Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XL

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Seconda parte
Novella XL

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Seconda parte - Novella XXXIX Seconda parte - Novella XLI

Una vertuosa giovane, veggendosi abbandonata dal suo amante,


s’avvelena, secondo il parer suo, bevendo un’acqua non velenosa.


Dapoi che per vertú di quei begli occhi che furono il mio vero e nodritivo sole in terra cominciai a sentir le fiamme amorose e con evidentissimo effetto provar le lor divine forze, ho tenuto sempre per fermo che non sia cosa al mondo, quantunque perigliosa, grave e difficile che si truovi, che ad un gentile, elevato e nobile spirito, e dal purgativo caldo de l’amore arso e cimentato, non paia a metter in essecuzione, sicura, leggera e molto facile. Ed io per me tutto il resto ho riputato niente, salvo che compiacer in ogni cosa a la persona che veramente s’ama, e tanto piú quanto che si conosce l’amore esser in parte ricambiato, ancora che bisognasse de la propria vita, non che dei beni de la fortuna, esser cortese e largo anzi prodigo donatore. Onde se a le volte si vede uomo o donna per soverchio amore, o vero per vedersi privar de la persona che piú ama, correre ingordamente a’ precipizii, a l’acque, a fuoco, a ferro, a fune ed al veleno, e di se stesso divenir micidiale, io giudico che il caso sia piú degno di pietá e compassione che di biasimo o di castigo, e che debbia ciascuno da questi disperati accidenti prender essempio di governarsi saggiamente, e di non allargar tanto a’ nostri poco regolati appetiti il freno, che poi, occorrendo il bisogno, noi non lo possiamo a noi ritogliere e col compasso de la maestra ragione governarci. Ora quelli che a piena bocca predicano che fanno d’amore come loro aggrada e ponno amare e disamare a lor voglia, penso io, ed il mio pensiero se si disputasse non è senza fondamento di ragione, che amato non abbiano né mai sentito per prova che cosa sia aprir il petto a le fiamme amorose, perciò che se chiunque ama col tempo si potrá sciogliere da’ lacci d’amore, ove conosca la sua servitú non esser gradita, essendo il tempo d’ogni creata cosa consumatore, mi persuado che molto pochi saranno cosí aventurosi che, perfettamente amando, possano in un repente, ancor che si veggiano da le donne loro sprezzati e scherniti, smorzar le fiamme amorose ed in breve tempo di servi d’amore diventar liberi. E chi è de le sue passioni e degli affetti cosí signore che ad ogni sua voglia possa disporre com’ei vuole, questo tale veramente io non dirò che sia puro uomo terreno, ma affermerò che assai piú tenga del celeste e divino che del terrestre ed umano. Ora ben che per molti essempi io potessi provar questa mia openione esser in molti e da molti messa ad effetto, nondimeno voglio venir a la narrazione d’un caso avvenuto nuovamente in una cittá di Lombardia, il quale meritarebbe esser divolgato da piú onorata e dotta bocca che la mia pena bastevole a dir quanto ch’è seguíto, non che d’ornare con leggiadro stile quelle parti di questo nobilissimo accidente, che meritevolmente da la faconda e dolcissima eloquenzia del divino Boccaccio deveriano esser celebrate e commendate. Qui si vederá che una vertuosa giovane ha piú tosto per elezione voluto perder la vita che l’amore del suo signore, e si toccherá con mano che con lieto e meglior viso e con piú saldo ed allegro core ella ha bevuto il mortifero veleno, che non averebbe il peregrino da longo e faticoso viaggio stracco e da l’arsura del sole nel mezzo giorno secco, quando arrivava sotto alcun’ombra, le dolci e limpide acque d’una fresca e chiara fontana, che fuor del vivo sasso sorge e con grato mormorio per le verdi erbette se ne va fuggendo. E questo ha ella fatto perché fuor di misura amava e piú stima faceva del suo amante che de la vita propria. Qui anco vederete quanto possa l’ignorante malignitá ed il poco cervello d’una rea femina, la quale, non pensando ad altro che a l’utile ed a sodisfar a’ suoi poco onesti pensieri, né d’onore né di vergogna né di danno che seguir le ne potesse mostrò curarsi. Ma perché mai il biasimar le donne non mi piacque, e per riverenza di quella che mentre visse fu mia tramontana stella, tutte le donne voglio aver in onore, e deve ciascuno onorarle; e per non tenervi piú a bada, venendo al fatto, cosí a novellare cominciar mi piace. Vi dico adunque che in una cittá di Lombardia fu, ed ancora è, un gentiluomo il quale alcuni di voi conoscono, che dei beni de la natura e de la fortuna è onestamente dotato, e ne l’amore assai felice, essendo naturalmente molto inclinato a darsi in preda a le donne, il cui nome è Camillo. Questi, presa familiar domestichezza d’una giovane assai appariscente e vertuosa, la quale di sonar arpicordi era molto eccellente, non guari con lei ebbe praticato che quella domestica conversazione si convertí ne la specie di quel buon amore che voleva Calandrino che il suo sozio Bruno dicesse a la Nicolosa. Dilettavasi altresí Camillo molto de la musica, di maniera ch’essendo ogni dí in casa de la giovane, che Cinzia si chiamava, egli di lei e di lui ella non mezzanamente s’accesero. Ne la casa di Cinzia sempre v’erano di molti gentiluomini, e spezialmente i vertuosi de la cittá, perché quivi si sonava, si cantava e sempre v’era alcun piacevol ragionamento. Ora facendo Cinzia e Camillo insieme, come si costuma dire, a l’amore, non vi fu molta difficultá a dar compimento ai lor amori e godersi amorosamente, perché trovandosi la giovane senza téma di marito, che per alcuni misfatti era bandito de la cittá, lasciato ogn’altro amore, tutta in poter di Camillo si diede; del che il padre e la madre di lei furono consapevoli. Onde astretti da la povertá e da Camillo traendo gran profitto, che quasi d’ogni cosa provedeva largamente ai bisogni de la casa, lasciavano liberamente che egli, ogni volta che gli piaceva, e di giorno e di notte, stesse con la figliuola loro. Ella, come giá dissi, d’altri piú non si curando, Camillo ferventissimamente amava e tutta dal voler di quello dipendeva. Onde non dopo molto ella ingravidò d’una bella figliuola, come dopoi il parto al tempo suo fece manifesto. Amava Camillo la sua vertuosa Cinzia molto fervidamente, e nulla le lasciava mancare; il perché, a ciò che quella non avesse il fastidio di dar le poppe a la figliuola, e che con maggior commoditá potesse attender a’ suoi piaceri, e sonar e cantare quante volte l’era a grado, egli le provide d’una balia molto giovane, la quale era baldanzosa piú che non se le conveniva, e non troppo schifevole d’ingravidare e far figliuoli senza marito, né mai sapeva stare che uno o dui lavoratori non avesse, con i quali il suo orticello teneva inacquato. E perché era di buon aspetto, avveniva anco che talora alcuno gentiluomo si mischiava seco. Venivano per il continovo molti a sentir sonar Cinzia, e spesso Camillo assai ve ne conduceva, e massimamente se alcun gentiluomo o signore ne la cittá veniva, di modo che di rado la casa si trovava senza gente; onde la buona balia si cominciò a domesticare ora con uno ed ora con un altro dei servidori di quei gentiluomini che in casa praticavano, provando talora qual piú di loro pesasse e fosse piú valente. Del che agramente Cinzia la garrí, non per altro se non per dubbio che ella guastasse il latte a la figliuola. La balia, per non perder la pastura che aveva, andava pure imaginandosi che modo deveva tenere a fine che si facesse Cinzia domestica, tanto che di lei a voglia sua potesse disporre. Ella era pure alquanto maliziosetta, e pensò con questo mezzo ottener l’intento suo; onde tentò alcuni giovini, e si sforzò a persuadergli e indurgli e ricercar Cinzia d’amore, mostrando loro che l’impresa sarebbe assai facile e che ella gli aiuteria in tutto quello che per lei si potesse, a ciò che, quando Cinzia compiacesse ad altri che a Camillo, ella sempre le tenesse le mani nei capegli e l’avesse di continovo pieghevole a le voglie sue, e non temesse poi da lei esser garrita né ripresa, se voleva darsi piacer amoroso con chi piú le fosse stato a grado. Ed avendo molti giovini tentati, la cosa non le venne fatta, perciò che nessuno fu oso di porsi al rischio di questa impresa, sí per riverenza di Camillo, come per téma che egli non facesse dar loro de le busse a buona derrata. Veggendo la balia questa via non le riuscire, e non essendo dal suo proponimento punto smossa, pensò provarne un’altra, come a mano a mano io vi narrerò, se pazientemente m’ascoltarete. Aveva Camillo un suo piú che fratello chiamato Giulio, giovine in quella cittá di famiglia nobilissima e d’animo sovra modo elevato e grande, col quale egli communicava ogni segreto, e di tal maniera era tra lor dui cresciuta la fratellevol domestichezza, e cosí stretto il nodo de l’amicizia loro, che nel vero dir si poteva esser una sola anima che dui corpi informasse. Stavano eglino la piú parte del tempo insieme, e l’uno senza l’altro pareva che viver non sapesse. Si dilettava de la musica Giulio meravigliosamente, e la sua parte molto sicuro «a libro» cantava, e sonava altresí d’alcuni stormenti. Per queste cagioni era divenuto tanto domestico di Cinzia che, o vi fosse Camillo o non, se ne stava esso Giulio di giorno e di notte senza rispetto veruno a ragionar con lei, e per rispetto del suo amico Camillo l’amava come propria sorella. La balia veggendo questa amorevol domestichezza, deliberò tra se stessa far ogni cosa a fine che Giulio amorosamente prendesse piacer con Cinzia. Fatta cotesta deliberazione, trovò su l’ora del merigge che Giulio stava ad una finestra vagheggiando per piacere e da scherzo una fanciulla che dirimpetto a l’albergo di Cinzia dimorava, ed a lui avvicinatasi, cosí, ridendo gli disse: – Deh, Giulio, io non so che dirmi de’ casi tuoi. Tu stai qui a beccarti i getti con questa fanciulla, che tanto è garzona che mai non ne verrai a capo, e tanto meno quanto suo fratello n’ha estrema cura e con guardia solennissima la tiene, ed una sua zia mai non l’abbandonava di vista, come chiaramente veder tu poi. Quanto sarebbe meglio che tu, lasciata costei, ti rivolgessi altrove ed amassi chi t’ama e sommamente desidera compiacerti, ogni volta che s’avveggia che tu voglia amare sí come ella ama te. – E chi è costei, – rispose Giulio, – di cui tu mi parli? chi è ella? – Ella, – soggiunse la balia, – è Cinzia mia padrona, che assai piú t’ama che se stessa, ed io te ne posso render verissimo testimonio, perché ella piú volte s’è scoperta meco. Ma ella non ardisce dirloti per téma che tu a Camillo talora non ne facessi motto. – Giulio che in altra parte aveva fermati i suoi pensieri, e che talora per passare il tempo mostrava esser invaghito di quella garzona, e prima averebbe sofferto di morire che far sí fatto torto al suo Camillo, disse a la balia: – Io non penso che Cinzia abbia in capo simili pensieri di me, sapendo ch’io l’amo da sorella, e la riverenza ch’io porto a Camillo non comporterebbe che da me simil impresa si sentisse. Ella può ben esser sicura ch’io farei ogni cosa possibile per amor di lei, pure che non v’intravenisse l’offesa di Camillo. – Volendo poi chiarirsi de l’animo di Cinzia e del tutto avvertirne Camillo, disse: – Vedi, balia, io non penso a coteste favole per infiniti rispetti; ma se pur Cinzia vorrá niente da me, ella lo mi dirá, potendo a suo piacer, ogni volta che vuole, comodamente parlar meco senza interprete. – La falsa balia, che il tutto aveva ordito di sua fantasia senza saputa di Cinzia, non volle per questo primo tratto entrar piú avanti, avendo trovato il terreno troppo duro; ma, pigliata poi l’oportunitá, una sera che essa Cinzia si spogliava per corcarsi, e che Camillo quella notte non ci deveva essere, dopo alcune favole, l’entrò su ragionamenti amorosi, e d’uno in altro parlar travarcando le disse: – Io so, padrona mia, per certo che Giulio v’ama piú che l’anima propria, e grandemente brama che voi li comandiate, perché sempre lo trovarete prestissimo a servirvi. – Bene, – disse Cinzia. – Io so molto bene ch’egli di core m’ama per rispetto di Camillo, ed io altresí amo lui come se mi fosse fratello. – Non dico, – rispose la balia, – a questa guisa, ma dico ch’egli v’ama di quell’amore che generalmente gli uomini portano a le donne per giacersi con loro. Cosí Giulio ama voi per goder questa vostra persona, e giá me n’ha detto alquante parole, e di piú pregatami che io volessi esser mezzana ad indurvi a compiacergli, ogni volta che la comoditá ci sia, la quale sempre ci sará che voi vorrete. – Questo non credo io, – rispose Cinzia, – perché non istimo Giulio cosí sleale e di poco cervello che volesse far questa ingiuria tanto enorme a Camillo. – Io non so tante istorie, – disse la disonesta balia, – ma so bene che egli è innamorato di voi, e che volentieri si giacerebbe amorosamente con voi per potervi a piacer suo tenervi in braccio e godervi. E voi sète una pazza se non lo fate. E che diavolo pensate voi di fare? Egli è giovine e di core v’ama, e sempre vi resterá servidore: perché dunque non devete compiacergli? Sète voi sí melensa e sciocca che pensate che Camillo resti contento di voi sola e dei vostri baci ed abbracciamenti amorosi? A la fé di Dio che voi sète errata se questa cosa credete. Io so ben io la vita che tiene e ciò che si fa. Egli ogni dí va procacciando nuove pratiche e non è mai contento d’una o due. E quando non ha dove a suo modo andare e che le date poste gli mancano, se ne viene qui ad asso fermo. Ma sète voi sí ceca che non ve ne avveggiate? In fé di Dio che gli orbi se n’avvederebbero! Se egli adunque la fede non vi serba, perché volete voi serbarla a lui? Sovvengavi che ai dí passati egli non vi seppe negare che con una certa donna la notte non fusse giaciuto. A chi me la fa una volta, se posso, gliela rifaccio a doppio, e se non posso, me la tengo a mente, e venuta l’oportunitá mi vendico. Io vi ricordo che tutte le lasciate son perdute. Datevi buon tempo fin che sète giovine e non aspettate la vecchiezza, che sapete bene ciò che si costuma dire proverbialmente, che è tale: «A le donne giovani i buoni bocconi, e a le vecchie gli strangoglioni». Voi avete altre volte a molti de la persona vostra compiaciuto che non sono da esser a Giulio agguagliati, ed ora volete far santa Cita e mostrarvi schifevole dei piaceri che devereste con ogni diligenza cercare? A me pare aver detto a bastanza ed avervi ricordato il vostro profitto: fate mò voi quello che vi pare. Se voi de l’opera mia averete bisogno, e in questo e in altro sempre mi trovarete prontissima ai vostri servigi. – Udendo Cinzia la balia di questa maniera ragionare, la giudicò che devesse esser una sofficiente ruffiana sua pari e che piú d’un paio di donne avesse contaminato. E stando fra due, se deveva credere ciò che detto le era per parte di Giulio o non, in questa guisa a la balia disse: – Sia qui fine ai tuoi parlari, e di coteste favole non me ne far piú motto. Se Giulio è tale qual detto m’hai e che io non credo, egli, ragionando meco tutte l’ore, mi saperá ben dir il caso suo. – E volendo la balia dir non so che, Cinzia: – Or via, – disse, – taci e fa che piú non ti senta. – Parve a la balia che Cinzia fosse piú ritrosetta di quello che ella pensava; nondimeno per questo non stette che a Giulio e a Cinzia non desse dui o tre assalti, ma sempre con agre rampogne fu ributtata. Aveva deliberato Giulio del tutto avvertir Camillo, e quasi fu vicino a dirgli il fatto come stava. Ma si rimase, non essendo ben chiaro che quanto la balia detto aveva fosse di mente di Cinzia, ed a Cinzia non ardiva farlene motto per non farle pensar quello che non era e metterle un grillo in testa. Da l’altro canto Cinzia medesimamente stava in dubio di ciò che far si devesse, d’avvertirne Camillo o non, e non si sapeva risolvere, sempre temendo, o questo o quello che si facesse, di fallire. Ma la malvagia balia, veggendo che dava incenso a’ morti, dubitò che la sua trama fosse scoperta e conosciuti gli inganni suoi. Per questo, deliberata di pigliar l’avantaggio e mostrarsi ben zelante e tenera de l’onore di Camillo, a ciò che a lui almeno restasse in grazia, fece per uno dei servidori di lui intendergli che ella era ricercata da certi giovini a lasciar la notte l’uscio de la casa aperto, con promessa d’aver buona somma di danari, ma che ella mai non farebbe simil cosa; e perciò che lo faceva avvertito, a fine che talora Cinzia non fosse corrotta da alcuno, praticando ognora molta gente seco, e di nascoso di lui introducesse chi piú le fosse a grado. Camillo, intendendo cotesta favola e credendola, per saper che molte donne risparmiano alcuna volta quello di casa assai volentieri e cercano logorar l’altrui, parendo sempre le cose dei vicini piú saporose che le proprie, fece dir a la balia ch’ella s’accordasse con alcuno e ve lo facesse venire, e poi a lui lasciasse la cura del rimanente. Ma la falsa meretrice, allegando nuove cagioni, mai non ne fece venir nessuno, imperò che, come poi si seppe, la cosa stava tutta al contrario di quello che aveva fatto dipingere a Camillo. Aveva ella tentatone alcuni e promesso loro di lasciar la porta aperta, essortandogli a venir dentro la notte, e che Cinzia non sarebbe stata ritrosa. E questo faceva ella per dir poi che con ordine di Cinzia erano venuti, ed anco perché voleva far venir alcun suo lavoratore de l’orto, dei quali n’aveva una mandria, ma non vi fu chi ardisse avventurarsi, per téma di Camillo che ivi vicino abitava. Il perché veggendo che questa trama non succedeva, fece dir a Camillo che bisognava che parlasse con lui di cosa di credenza e di non picciola importanza. Venuto Camillo, fece vista di voler veder la balia con la figliuola, ed essendo Cinzia in compagnia di molta gente, egli a trovar la balia a la sua camera se n’andò; onde trovandosi con lei, ella in questa guisa gli parlò: – Signor mio, avendomi voi data vostra figliuola in governo, io mi fo a credere esser debitrice di manifestarvi tutte quelle cose ch’io veggio dannose a l’onor vostro. Iersera, non essendo voi qui in casa, Giulio sul tardi ci venne e vi stette fin passate le tre ore de la notte. E perché egli ha in usanza starvi de l’altre volte, ancora che voi non ci siate, e ben che sia del mese di giugno, che per la brevitá de la notte la stagion richiede che l’uomo a buon’ora se ne vada a dormire, io nondimeno, veggendo esservi sí caro vostro compagno, e che voi piú d’una volta, se v’occorreva quindi partire, il pregavate ch’egli rimanesse con Cinzia, non ci metteva mente. Ma parendomi iersera aver veduto non so che, che non mi piaceva, e udite certe parole che egli a Cinzia disse, che non erano, a dir il vero, né belle né buone, mi cadde ne l’animo quello che poi ho trovato col effetto esser cosí, cioè che Cinzia, quando n’ha l’agio, si prenda con Giulio amoroso giacere e del corpo gli compiaccia. Io vi so dire, padrone, che ancora mi veggiate giovine, ch’io so come la va, e non posso cosí di leggero esser ingannata. Basta che volendomi io chiarire del vero, e, come si dice, trovar la gallina su l’ovo, finsi andarmene a letto; e stata alquanto, me ne venni poi fuori chetamente e me n’andai cosí tentone, a piedi scalzi, a l’uscio de la camera ove Cinzia dorme, e trovai bene che era chiuso, ma non giá fermato col chiavistello: onde tanto destramente un poco lo spinsi che non fui sentita, e chiaro m’avvidi, ancora che avessero il lume, che la notte in camera arde, posto di dietro a le cortine, ch’eglino erano sovra il letto trastullandosi amorosamente insieme. Del che il romor del letto e le mózze parole con gli interrotti sospiri indizio manifestissimo ne davano. Io vi dimorai buona pezza e sentii pur alcune parolette amorose che in quei piaceri usavano, e i replicati baci si facevano pur udire, con molte altre cosette che, come sapete, si costumano in simili casi di fare. Ora parendomi in effetto esser chiara in quello che facevano, me ne ritornai con silenzio a la mia camera. Fingendo poi che la lucerna, che per bisogni de la figliuola tengo di continovo la notte allumata, si fosse spenta, uscii di camera facendo strepito con i piedi e me n’andai a la camera di Cinzia, ove trovai che l’uscio era stato aperto e il lume rimesso al suo luogo, ed eglino erano sovra il letto postisi a sedere, che, disseguale e disconcio, dava segno di ciò che su v’era fatto. E, riacceso il mio lume, me ne tornai in camera. Sallo Dio quanto poco questa notte ho dormito, e quanto mi duole e mi rincresce d’avervi a dar simili nove, perché io amava e riveriva Giulio per vostro conto. Ma io vi son troppo tenuta e non debbo mancare d’avvisarvi quello che a l’onor vostro appartiene. Bene vi prego a tenermi celata, per i molti rispetti che potete imaginarvi, a ciò che Giulio non facesse farmi dispiacere. – Né contenta la scelerata balia di questo tradimento, per meglio incarnar il suo falso dissegno, narrò a molti questa favola, a ciò che per altra bocca a l’orecchie di Camillo fosse rapportata; e successele troppo bene, imperò che la madre, fratelli ed altri propinqui di Camillo lo garrirono troppo agramente di questa cosa, e volevano astringerlo a distorsi da la pratica di Cinzia, dicendogli che non solamente ella si mischiava con Giulio, ma gli affermarono anco ch’ad altri faceva di sé copia, e che il fatto era di tal maniera certo che non bisognava altra certezza. Nasceva questa credenza perché la balia aveva bucinato non so che d’alcuni altri giovini, che dicevano aver goduto molte fiate Cinzia. Parve a Camillo, sentendo queste trame sí bene ordite e credendole esser vere, che la terra gli mancasse sotto i piedi, e di sí fatta maniera stordí che non sapeva che farsi. Amava egli sommamente Cinzia, sí perché credeva da lei esser amato e si vedeva amorosamente accarezzato, ed altresí per le vertuti e buone parti che in quella erano, che molto amabile la rendevano. Ora sentir egli che ella altrui si fosse data in preda, troppo altamente l’affliggeva, e pareva che si sentisse schiantare per viva forza le radici del core. Ma quello che vie piú d’ogni altra cosa lo trafiggeva e miseramente tormentava, era che cosí caro amico, come ei teneva Giulio, gli avesse fatto cotanto oltraggio e sí enorme torto; e di tal guisa questa doglia al core se gli impresse, che fu per gravissimamente infermarsi. Egli ne perdette il sonno ed il cibo, ed altro non faceva che pensare, chimerizzare e farneticare, ora una cosa deliberando ed ora un’altra. Come gli sovveniva de l’intrinseco amore e cordial amicizia che era tra lui e Giulio, parevagli impossibile che esso Giulio mai gli avesse fatto cosí grande ingiuria e vergogna; ed ancora che veduto l’avesse, non lo voleva credere. Da l’altra parte poi, ricordandosi de le parole de la balia, e veracissime riputandole, era astretto a credere che, se pure effetto veruno d’amore era seguíto tra Giulio e Cinzia, che ella ne fosse cagione ed avessevi tirato Giulio per forza. E tuttavia con questo, troppo duro gli era a sofferire che da un sí caro amico si trovasse di cotal guisa offeso. Sogliono ordinariamente tutte l’ingiurie a chi le riceve esser noiose e gravi a sopportare; nondimeno gran differenza mi pare che sia da la offesa che ti fa il tuo nemico, a par di quella che da l’amico si riceve. Fa l’inimico il suo ufficio quando il suo avversario offende; ma che colui che tu amico tuo credevi ti si volga incontra e sotto la fede de l’amicizia ti faccia nocumento, perciò che cotestui manca del debito, troppo altamente cotal impresa il suo velenoso dardo nel cor imprime e si rende a sopportar difficile. Nondimeno la prudenza de l’uomo, se vuole, a tali accidenti sa provedere e fa che la ragione domina. Ora parendo troppo duro a Camillo che l’amico suo di questo modo concio l’avesse, poi che v’ebbe pensato e ripensato, essendo giá alquanti anni che egli aveva la pratica di Cinzia, essendone ogni dí con agre riprensioni da’ suoi ripigliato, ed il vescovo de la cittá, uomo di santa vita, avendolo piú volte fatto pregare che omai finisse simil pratica, che oltra la offesa di Dio gli era di danno e disonore, gli parve che questa occasione fosse convenevol mezzo a mettersi in libertá, e si deliberò piú tosto perder la conversazione di Cinzia che l’amicizia di Giulio. Onde a Cinzia scrisse una lettera di questo tenore: – «Cinzia, non pensare con la tua ingorda ed insaziabil libidine poter mai esser da tanto ch’io debbia abbandonar un gentiluomo, mio amico e piú che fratello, tirato a forza da le tue false lusinghe e puttaneschi modi e da la sfrenata tua rabbia a giacersi teco. Io voglio ch’ei sia piú mio che mai, e l’amerò e riverirò come strumento divino de la mia ricuperata libertá, conoscendo ora l’indegnitá de la mia servitú. E qual io mi sia, non pensar piú a’ casi miei, né far piú sopra di me per l’avenire alcun fondamento. Ora sei in tua libertá, e puoi di notte e di dí far venir a giacersi teco chiunque tu vuoi. Ed ancor ch’io potessi con giusta ragione grandemente dolermi e rammaricarmi di te, nol vo’ fare. Bastimi che a te mi toglio ed eternamente ti lascio, con pensata deliberazione mossa da certi e convenevoli rispetti». – Finita questa lettera, per un servidore a Cinzia la mandò. Ella, avuta che l’ebbe e con infinito dolore letta, di tal maniera per buono spazio restò stordita, che piú tosto a statua di marmo che a donna viva rassembrava; poi ricordandosi de le parole de la balia, subito s’imaginò che quanto Camillo le scriveva tutto era per opera di quella, e che d’altri non intendeva se non di Giulio. E quello mandato a dimandare, tutta piena di lagrime e di sospiri l’attendeva che venisse. Andò a lei Giulio e, trovatola cosí di mala voglia, le domandò la cagione de la presente sua mala contentezza. Ella alora gli mostrò quanto Camillo scritto le aveva: Giulio da non pensata e grave ferita offeso, poi che buona pezza stette sovra di sé, celando piú che poteva l’interna ed infinita pena che di questa calunnia sentiva, dopo alcuni ragionamenti, avendosi l’un l’altro detto ciò che la balia dinanzi separatamente aveva ragionato con loro, concorsero in questa openione, che ella fosse stata l’inventrice del tutto, e con sue favole avesse fatto credere a Camillo ciò che non era. Poi, con buone parole consolatala a la meglio che puoté, ed affermandole che la veritá a la fine sarebbe conosciuta, da lei si partí ed andò a trovar un suo amico, che anco era molto domestico e familiare di Camillo, e si chiamava Delio. E quello trovato che alcune lettere scriveva, dopo l’usitate salutazioni gli disse: – Io so, Delio mio, che tu ti meravigli de la mia venuta cosí a buon’ora, non essendo ancora il sole a pena spuntato fuori d’oriente. Ma molto piú ti meraviglierai quando ti dirò la cagione del mio venire. Tu sai l’amicizia che è tra Camillo e me, né bisogna che io te ne informi, perciò che tu chiaramente hai in molte cose veduto che io da lui a’ miei fratelli carnali non faccio differenza, perché certamente io l’amo come la vita mia propria. So anco che conosci quanto a mal mio grado, essendo io nodrito in corte di Roma, e avendo fatto lunga dimora a le corti de la Francia e de la Spagna, e praticato in molti luoghi di quei regni, io me ne stia in questa mia patria, ov’è un viver molto alieno da la mia natura e da la maniera del conversar dei luoghi ov’io son creato e lungo tempo vivuto. Per questo mi vedi di rado aver pratica con questi cittadini, perché niente tengono del cortegiano; ed il viver loro è molto difforme da la conversazione che io desiderarei veder ne la patria mia. Onde la vita mia faceva con Camillo ed uno o dui altri, i quali sono stati ancora eglino fuori, ed hanno appreso mille belle maniere di vivere e di costumi gentili e di festeggiar gli stranieri ed onorargli. Hanno poi questi cittadini universalmente questa boria in capo, che vogliono essere tenuti i primi de la cittá, i quali se caminano per la strada, gli vedi andare gonfii e pettoruti, rimirando quinci e quindi chi fa loro di berretta, chi se gli inchina, chi gli saluta, chi gli cede il luogo piú onorato e chi da loro in tutto e per tutto dipende, come se essi fossero ben gran conti e cavalieri e signori de la cittá. Io porto ferma openione che non sia gente in Italia che piú s’appaghi di titoli onorevoli, come di marchese, di conte e di cavaliero, come fanno costoro, i quali godeno meravigliosamente esser con simil nomi domandati, se ben le facultá non sono di maniera che si possa viver cavallerescamente. Ora, io sono un di quelli a cui queste fumose grandezze e titoli vani sono piú a noia che il morbo, e piú m’apprezzo de l’oneste facultá che a’ miei fratelli ed a me gli avi nostri per antica ereditá ci hanno lasciate, che d’esser chiamato né cavaliero né conte. Ché a dir il vero, io vorrei de l’arrosto e non del fumo, perché l’arrosto nodrisse e il fumo ci soffoca e fa morire. Ma perché molte fiate di questo abbia insieme ragionato e con vere ragioni biasimato il modo del viver di questa terra, e desiderato, ben che indarno, che ci fossero quelle oneste e lodevoli domestichezze che sono molte altre cittá di Lombardia, di questo non dirò altro se non che, essendo scioperato, e non sapendo alcuna volta ove ridurmi, andava assai sovente a la stanza de la Cinzia, ove sonando, cantando, scherzando e favoleggiando me ne passava il tempo. V’andava anco e piú degli altri vi faceva dimora, per quel rispetto del quale a Camillo e a te so che n’ho piú di due e tre volte ragionato. Ora io non so ciò che sia o che dir mi debbia. Questa matina a buonissima ora Cinzia ha mandato per me, la quale ho ritrovata che in pianti e gemiti miseramente e senza voler ricever alcuna sorte di consolazione si consumava. Ella, come fui arrivato, mi diede questa lettera che Camillo le ha scritto. Vedila e leggila. – E cosí Giulio essa lettera a Delio porse, che la prese e subito lesse. Come Delio l’ebbe letta, cosí Giulio il suo parlar ripigliò e disse: – A Camillo, come tu puoi considerare, è uno strano grillo entrato ne la testa, né so con qual fondamento, che io sia fuor d’ogni convenevolezza e debito divenuto possessor di Cinzia, la quale sallo Dio che io sempre ho amata come propria e cara sorella. E prego di core Iddio che di me faccia ogni strazio, se mai io ebbi pensiero di venir ad atto nessuno meno che onesto con lei. Ora per il tenor de la lettera sua che letta hai, io mi fo a credere che d’altro che di me non può dire, perciò che altri che io non ci è che pratichi in quella casa, che sia di quel nodo d’amicizia unito seco, come sono sempre stato io. Vorrei mò che tu mi porgessi aita e mi consegliassi come debbia in questo caso governarmi, perché, essendo in effetto innocente, non vorrei per tutto l’oro del mondo che Camillo restasse con simil scropolo e mala openione di me, che prima desiderarei di morire che commetter una tal follia contra un mio cosí caro amico. Io non so giá qual maggior ingiuria di questa se gli possa fare. E per dir una parola che m’avanza, io, se pur devessi esser infamato, e che la mia innocenzia appo il publico non si potesse giustificare, penserei esser minor male aver almeno gustato quel poco piacere che restar con infamia senza cagione. Tuttavia per parlar sul saldo, quando uno non ha errato e sente che altri a torto il biasima, poco si cura dei suoi detrattori, quando si conosce esser senza colpa. Ma tornando al caso mio, io non sarò contento giá mai mentre penserò che Camillo abbia quest’ombra di me. Egli e tu sapete pure ove i miei pensieri sono collocati e se io lealmente amo, persuadendomi esser amato. E veramente fin che morte chiuda quest’occhi, io persevererò ne la mia fedel servitú, e con quella sinceritá la serberò che desidero esser a me mantenuta, pensando ch’io deverei chiamarmi il piú disonorato gentiluomo del mondo, se per qualunque donna che si truovi, io, lasciata la mia padrona, con altra mi mettessi, ché nel vero confessarei meritar ogni accerbissimo castigo. Penserá adunque Camillo che io a lui dopoi facessi questo torto? Tolga Iddio da me che mai per nessun tempo in simil errore trabocchi! Sí che, Delio mio, io son qui ne le tue mani per conseglio e per aita, non sapendo altrove che a te ricorrere, perché so che m’ami. – Delio, poi che ebbe attentamente udita questa nuova e fastidiosa istoria, pieno d’ammirazione stette alquanto sovra di sé, varie cose, ne l’animo suo ravvolgendo; onde essendo consapevole quanto Camillo amasse Giulio e come n’era ottimamente da Giulio ricambiato, non gli pareva a modo nessuno dover sofferire che una sí leale fratellanza si guastasse. E conoscendo per lunga esperienza, (perché era uomo assai attempato, e che molto del mondo in Italia e fuori aveva visto, e praticato in diverse corti con vari principi), quanta fosse difficultá a trovar un amico che veramente amico chiamar si potesse, troppo altamente gli doleva di questa rodente ruggine venuta nel core a Camillo contra di Giulio. Per questo egli deliberò, mentre la ruggine ancor non era troppo abbarbicata, usar ogni opera per sbarbarla e diradicarla in tutto. E perché aveva ferma credenza che Giulio del detto caso colpevole non fosse, tanto piú volentieri vi si voleva affaticare. Indi, dopo molte parole, venne in questa conchiusione: d’andar con Giulio a trovar Camillo, e a tutti i modi possibili levargli la impressa openione del capo. E cosí tutti dui dopo desinare v’andarono e trovarono Camillo che era in camera. Quivi entrati, videro ch’ei leggeva un certo libro. Salutato che l’ebbero e rese da lui le debite risalutazioni, volendo Delio cominciar a parlargli, egli, toltali la parola di bocca e a Giulio rivolto, in questa maniera gli disse: – Io ho piacer grandissimo, Giulio mio, che Delio nostro ora qui teco si ritruovi, imperò che, essendo amico com’è ad ambi noi, voglio per sodisfazion tua e mia ch’eternamente sia testimonio di quanto intendo dirti. E per non consumar il tempo indarno, ti dico ch’io son chiaro che Cinzia compiace di se stessa amorosamente a altri che a me, e so che tu con lei giaciuto piú volte ti sei. Di lei so ben io ciò che far ne debbio, e quanto in mente n’ho deliberato è giá a lei fatto intendere. E perché stimo molto piú un peluzzo de la tua barba che non faccio quante pari di Cinzia sono al mondo, ti dico ed affermo che per questo non sono io giá mai per averti men caro di quello che sempre t’ho avuto, anzi se da te non mancherá, voglio che l’amicizia nostra sia com’era prima. Onde occorrendo che tu voglia far isperienza di me, cosí ne la vita come ne la roba, tu troverai che non hai uomo, sia chi si voglia, del quale tu possa tanto disporre quanto sempre di me farai ad ogni tua voglia, e provandomi conoscerai che gli effetti saranno conformi a queste mie parole. E di ciò che detto io t’ho, siami il nostro signor Iddio testimonio in cielo e Delio qui in terra. Io non voglio che sia in potere d’una trista e falsa femina di romper l’amicizia nostra antica, da’ nostri primi anni cominciata e sempre fin qui indissolubilmente cresciuta. E cosí prego Iddio che tu del caso occorso tanto ti ricordi quanto farò io, che giá gettato me l’ho dietro le spalle ed hollo sepellito in eterno oblio. Lasciamo queste malvage e ree femine vivere da lor pari e col malanno che Dio le doni, e noi attendiamo insiememente a starsi in piacere ed allegrezza. Io era schiavo di questa trista, credendomi che fosse altra donna di quello che è; ma ella è pur di quelle ribalde che non attendeno se non a far tutto quello che loro vien ne la mente, o buono o tristo che si sia. Faccia ella, ché ora sará in libertá, e potrá di giorno e di notte starsi con chi piú l’aggradirá. – E qui tacendo Camillo, cosí a quello Giulio rispose: – Duolmi assai, piú di quello che tu ti pensi, Camillo mio, che tra noi nata sia sí malvagia occasione di scioglier il nodo de la nostra piú che fratellevol amicizia, perciò che io sono piú che certo che, restandoti impresso de la fantasia ch’io sia stato sí poco fedele e mi sia con Cinzia amorosamente mischiato, esser non potrá che sempre tu non mi tenga per disleale e poco conoscitore di quello che importi l’amicizia di dui compagni, tra i quali bene sta che ogni altra cosa sia commune, eccetto le donne. Io da me stesso faccio il giudicio, e dommi ad intendere che ciascuno sia di questo animo, imperò che non averei piacere che né tu né altri andasse trescando con quella persona che io amo ed amerò fin che io viva. Tu puoi ben dire che dietro le spalle t’hai gettato questo fatto, come detto hai; ma io ti ricordo che queste sono cose molto facili a dire, ma a metterle in essecuzione sono troppo piú difficili che l’uomo non pensa. Ed io per me crederei sempre che chi simile ingiuria riceve, come tu pensi che io fatta t’abbia, sempre l’ha innanzi agli occhi e non se la oblia giá mai. Voglio adunque che se ne venga a la prova che si può, perciò che io sono presto a chiarirti che io mai non pensai starmi altramente con Cinzia, se non come con una de le mie sorelle, non che io sia venuto a nessun atto meno che onesto. E vivi sicuro che s’io ti lasciassi con questo scropolo in mente, che mai non viverei contento, né mai piú mi potria entrar in testa né essermi persuaso che tu mi fossi quel leal amico che fin qui stato mi sei. Chi dubita esser impossibile che tu sempre mi tenessi uomo perfidissimo e di poco onore? Io non ti conosco di sí poco ingegno né di cosí mal animo che tu volessi amare chi, secondo il tuo credere, disonorato t’avesse, ed esser mostro dal volgo a dito come un caprone e persona che tenga poco conto de la riputazione ed onor suo. Camillo mio, io sono gentiluomo ed uomo d’onore, e prima morir vorrei che commetter una sí fatta sceleratezza contra te. Poi non sai tu se io amo colei che del mio core è donna, a cui io unicamente e con ogni riverenza servo ed onoro? E ben che lontano da lei ora mi trovi, nondimeno tu puoi pur esser chiaro se con altra donna ho voluto domesticarmi giá mai. Ed ora vorrai che io sia divenuto sí pazzo ch’io abbia commesso questa follia? Tolga Iddio da me che mai ci pensi! Sí che delibera farne la prova, per assicurarti che Giulio t’è vero e fedelissimo amico. Ma chi t’ha detto che io abbia fatto cotesto fallo? – A me lo disse, – rispose Camillo, – la balia. – Dunque quella lupa de la balia, – disse Giulio, – t’ha piantata questa carota? Ella è una trista ubriaca né sa quello che si dica. Se ella fosse uomo sí come è donna, io le cavarei gli occhi e vorrei col parangone de l’arme farla mentire di quanto ha detto, come una bugiarda che ella è. – Camillo, che pure teneva per fermo la faccenda essere come la traditora balia gli aveva divisato, ed ancora che sommamente l’atto gli fosse stato di grandissima noia, nondimeno egli non voleva perder l’amico, in questa guisa a Giulio disse: – Io te l’ho detto e di nuovo te lo ridico, che, sia come si voglia, io stimo piú te che non faccio quante Cinzie si trovino, e sono per esserti sempre quel fratello ed amico che stato ti sono, se da te non rimarrá. E, di grazia, non parliamo piú di questo fatto. A me basta slegarmi da costei, poi che ella cosí vuole. Ora per risponderti ad una parte che detta hai, ti dico, ancor che alcuno intendesse che tu con Cinzia mischiato ti fossi, quando vederanno che noi siamo amici e come di prima conversiamo insieme, non crederanno a le ciancie tra loro seminate. Che io poi tenga in core memoria di questa cosa, non lo credere, e levati questa fantasia di capo, perché io spero in Dio che non passerá un mese che io metterò Cinzia e tutto ciò che a lei appartiene in eterno oblio. – Delio, a cui a modo veruno non piaceva che il fatto rimanesse in questa confusione, preso per mano Camillo che si levava per uscir fuor di camera, in questo modo, facendolo sedere, gli disse: – Camillo, io sono sicuro che tu parli di core, e non dubito punto che tu non sia per esser con Giulio come discorso hai. Ma, per Dio, leva un poco dagli occhi tuoi questo folto velo di passione che alquanto la vista del giudizio t’annebbia ed offosca, e giudicherai se Giulio deve restar di questa maniera cosí confuso in questo inestricabile labirinto. Tu parli nel vero da gentiluomo e vuoi che egli ed io tocchiamo con mano che, ancora ch’ei ti avesse fatto questo oltraggio, con tutto questo tu lo vuoi per amico e fratello. Ma il fatto non sta bene. Ché, se tu brami mostrar la grandezza de l’animo tuo, mostrala in altro, e non volere con dimostrarti magnanimo e generoso far che Giulio sia tenuto disleale e villano e tu di poco giudizio, che per elezione ti pigli uno per amico che, avendo commesso ciò che si dice, non merita che tu punto l’apprezzi e meno che tu l’ami, né abbi caro. E chi sará poi che, sapendo che tu sia da lui ingiuriato, non dica che tu averai voluto strafare ed operar piú di quello che a gentiluomo si convenisse, che altresí Giulio non sia accennato con l’infame dito di mezzo per un tristo discortese, e da tutti schernito e vituperato? Ma dimmi, per Dio: com’esser potrá giá mai che tu non stimi che Giulio sia il piú villano e traditor gentiluomo del mondo, se questa fantasia ti resta in capo ch’ei sia divenuto di Cinzia possessore? Che tu dica ch’il tutto con perpetuo oblio porrai dopo le spalle, tu lo puoi ben dire, ma bisogna che tu trovi chi te lo creda. Tu sei uomo di carne e d’ossa come gli altri, ed hai sí bene le passioni com’io, le quali io ti ricordo che sí tosto domar non si ponno che non facciano il loro ufficio. Ora, perché questi primi movimenti de l’animo allegato al corpo non sono ordinariamente in poter nostro, e questa tua piaga ancora gitta sangue, e troppo fresca e profonda si vede, non voglio per adesso dirti altro, imperò che la tua ferita non riceveria medicamento alcuno che profittevole le fosse. Questo solo ti dico, che tu pensi chi è Giulio, e consideri la qualitá di chi male te n’ha detto, e che tu ti metta in suo luogo; e poi dimane, con piú agio e meno còlera, saremo insieme, e forse ti troverò piú capace a ricever compenso e rimedio che ora non sei. Io so bene che se tu ci pensi, oggi e questa notte che viene, suso, e metti lo sdegno da canto, che farai quel giudicio di cosí fatto caso che a la tua prudenza si conviene. – Finito questo ragionamento, Delio e Giulio si partirono, e andando per la cittá a diporto, e varie cose insieme di quanto s’era con Camillo detto ragionando, disse Giulio a la fine: – Io mi trovo, Delio mio, nel maggior travaglio del mondo, né mi sovviene che giá mai in me, per accidente avverso che avvenuto mi sia, fosse tanta confusione di mente quanta ora vi conosco essere, e sono assai piú irresoluto e dubbioso che prima, e tanti e sí diversi pensieri mi combattono che io non so che mi fare. Veggio Camillo aver ferma credenza che io gli abbia fatto questo torto, ed ancora che tenga detto che vuole essermi amico com’era, io non so, secondo che detto gli hai, quanto questo sia possibile. A me pare, ed il parer mio è su la ragione fondato, che sempre che gli sovverrá di questa cosa, e sovverragliene ogni ora, che mai non mi guarderá con dritto occhio, e pensando che io l’abbia assassinato, averá di continovo questo umore su lo stomaco, che mai riposar non lo permetterá, anzi, se prestamente non si purga, anderá di dí in dí facendosi maggiore. Vorrei adunque pregarti che tu prendessi questo carico di riparlargli e indurlo per ogni modo a volersi far chiaro del fatto com’è, e non voler prestar tanta fede ad una sfacciataccia puttana. – Promise Delio di far ogn’opera a lui possibile, ma che gli pareva buono di star ancora tre o quattro giorni, a fine che, cessate quelle prime passioni, ritrovasse Camillo piú atto che prima a lasciarsi persuadere il vero. Piacque a Giulio il parer di Delio, e dopo, finiti i lor parlari, andarono ciascuno a far quello che piú gli piacque. Il seguente giorno fu astretto da alcuni gentiluomini Camillo andar a trovar Cinzia, e seco ebbe assai lungo ragionamento circa di questa pratica. Ella che era innocente e a cui troppo altamente rincresceva, senza sua colpa, di perder il suo caro padrone, de l’innocenzia sua fece quegli scongiuri che ella seppe i maggiori, e sempre, ragionando, di calde ed amare lagrime il volto si rigava. Camillo in questo ragionamento la risolse che d’altro uomo si provedesse e che dove ei potesse farle piacere, che di buon core sempre lo farebbe, pur che seco non avesse piú pratica d’amore. E con questa determinazione da quella prese congedo e se ne tornò a casa. Parlò Delio seco due e tre volte, né altro mai puoté da lui cavare, se non che voleva esser amico di Giulio: che se aveva animo d’affrontarsi con la balia, che la farebbe venir in parangone. Ora quali fossero i pensieri di Cinzia, quali le sparse lagrime, quali le dolenti parole, quali le vigilate notti, quali i digiunati giorni e quali e quanti gli ardentissimi sospiri, chi ad uno ad uno raccontar volesse, averebbe troppo che fare, e cosí di leggero non ne verrebbe a capo. La misera giovane, perdutone il sonno e non si cibando, venne pallidissima, magra, e pareva una fantasima, né altro sapeva fare che piangere e miseramente lamentarsi, e di tal maniera era il suo dirotto pianto che averia mosso a pietá una tigre ircana. Medesimamente Camillo, ancora che si sforzasse di voler mostrare che questa cosa non gli dolesse, nondimeno ei si vedeva, cangiato il nativo colore del viso, esser afflitto e pallido e quasi di continovo pieno d’ardentissimi sospiri che facevano fede de l’interna doglia. Giulio altresí non trovava riposo, non si potendo dar pace che fosse in poter d’una rea femina di fargli perder cosí buon amico come teneva Camillo, e sempre astringeva Delio a far che si venisse a tutte quelle chiarezze che si potessero imaginare. Delio, che piú volte aveva tentato Camillo, e lo trovava sempre d’un tenore, aveva grandissima noia di questa pratica; e non gli piaceva punto che con la balia si venisse a parangone: onde a Giulio disse: – Io vorrei pur saper ciò che tu farai venendo a volto a volto con la balia, e che ella, come senza dubio fará, perseveri ne la sua ostinazione, raffermando quanto giá ha detto. Non sai che non è pertinacia né ostinazione al mondo uguale a quella d’una indiavolata femina? Ella, per mio giudizio, prima eleggerá di morire che disdirsi giá mai, ed accrescerá menzogne a menzogne. Se dirá che sei giaciuto in letto con Cinzia e che t’ha veduto, che dirai tu? Quanto piú tu lo negherai, ella tanto piú animosamente l’affermerá. Vorrai tu venir al cimento de l’armi e combattere con una meretrice? – Stavasi Giulio mezzo stordito e quasi fuor di se stesso, conoscendo che Delio diceva la veritá; pure, essendo bramoso d’uscir di cotanto fastidio in quanto si trovava, disse: – Io conosco molto bene che tu dici il vero, e che se questa malvagia femina vorrá ostinarsi e perseverare nelle sue bugie, ch’io non potrò per testimonii riprovarla giá mai e che saremo a peggio che prima. Ma a me par che Camillo deverebbe dar molto maggior fede a le mie verissime parole ch’a le menzogne d’una vilissima femina, la quale ei piú volte ha trovata esser bugiarda. E chi sa se ella, pentita di quanto falsamente ha straparlato, volesse dir il vero e manifestar a che fine ella s’abbia fatta questa favola? Si potrá forse anco cangiar in volto e dire ad un altro modo, o dar alcun segno, per lo quale Camillo potrebbe di leggero conoscer la mia lealtá e la malignitá e perfidia di questa ribalda. Sí che di grazia vedi che si venga a quel cimento che si può, a fine che Camillo manifestamente veggia ch’io non manco, con quelle vie che per me trovar si ponno, di volerlo chiarire de l’innocenzia mia. Vedi adunque, con quelle ragioni che tu saperai dire, indurre Camillo a levarsi fuor di testa questa falsa openione e dar luogo a la veritá. – Delio, che trovato aveva Camillo perseverar ne la sua credenza e dar sempre le risposte d’un tenore, non sapeva come governarsi. Ed in vero, in un caso di tal maniera quale era questo, avendo la balia sí ben ordita la sua tela e non vi essendo testimonio che il contrario affermasse, ancora che la balia sola non devesse valer piú di Giulio e di Cinzia che il fatto negavano, tuttavia pareva che ciascuno che questa novella sentiva piú tosto credesse il male che il bene, onde Delio non sapeva che farsi. Nondimeno essendo da Giulio ogni ora instigato, gli disse che di nuovo proveria ciò che potesse operare, e che portava ferma openione che da se stesso Camillo con un poco di tempo conoscerebbe la veritá e che non presteria piú fede ad una vil feminuccia che al vero. Ma volendo pur Giulio che con Camillo si parlasse e si venisse a la prova, gli disse Delio: – Poi che deliberato ti sei di voler entrare in steccato con la balia, a me pare che tutti dui ce n’andiamo a trovar Camillo, e intender se in casa sua o vero di Cinzia vuole che con la balia tu ti affronti. – E cosí se n’andarono a trovar Camillo, ed entrati in questa cosa in ragionamento, Delio gli disse: – Camillo, io piú volte t’ho detto che ancora che tu dica di voler aver Giulio nel conto che tu per avanti l’avevi, che a lui, lasciandoti con quella openione che hai, l’animo punto non è quieto. Onde, per veder se è possibile di cavarti questa fantasia di capo, egli è qui presto a fartene tutti quei parangoni che tu saperai imaginarti. – Io non so altro miglior modo, – disse Camillo, – che ridursi a la stanza di Cinzia e far venir la balia, e udir ciò che dirá e quanto le risponderá Giulio. – Con questo tutti tre n’andarono a casa di Cinzia, che era in letto e tuttavia amaramente piangeva, e a torno al letto s’assisero. Onde Camillo a ragionare cosí cominciò: – Io giá aveva deliberato, o Cinzia, che di quanto m’è stato fatto intender esser accaduto tra Giulio e te piú non si parlasse, perciò che, quanto a me appartiene, io il tutto aveva sepellito in eterno oblio, ed altresí desiderava che Giulio facesse e che rimanessimo amici e fratelli come prima eravamo. Ma astretto da Delio, al quale niente, quantunque grave che sia, posso negare, siamo qui venuti, e la cagione del nostro venire è che Giulio dice non esser vero quello che di lui e di te la balia di bocca propria m’ha manifestato, e vuole su la faccia sua riprovargliele. – Non aveva a pena le sue parole Camillo finito di dire, quando Cinzia tutta piena di lagrime disse: – Io vorrei che nostro signor Dio degnasse in questo caso essaudirmi e far tal dimostrazione quale fosse a l’innocenzia mia convenevole e manifestatrice de la falsitá e bugiarda fizione de la balia, a ciò che dal publico si potesse conoscere chi di noi due merita biasimo e castigo. E di questo ne prego Dio cosí di core, come di cosa che lo pregassi giammai. Ma se mi lece, Camillo, dir il vero, io credo e tengo certo che tu eri sazio dei fatti miei e che cercavi occasione d’abbandonarmi, e vuoi con questo mezzo dar ad intendere a chi questa cosa saperá, che con giusta cagione mosso ti sei. Ora Iddio te la perdoni. Tu potevi bene per altra via conseguir l’intento tuo e non mi far cotesto disonore, non l’avendo io meritato. Tu eri in tua libertá e potevi molto bene, ogni volta che ti piaceva, lasciarmi e dirmi: – Cinzia, io non voglio piú conversar teco, perché la tua pratica non fa piú per me. – Non sapevi tu che io non poteva sforzarti ad amarmi a mal tuo grado né contra tua voglia? Ma a te non è bastato non voler esser piú mio, ché m’hai voluto infamare e farmi tener una trista, dove a fé di Dio non sono, perciò che dopoi che io divenni tua, mai non ti ho mancato o fatto torto. Né solamente questo t’affermo, ma di piú ti dico che pensiero di mancarti non ebbi giá mai. E se tu o altri m’avete veduta domestica con Giulio e talora scherzevolmente insieme giocare e motteggiarsi l’un l’altro, non si è per questo potuto vedere, né comprender cosa meno che onesta e che tra amici non s’usi. Ma, per mia fé, chi me l’ha posto in grazia piú di te, che tante volte lodato e predicato me l’hai, affermandomi sempre che il piú leale e il piú dabbene di lui non avevi mai provato né sperimentato? Ora io che il primo giorno che divenni tua feci pensiero che in me piú non fosse voler alcuno se non quello che tu volevi, conoscendo quanto l’amavi, quanto caro tenevi e desideravi che da me fosse festeggiato, per compiacerti, ed anco perché vidi che ei lo valeva, me gli feci domestica, ma sempre come con mio fratello. E tanto piú volentieri praticava da ogni tempo seco, quanto che io lo trovava tutto tuo, e chiaramente comprendeva che molto piú t’ama che i fratelli suoi proprii; ma sia con Dio! In tanto infinito cordoglio in quanto mi trovo, ho pur questo solo poco di conforto, se in tanto mio male cader può sollevamento alcuno: tu con ragione mai non potrai di me dolerti, ma bene potrò io con giusta ragione di te dolermi e querelarmi. – Io non ti mancherò, – diceva Camillo, – di tutto quello che potrò sovvenirti, come per effetto proverai; ma piú non voglio che tra noi sia pratica d’amore, essendo ormai tempo ch’io attenda a’ casi miei. Or via, noi siamo qui per confrontar Giulio con la balia e dar fine a questa odiosa pratica. – Venne la balia, ed assicurata che dicesse il vero perché non le saria fatto nocumento alcuno, narrò con voce bassa ed interrotte parole tutta la finta favola che prima a Camillo narrata aveva, ma non cosí ordinatamente come a lui disse. E certo egli è una gran cosa a saper sí ben colorir la menzogna che abbia faccia di veritá, e ad un modo sempre narrarla. Per questo si dice che bisogna a un bugiardo aver buona memoria. Ora Giulio, tacendo la balia, tutto di còlera e di sdegno ripieno, voltato verso lei, con un mal viso iratamente le disse: – Io non voglio starmi a disputare e questionar teco di questo che ora falsamente dici, imperciò che nulla mi giovarebbe il negare quello che tu disposta sei d’affermare, o bene o male che tu dica, perché so non esser sotto le stelle ostinazione maggior di quella d’una tua pari. Dico bene che tu non dici punto il vero. Ed ancora che incredibilmente mi doglia restar con questa macchia appo Delio e Camillo, ché non so quello ch’eglino crederanno di questa tua menzogna, pure mi consola in parte la coscienza mia, sapendomi esser di questo fatto innocente, e spero fermamente in Dio che il tempo, ch’è padre de la veritá, il tutto fará manifesto secondo che è, e fará conoscer le tue bugie. – Cinzia diceva il medesimo, tuttavia piangendo. La scelerata balia se ne stava con gli occhi a terra chinati, cangiandosi spesso in viso di colore, né mai a Giulio né a Cinzia rispose una minima parola. Camillo, dopo molte parole, a Cinzia disse: – Io te l’ho, Cinzia, detto, ed ora te lo ridico, che tu sei libera e puoi a tuo modo provederti e pigliar chi piú ti piacerá, procacciandoti d’altri, ché io voglio esser mio e far di me come voglio, né teco piú vo’ domesticarmi. Ma bene dove potrò giovarti farò cosí che conoscerai che io son gentiluomo. – Poi che pure disposto sei, – disse Cinzia, – non mi voler piú esser quello che per lo passato stato mi sei, io ti prego almeno che tu voglia farmi una grazia, che a te niente fia ed a me sará di grandissima contentezza. – Domanda, – rispose Camillo, – a ciò che essendo cosa di cui ti possa compiacere, io liberamente te la concedo. – Vorrei, – soggiunse ella, – che fosse tuo piacere di lasciarmi la tua e mia picciola figliuolina e mi promettessi di non levarmela. – Questa farò ben io molto volentieri, – disse Camillo, – e tanto piú quanto che mi persuado che io in lei non abbia che fare, non la riputando mia, ché, secondo che ora hai del corpo tuo compiaciuto altrui, posso ancora ragionevolmente credere che altre volte tu abbia fatto il medesimo; sí che ella ti resterá. Orsú, non piú ciance, ché troppo dette se ne sono. Io ti lascio, né voglio a patto veruno che si dica che tu sia piú mia. Statti con Dio e attendi a darti piacere. – E con questo lasciatala, tutti se ne partirono. La misera e sconsolata giovane, assalita da soverchio dolore, cosí da quello fu vinta che tramortí, ed ogni segno di vita in lei si spense. La vecchia madre, veggendo la figliuola a sí mal viaggio e termine ridotta, cominciò amaramente piangendo a gridare: – Oimè, misera me, che Cinzia è morta! – Il vecchio padre che si trovò, sentendo la pietosa voce della lagrimante sua moglie, salite le scale ed in camera entrato, anco egli stimando la figliuola esser trapassata, cominciò piangendo a far un grandissimo lamento. La balia altresí di mala voglia essortò i poveri vecchi a porger a la figliuola aita, dicendo che era isvenuta. Onde a la meglio che seppero a torno a Cinzia si misero e, stropicciandole le carni in piú luoghi, sí sforzarono con ispruzzar acqua nel viso e con altri argomenti gli smarriti spiriti rivocare. Ora, poi che le poche e deboli forze ne l’afflitto corpo con grandissima fatica furono ridutte, la sconsolata giovane, non possendo ricever consolazione, lungamente pianse e sospirò la sua sciagura. Veggendo poi che indarno s’affaticava, rivolse l’animo a pensare di che maniera ella si potesse di questi sí noiosi affanni liberare e per morte finir cosí aspra e sconsolata vita. Ma lasciamola un poco in questo suo fiero proponimento, e diamole agio di meglio pensare a’ casi suoi, e ritorniamo a Delio, il quale, mentre stette in camera di Cinzia, non volle mai dir cosa alcuna. Ora, poi che furono di casa di quella usciti, ei cosí disse a Camillo: – Perché tutte le cose possibili ponno essere, egli potrebbe la balia aver detta la veritá; ma per questo non segue effetto che ella detta l’abbia, perché dal poter a l’esser è un gran disvario e larga differenza, non si potendo veramente affermare: «Una cosa puote essere, adunque è». Ma sia come si voglia. A me non può egli entrar in capo che se Giulio voleva prendersi carnal diletto con Cinzia, che egli mai avesse lasciata la porta de la camera aperta, massimamente essendo altre volte dimorato in camera seco con l’uscio serrato. Sovvengati, Camillo, quante fiate partendoti da la camera, e non v’essendo dentro altra persona che Giulio e Cinzia, hai serrato l’uscio, che sai che, tirato appresso al muro, da sé s’inchiava. Pertanto io non conosco Giulio sí scemonnito che, volendo un sí fatto mestier fare, avesse lasciata la porta schiavata. Ma io credo che questa trista de la balia s’abbia finta per alcun suo disegno cotesta menzogna. Né questo ti dico io perché tu debbia di nuovo ritornar a rimpattumarti con Cinzia, perché sai bene quante volte per nome di monsignor lo vescovo e da me stesso t’ho essortato a levarti da questa sí poco onorevole pratica, ed ancor adesso te lo conforto; ma detto l’ho ché non vorrei che fra te e Giulio rimanesse la ruggine che tra voi mi par nata, che sará cagione che piú non ci sará quella vera amicizia che ci era. Poi a quello che ho da la balia udito, che hai veduto come freddamente quasi in insogno ha questa sua favola narrato, io comprendo che non sappia ciò che si dica, e che cotesta sia una trama ordita, non so a che fine. E fommi a credere che, se un’altra volta se le fará narrare, che tu vedrai che o aggiungerá o diminuirá alcuna cosa, e che varierá il parlare. Ben t’affermo che appo me ella ha perduto il credito e che io per me, con quanto mi sapesse dire, non le crederei il vangelo. E se tu ora non avessi gli occhi de la mente dal fiero sdegno velati e che la passione tanto non t’alterasse, che troppo pure ti martella, tu saresti certo de la medesima openione che son io. – Non accade dir altro, – soggiunse Camillo, – avendo io chiaro manifestato l’animo mio cosí verso Giulio come verso Cinzia. – Finito questo ragionamento, Delio e Giulio si dipartirono. Ora, veggendo Giulio la cosa andar di mal in peggio, e che non era per prender quel fine che si conveniva, disse a Delio: – Io veggio che Camillo ha fisso il chiodo di voler piú tosto creder la bugia a quella mascalzona de la balia, che a me la veritá. Onde mi son deliberato andarmene per alcuno spazio di tempo fuor de la cittá, per schivar questi molti fastidii e mordaci cure che mi levano l’intelletto. Forse che il tempo aprirá gli occhi a Camillo, e conoscerá la mia innocenzia e la malvagitá de la traditora balia. – Cinzia, che sofferiva passione fierissima, e non le pareva poter viver senza Camillo, mandò a chiamar Flamminio Astemio, il quale era amico di Camillo, di Delio e di Giulio. Egli, udite le ragioni di Cinzia e riputandole vere, parlò piú volte con Camillo ma sempre indarno. Il che Cinzia intendendo, e sapendo che a torto era infamata, cadendo ne l’abisso de la disperazione, deliberò non voler piú restar in vita, parendole assai minor pena il morire che il viver in cotanti affanni; ma, dubiosa de la guisa del morire, non sapeva con qual morte troncar lo stame de la sua travagliata vita. Ancidersi con le proprie mani per via del ferro, non le dava il core, temendo che la debol e tremante mano non fosse forte a sí fatto ufficio; appendersi con una fune per la gola e di sé dar sí misero spettacolo, non ardiva. Restavale il macerarsi di fame ed a poco a poco consumarsi, o gettarsi da le finestre in terra e fiaccarsi il collo, o buttarsi in un fiume che per la terra passa, e nell’acqua annegarsi; ma nessuna spezie di queste morti le piaceva. Onde, dopo molti pensieri su questo fatti, perseverando sempre nel fiero proponimento di morire, elesse ultimamente col veleno terminar i giorni suoi ed uscir di affanni. Ahi, giovini incauti e voi semplici donne, cui pare che lo star su la vita amorosa sia un trastullo, guardate a non lasciarvi dal soverchio amore impaniare, di tal maniera che non possiate poi tirarvi a dietro, e sovra il tutto non vi disperate. Vi sia per essempio questa infelice giovane, la quale disperata, non le parendo poter piú goder il suo amante, ha eletto avvelenarsi. Ed avendo ne l’animo suo fatta questa deliberazione, [cercava] con qual sorte di veleno si devesse ancidere e con che modo il veleno potesse avere. Praticava in casa di lei il greco da Santa Palma, uomo di palazzo e molto domestico di Camillo. Questo si fece ella domandare e l’interrogò se aveva conoscenza d’un Gerone Sasso che, per quello che per tutta la cittá suonava, era un famoso ribaldo, e tra l’altre sue sceleratezze aveva fama che in cuocer ed affinar veleni era senza pari. Era ancor pubblica voce che, volendo provar una composizione che fatta aveva di certo veleno, che l’esperimentò in una sua fantesca, che piú di venti anni era servente in casa di lui stata, la quale in breve spazio morí. Io mi trovai un dí presente che un gran signore gli disse: – Gerone, tu desti pur quella volta un bon salario a la tua fante che tanti anni t’aveva servito, quando con quattro gocciole d’acqua che tu stilli la mandasti a l’altro mondo. – Non ardí il manigoldo a negarlo, ma sogghignando faceva vista di burlare. Ma torniamo al greco, il quale a Cinzia rispose che lo conosceva familiarmente. – Vorrò, – soggiuns’ella, – un servigio da te, e quando sará tempo te lo richiederò. – Pensò Cinzia dopoi non voler usar piú l’opera del greco, perché era troppo domestico di Camillo, e sovvenutole poi di Mario Organiero ch’aveva fama anco ei di cuocere e distillare acque mortifere, le quali in due o tre giorni senza segno esteriore a berne nel vino o in altro modo, ammazzavano chi ne beveva, a lui deliberò ricorrere. E perché Mario era suo amico, ella gli scrisse un bollettino, fingendo certe sue favole, che, astretta da un gentiluomo, era sforzata pregarlo che le volesse dare un cucchiaro de la sua acqua, affermandoli che la cosa sarebbe segretissima e che di questo ella ne guadagnava scudi d’oro. Sapeva Mario che Camillo s’era levato da la pratica di Cinzia, e, veduto la lettera di quella, dubitò che ella forse avvelenar lo volesse; il perché, trovatolo gli disse: – Io non so chi abbia persuaso né dato ad intendere che io distilli acque velenose, non essendo mio mestiero. Né anco vorrei saperlo fare! Che Dio da simile sceleraggine mi guardi. Ma perché io mi diletto di cuocere e distillar acque odorifere, e far degli ogli odorati, e componere lisci e belletti per donne, alcuni m’hanno data questa mala fama. Che Dio tanto faccia lor tristi quanto desidero io esser buono. Ora vedi ciò che Cinzia mi scrive: ché se ella volesse altra acqua che velenosa, non accaderebbe che mi dicesse d’esser segreta e che ne guadagnerá cinquanta scudi. – Camillo, letta la lettera, giudicò l’openione di Mario esser buona, ma non si poteva persuadere ch’ella a modo nessuno volesse attossicarsi. Di sé non dubitava punto, avendo deliberato piú non mangiare né ber seco. Stava egli dubioso di questa cosa, e non sapeva apporsi a che fine ella ricercasse cotal acqua. Nondimeno, per meglio spiar l’animo di quella, pregò Mario che con belle parole la intertenesse e mostrasse non intendere che acqua ella volesse, e di quanto ella risponderia gliene desse avviso. Onde Mario a Cinzia scrisse che non sapeva di che sorte acqua ella chiedesse; che se voleva acqua da belletti e conciature, per assottigliare e purgar la pelle, farla bianca, colorita e lustra, o per levar via i peli, ch’ei ne aveva; ma che un cucchiaro non era per far effetto buono. Cinzia, avuta questa risposta, come colei che aveva ferma openione che Mario facesse veleni, a quello riscrisse che voleva acqua velenata; il che Mario mostrò a Camillo, e gli domandò ciò che far deveva. Camillo alora disse: – Mai, messer, sí, in bona fé voglio che la serviam come merita. Tu le riscriverai che di cotal acqua tu non ne hai di fatta, ed ancor che sia cosa di grandissima importanza e che a farla sia difficultá incredibile, che tuttavia per amor suo ne farai fra quattro o cinque giorni una ampolla picciolina. Poi quando ella vorrá quest’acqua, non le mandar cosa veruna senza mia saputa; ed alora vorrò che le mandi acqua pura di pozzo, con alcuna mistura di dentro che le dia un poco d’odore, ma che non le possa far nocumento. – In questo mezzo ella, volendo tentar ogni cosa prima che morire, e veder se poteva ricuperar la grazia di Camillo e fargli conoscere che non gli era mai mancata né fattogli alcun torto, ancora che debolissima fosse, piú dal desiderio portata che da le forze, andò a la meglio che puoté a casa del greco, e, trovatolo, entrò con lui i


Amor... a nullo amato amar perdona.


Se poi cosí tosto non si vede l’amore ricambiato, non si deve perciò l’uomo levare da la giá cominciata impresa, ma con lealtá perseverare, ché pure a la fine si vede, o tardi o per tempo, chi ama esser amato.


Il Bandello al molto vertuoso signore


il signor Carlo Bracchietto signore di Marigni


e consigliero del re cristianissimo nel suo gran conseglio


Questi dí prossimamente passati, ritornando da Parigi messer Gian Giordano, ove alcuni anni dietro tutto ’l dí al Gran Conseglio per gli affari di monsignor lo vescovo d’Agen si è fruttuosamente adoperato, m’ha fatto intendere quanto ufficiosamente, non solamente nel petto vostro conservate la memoria del nome mio, ma, il che da la infinita vostra cortesia procede, anco quanto con onorate ed affettuose parole di me parlate. Questo veramente non ho io per opere mie o vertú che in me sia, né per ufficiosa alcuna azione verso voi usata, meritato, non essendosi offerta occasione che voi cosa alcuna comandata m’abbiate, né io da me stesso presa l’abbia, non veggendo in che la bassezza mia a l’altezza del grado vostro possa giovare. È ben vero che avendosi riguardo al desiderio de l’animo e voler mio, che, dapoi che io vi conobbi, sempre è stato prontissimo per farvi, quanto per me potuto si fosse, servigio, che io merito esser da voi non mezzanamente amato e tenuto nel numero dei piú cari, devendosi molte fiate la voluntá in luogo del fatto riputare. Ora, essendo nuovamente stata narrata una pietosa novella in una onorata compagnia dal magnifico messer Gerardo Boldiero il cavaliero, avendone io giá assai buon numero scritto, ho voluto a l’altre questa aggiungere, e, secondo il mio usato costume, darle un padrone; il perché quella al nome vostro ho dedicata. Vi piacerá con quell’animo accettarla con il quale la tutela dei vostri clientuli, che al vostro fruttuoso e leal patrocinio ricorrono, accettare e difender solete. Né si meravigli alcuno che io a uomo occupatissimo in publici negozii ed affari importantissimi di cosí ampio regno queste mie ciancie ardisca mandare, perciò che questo non faccio io perché voi, lasciando le faccende che tutto il dí per le mani avete, ne la lezione di questa novella debbiate logorare le buon’ore, ché avendo io cotale intenzione sarei bene sciocco e degno d’agra riprensione; ma mosso mi sono, sapendo la natura umana non devere né potere negoziare di continovo, e applicarsi a le contemplazioni de le scienze nobilissime, e star lungo tempo ne le speculazioni de le cose cosí naturali come celesti, senza talora pigliarsi alcuna remissione d’animo. Scevola, che appo romani fu iureconsulto eccellentissimo, dopoi che a le cose de la religione aveva messo fine ed ordinate le cerimonie e disputato de la ragion civile e giudicate quelle liti che ne le mani aveva, per rallegrare l’affaticata mente e rendersi piú vivace e forte agli studii, s’essercitava nel giuoco de la palla, e spesso anco a tavole giocava, e con altri piacevoli e remissi giuochi passava quel poco di tempo che la vacazione de le cure gli concedeva, mostrandosi ne gli affari gravi ed importanti Scevola, e nei lassamenti de l’animo esser uomo. Che diremo di Socrate sapientissimo, al quale nessuna sorte di sapienzia fu oscura, e fu uno dei costumati uomini dei suoi tempi? Aveva egli spesse fiate preso in costume, quando a casa dopo le disputazioni de la filosofia ritornava, con i suoi piccioli figliuoli far di quei giuochi che la fanciullesca etá usare è consueta. Scipione Affricano, uomo a’ suoi tempi senza parangone, di cui i preclarissimi fatti ne la milizia e la integritá de la vita i greci e latini in mille volumi hanno celebralo, punto non si sdegnava insieme con Lelio suo fidatissimo compagno sovra il lito di Caieta e de la cittá di Laurento diportarsi e andar cogliendo de le cocchiglie marine e de le picciole pietre tra la minuta arena. Ora se io vorrò ricercare e addurre altri essempi a questo proposito d’uomini in ogni azione prestantissimi, prima mi mancherá il tempo che gli essempi. Non è dunque disdicevole a qualunque sorte d’uomini rimetter talora l’animo da le cose gravi ed inchinarsi a’ piacevoli giuochi per ricrearsi a dare aita e forza a la mente, a ciò che poi piú vivacemente possa sotto entrare al peso degli affari, chi piú e chi meno di cura e sollecitudine pieni, secondo le occorrenze. Adunque voi, signor mio, quando da le gravissime occupazioni fastidito bramarete un poco di ricreazione prendere, questa mia novella per via di diporto potrete leggere. State sano e di me ricordevole. Feliciti nostro signor Iddio i vostri pensieri.