro a Cosenza per le Calabrie. Ora un giovane che si addiceva, per esempio, alla medicina doveva in uno di questi licei studiare e dar gli esami di belle lettere, fisica, chimica, anatomia, fisiologia, materia medica ecc.; e simili provvedimenti vennero presi per le altre professioni. Con la licenza professionale si poteva chiedere il passaporto per recarsi in Napoli e dimorarvi quel breve tempo necessario a dare i soli esami di laurea.

Ma non finisce qui la dolorosa storia. L’istesso giorno del loro arrivo nella Capitale gli studenti [p. 7 modifica]erano obbligati dalla Polizia a fornirsi della così detta carta di soggiorno, la quale si doveva rinnovare ogni mese, dopo esibita la fede del parroco, che attestava di aver essi assistito ogni domenica alla messa ed alla predica, cantato l’Ufficio, e fatta la confessione: senza di che venivano immediatamente espulsi o cacciati in prigione.

E pure molti giovani, non provvisti di licenza professionale, sapevano eludere tante vigilanze, ed in mezzo a difficoltà e pericoli di ogni sorta, penetravano in Napoli a studiare segretamente. Ma scoperti, guai a loro!

Fra gli studii privati e segreti Memor non rammenta quello di Sabino Belli, che nei tempi oscuri che correvano, insegnava ad un numero eletto di giovani la Filosofia del dritto di Harens, il Dritto costituzionale di Sismondi ec., e dava spesso a leggere ai suoi discepoli molti libri proibiti.

Ho detto innanzi, che gli studenti se venivano riconosciuti guai a loro! Un ispettore di Polizia, ne arrestò uno, e nel farne rapporto al suo Superiore, scrisse le seguenti testuali parole: l’ho arrestato perchè egli asseriva di stare per affari, mentre io ho scoperto ch’era venuto in Napoli con la prava intenzione di studiare.

Giuseppe Laudisi, ora Provveditore agli studii nella provincia di Bari, fu scacciato dal Commissario Morbilli, sotto la qualifica di studente. Andò a Bitonto sua patria, e da quei negozianti si provvide di lettere, che lo accreditavano come [p. 8 modifica]sensale per compra e vendita di olii in Napoli, ove ben presto tornò. Morbilli lo riconobbe, e fattolo venire a sè, gli gridò: Ti ho mandato via la prima volta, ora ti farò scortare dai gendarmi. Il Laudisi prontamente rispose, di non essere tornato a Napoli per studiare, bensì per affari, e gli presentò le lettere credenziali. Morbilli, dopo averle lette, tutto allegro, fregandosi le mani, gli disse: bravo! Ti sei ravveduto finalmente!

I Capi della Polizia, che successivamente si segnalarono, e che han lasciato di loro tristi ricordi, furono: Peccheneda, Governa, Aiossa. Tra i dodici Commissarii quattro erano i campioni più formidabili: Campagna, de Spagnoli, Gerace, e Morbilli. Uno di essi per farsi venire l’appetito ogni mattina prima di pranzo andava a tormentare i detenuti politici. I due primi, quando Francesco II riconcesse la Costituzione, vennero ricercati dal popolo in massa, che voleva ridurli a brani; ma riuscirono in tempo a mettersi in salvo. Gerace, molto tempo prima della detta Costituzione, andò un giorno ad orinare nel cortile di un palazzo, dove la guardaporta lo redargui, ed egli imbestialito le tirò un tremendo calcio nella pancia. La donna. ch’era incinta abortì, e poco mancò non morisse. Il padrone di quel palazzo, che apparteneva alle Guardie del Corpo, corse dal Re a chiedere giustizia, e Gerace fu destituito. Morbilli era Commissario del quartiere S. Ferdinando quando di sera scoppiò una bomba, posta in una galitta, e proprio sotto [p. 9 modifica]i balconi di Casa Reale. Ferdinando II andò su tutte le furie, e Morbilli, caduto in disgrazia, fu allontanato da quel quartiere.


Passiamo ora ad altro argomento. Non basterebbe un volume per descrivere tutti gli artifizii messi in opera dalla Polizia per non far pervenire in Napoli notizie o giornali politici. Proibiva e sequestrava persino i periodici chericali che si pubblicavano in Piemonte, temendo che in essi si potesse pure razzolare qualche notizia. E infine con tante arti e malizie si credeva sicura di aver circondata la Città di muraglie chinesi, da impedire che vi penetrasse alcun raggio di luce. Ma tante precauzioni, tanti sforzi non approdarono a nulla, perchè i liberali dagli ambasciatori esteri, ai quali non si potevano negare le corrispondenze, attingevano notizie, e si procuravano giornali a dovizia, massime dal Segretario dell’ambasciata inglese, Giorgio Fagan, da cui andava a prenderli Luigi Pisciotta; e poi si diffondevano ovunque, anche fra il ceto dei negozianti; e questa missione era affidata a Giuseppe Gravina, che in seguito fu Ispettore alla Borsa.

Ma che dico giornali! Qualcuno superstite di quella antica Polizia, e che forse pur egli avrà messo la sua pietra alla costruzione di dette muraglie, si meraviglierà di certo nell’udire quanto ora vado a narrare; cioè che gli stessi dispacci spediti a Ferdinando II erano copiati e trasmessi il medesimo giorno nelle mani dei liberali. [p. 10 modifica]

L’ultimo telegramma mandato a quel Re, allora moribondo, e che annunziava aver l’Austria dichiarata guerra al Piemonte e l’accorrere dei soldati francesi a marce forzate, avendo a capo l’istesso Napoleone III, fu letto di sera al lume di un fiammifero nell’Ufficio del Diorama, presenti più di cinquanta individui. Non appena letto successe un vero baccano, e fra tutti Teodoro Cottrau gridava come un indemoniato. Intanto da quel luogo la nuova corse subito come un baleno in tutti i circoli segreti, ove si acclamò con grida di entusiasmo al grande avvenimento.

A titolo di curiosità riferisco, che si tenne consiglio in Corte se leggere o no quel dispaccio al Re, ch’era in fin di vita. Prevalse il parere affermativo, massime per l’espressa volontà di suo figlio Francesco.