Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XLIII

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Seconda parte
Novella XLIII

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Inganno de la reina Maria di Ragona


al re Pietro suo marito per aver da lui figliuoli.


Negli anni de la salute nostra del millecentonovanta, poco piú o poco meno, era conte di Barcellona don Pietro d’Aragona, e fu il settimo re d’essa provincia aragonese. Egli ebbe per moglie donna Maria di Monte Pesulino, la quale era nipote de l’imperadore di Costantinopoli. Era donna Maria assai bella, ma molto piú gentile e vertuosa e molto dai popoli di Ragona amata e riverita per i suoi buoni costumi e perché a tutti, secondo il grado loro e secondo che lo valevano, faceva grate accoglienze, compiacendo loro ne le domande quanto il debito portava. Il re Pietro, per quello che veder si poteva, mostrava averla molto poco cara, e lasciatala quasi per l’ordinario sola nel letto, attendeva a trastullarsi con altre donne. E ben che essa reina potesse assai cose fare nel regno e da’ baroni, cavalieri ed altri fosse molto onorata e da tutti ubidita, e il re cose che ella facesse non rompesse giá mai, nondimeno ella in conto alcuno non si contentava e viveva in pessima contentezza, perciò che piú volentieri si saria contentata di meno autoritá nel maneggio del regno, ed aver le notti nel letto la debita compagnia ed abbracciamenti del re suo marito. Di questa sua mala sodisfazione non si lamentava ella con persona, anzi, se talora alcuno le faceva motto degli amori del re e de le donne con le quali egli teneva pratica, ella, come saggia che era, mostrava non curarsi, ed altro non rispondeva se non che dal re suo marito e signore era benissimo trattata e tenuta cara, e che tutto ciò che da quello si faceva era ben fatto, perciò che egli era padrone e signore di tutto. Erano alcuni dei baroni ai quali molto dispiaceva questo modo di vivere che il re teneva, perché non avendo egli figliuol nessuno legitimo, pareva loro molto di strano che non curasse di procrear un legitimo erede e successore al suo nobilissimo reame. E di questa trascuraggine del re era nel popolo una grandissima mormorazione, ed ogni dí ci era chi a la reina se ne lamentava. Ella non sapeva che altro dire, se non che ciò che il re voleva, ella anco voleva. Nondimeno le pareva pure che gran cosa fosse che il re sí poco si curasse di lasciar un erede dopo la morte sua. Da l’altra banda, essendo pur ella di carne e d’ossa come l’altre femine sono, le era molto duro a sofferire che il re sí malamente la trattasse, e che piú d’alcune altre donne si curasse che di lei, le quali seco non erano da esser parangonate né di bellezza né di sangue né di costumi. E cosí entrandole nel petto il veleno de la gelosia, cominciò fortemente tra sé a dolersi de la vita che il re menava. Tuttavia non le parendo onesto con altri dolersene, piú volte, quanto piú modestamente seppe, con il re se ne dolse; ma ella cantava a’ sordi. Il re, nulla curando le vere lamentazioni de la reina, andava dietro al viver suo consueto, ed oggi con questa e dimane con quella de le sue favorite donne si dava buon tempo. La reina, a cui onesta gelosia aveva aperti gli occhi, cominciò con piú diligenza del passato a spiar le azioni e gli amori del re, e di leggero s’accorse che quello un suo fidatissimo cameriero aveva, il quale, consapevole de l’animo del padrone, era colui che secondo il voler di quello ora gli conduceva questa femina, ora le menava quell’altra, e nascosamente le faceva entrar nel palazzo e mettersi in alcuna camera; poi quando il re si ritirava per dormire, il detto cameriero gli metteva a lato quella donna che condotta aveva, ed il piú de le volte le faceva venir senza lume. Avuta la buona reina cognizione di questo fatto, pensò con quel meglior modo che fosse possibile, di corromper il cameriero e far tanto che in vece d’una di quelle amiche del re, ella di segreto fosse introdutta in letto con il marito. Messasi adunque a la prova, in diverse volte tanto fece e disse e tanto promise al cameriero, che egli si contentò con questo mezzo usare al suo padrone questo onesto inganno; né troppo indugio diede a l’effetto. Dormivano il re e la reina in un medesimo palazzo, ma in diverse camere, tra le quali non era molta distanzia. Avendo adunque il re dato ordine al cameriero che quella notte gli conducesse una di quelle sue consuete donne, egli ne avvisò la reina, la quale, messasi a l’ordine d’andar a nozze, se ne stava attendendo l’ora. Venuto il tempo oportuno, andò il cameriero e, presa la reina, quella condusse e pose al lato del re, il quale credendosi d’aver una de le sue solite, con la reina piú volte amorosamente si trastullò. Avendosi il re preso quell’amoroso piacere che gli parve, ed appropinquandosi l’aurora, diede congedo di partirsi a la reina e chiamò il cameriero che via ne la menasse. Alora la reina, che conseguito aveva quanto era il desiderio suo, cosí parlando disse: – Signore e marito mio, io non sono quella cui credete, ché, pensando voi esservi giaciuto con una de le vostre amiche, meco stato sète, che sono pur vostra legitima moglie. Io mi fo ad intendere che non debbiate aver a male, se quello che di ragione è mio, non lo potendo io buonamente conseguire, con onesto inganno ingegnata mi sono d’ottenere, con ciò sia che a nessuno fa ingiuria chi usa de le sue ragioni. Voi come re, mio marito e signore, potete, se vi piace, far ogni strazio di me ed uccidermi, ma non potrete giá fare che ciò che fatto è, fatto non sia. Pertanto se Iddio sí bella grazia fatta m’avesse, che dei congiungimenti che questa notte sono stati tra noi io restassi gravida, e partorissi al suo tempo un figliuol maschio, erede di questo reame di Ragona, essendo, appo tutto il popolo, publico che voi non vi giacete né mescolate meco, a ciò che non si dicesse ch’io l’avessi generato d’adulterio, vi piacerá fare che i primi baroni del regno, che ne la corte sono, sappiano che questa notte io sia stata con voi, e mi veggano qui vosco, a possano render testimonio che il frutto del ventre mio sia seme vostro. – Piacque al re l’onesto inganno de la reina e la ritenne seco in letto, e volle che la matina tutti i baroni e cortegiani ne la camera entrassero e la reina seco corcata vedessero, e a tutti manifestò la sagace astuzia da lei usata. Commendarono generalmente tutti l’ingegno de la lor signora, che con cosí astuto avvedimento avesse onestamente gabbato il marito, e lodarono il re che di questa gentil beffa si contentasse. Per l’avvenire adunque il re, in tutto cangiato di natura, lasciò stare quelle donne con le quali amorosamente si giaceva, e cominciò molto ad amar la reina e degli abbracciari di quella in modo sodisfarsi, che dopoi non si mischiò piú con altra femina. Fece nostro signor Iddio grazia a la buona reina, che ella ingravidò d’un figliuol maschio, ed al tempo debito lo partorí, il primo giorno di febbraio del millecentonovantasei. Fu di tutti i ragonesi l’allegrezza inestimabile, veggendo la legitima successione del loro re naturale. Fu portato il bambino secondo il costume di quei paesi a la chiesa ed avvenne che entrando dentro quelli che il figliuolo portavano, i sacerdoti del luogo, che nulla del fatto sapevano, cominciarono a cantar quel bellissimo cantico Te Deum laudamus, che giá i dui santi dottori de la Chiesa catolica, Ambrogio ed Agostino, nel battesimo di esso Agostino, a vicenda composero, cominciando Ambrogio e rispondendo Agostino. Portato poi il figliuolino da quel tempio ad un altro, ne l’entrare di quella chiesa i preti intonarono quel cantico di Zaccaria profeta, padre del precursore del Redentore de l’umana generazione dicendo: Benedictus Dominus Deus Israël. Il che fu evidentissimo segno che il fanciullino nato deveva esser re di gran bontá e di molta giustizia. Devendo poi ricevere il sacro battesimo, e non sapendo il re e la reina che nome imporgli e molti nomi ricordando, a la fine convennero in questo. Fecero pigliar dodici torchi d’una stessa ugualitá e peso, e gli fecero unitamente allumare, e a riverenza dei dodici apostoli su ciascuno torchio fu scritto il nome d’un apostolo, con intenzione che il nome de l’apostolo il cui torchio prima s’ammorzasse si mettesse al fanciullo. Onde consumandosi prima degli altri quello del nome di san Giacomo, il fanciullo da quello fu chiamato Giacomo. Crebbe il figliuolo e riuscí uomo eccellente e di grandissimo governo in guerra ed in pace. Fece contra i mori asprissima e crudelissima guerra, cacciandogli a viva forza da le isole Baleari, Maiorica e Minoica. Ricuperò anco il reame di Valenza e, passato lo stretto di Gibelterra, diede danno grandissimo agli infedeli, innalzando quanto piú poteva la fede di Cristo.


Il Bandello al molto magnifico e vertuoso


messer Filippo Baldo nobile milanese salute


Verissimo pure esser ogni dí si vede il proverbio che communemente dir si suole: che «gli uomini talora si riscontrano, ma le montagne non giá mai». Deverebbe questo ammonire quelli che portano il cervello sopra la berretta e, non si curando far le sconcie cose ed offender assai sovente il compagno, dicendo: «Me ne vado ed egli se ne va, né piú ci rivederemo». Erronea certamente e mal regolata openione, come la sperienza ne fa ferma fede, perciò che molte volte ciò che non accade in uno e dui anni, avviene in un punto impetuosamente. E questo ci occorre cosí ne le nostre vertuose operazioni come ne le male. Chi imaginato si averebbe giá mai, Baldo mio soavissimo, che voi ed io dopo tanti anni in Aquitania, nel contado d’Agen, su la riva di Garonna, ad un medesimo tempo trovati ci fussimo? Ponno esser circa ventidui anni, e forse piú che meno, che di compagnia a Ferrara ci trovammo a le nozze del signor Gian Paolo Sforza, fratello di Francesco secondo Sforza duca di Milano, e de la signora Violante Bentivoglia sua consorte, ed alcuni dí in grandissimo piacere di brigata dimorammo. Egli vi deve sovvenire quanti bei giochi si fecero e quanto allegramente tutti quei giorni in festa trascorremmo. Finite le nozze, chi andò in qua, chi andò in lá, come spesso suol avvenire. Voi non molto dopo, facendo penitenzia de l’altrui colpa, per l’Italia, l’Alemagna, Spagna e per l’Affrica, conquassato da’ contrarii venti d’impetuosa fortuna, finora sète ito errando, e di nuovo la terza volta in Ispagna passar volete, avete di Fiandra fin qui attraversata gran parte del reame de la Francia. Vi riconduce in Ispagna la speranza che avete di dar fine a tante peregrinazioni, a tante fatiche, a tante spese, a tanti pericoli, e vedere col favore del famoso arciduca de l’Austria re di Boemia, malgrado de l’avversa fortuna, uscir di tanti fastidiosi travagli. Io medesimamente poi che non ci vedemmo, ancora che molto prima di voi cominciato avessi a sentir gli acuti e velenosi denti de la contraria e misera fortuna, e vedute le case paterne da faziosi uomini arse ed il fisco aver occupate l’oneste facultá lasciate dagli avi miei, gran tempo sono ito vagabondo, rincrescendomi vie piú il vedermi sforzato d’abbandonar gli studi ove da fanciullo fui nodrito, che aver il padrimonio perduto. Cosí molti e molti anni travagliando, tuttavia in grandissimi perigli trovato mi sono. Mercé poi de la sempre acerba ed onorata memoria del non mai a pieno lodato cavaliero de l’ordine del re cristianissimo, il valoroso signor Cesare Fregoso, e de la valorosa ed incomparabile consorte sua, madama Gostanza Rangona, ho posto fine a sí lungo ed amaro essiglio e a tanti varii affanni, e qui a me stesso ed a le muse me ne vivo, giá circa otto anni passati, assai quietamente, cangiati Schirmia e il Po, fiumi miei nativi, che quasi lungo la patria mia insieme le lor acque mischiano, cangiati, dico, in Garonna, e la giá fortunata Lombardia in Acquitania. Ora quando meno sperava, anzi disperava io mai piú non vedervi, ecco che a l’improviso qui sète, venendo di Fiandra, capitato. Quanto volentieri madama Fregosa, mia signora, v’abbia veduto e lietamente raccolto, voi stesso ne sète ottimo giudice; però ditelo voi, ché molto meglio di me dir lo saperete. Certo ella sí allegramente vi raccolse come se un fratello suo venuto ci fosse. Taccio di me la cui gioia, veggendovi, fu tale quale nei felici tempi passati era molte volte il piacere che de le mie contentezze sentiva. Vi piacque far con noi le feste de la nativitá del nostro salvatore Giesu Cristo, essendo arrivato qui di quattro giorni avanti. E volendovi, fatto san Giovanni, partire e andar di qui a Tolosa e per Linguadoca a Perpignano e passar i monti Pirenei, vi convenne restare, perché madama nol sofferse, essendo tanto tempo che veduto non v’avevamo, né goduta la dolcissima vostra compagnia, che non lascia rincrescer a chi vosco conversa giá mai, sí bello e sí facondo dicitore sète, e sí festevoli ed arguti motti per le mani avete. Narrate poi le piú piacevoli novelle del mondo sí copiosamente e con tanta grazia, che tutti gli ascoltanti vi stanno dinanzi con attenzione grandissima. Volle adunque madama che la dimora vostra con noi fosse fin che i freddi del dicembre e del gennaio fossero ammortiti ed alquanto il tempo addolcito: e non potendo voi ragionevolmente negarle questo piacere, qui con noi ve ne rimaneste. Ora narrandoci voi di molte belle cose, un dí a la presenza di madama, dei suoi gentiluomini e de le damigelle, diceste tra l’altre una novella che molto a tutti piacque, onde astretto a scriverla da chi comandar mi puote, sono sicuro, quanto a l’istoria appartiene, averla intieramente scritta; ma se al candido e purgato stile de la feconda vostra eloquenzia non sono arrivato, scusimi appo voi che a tutti non è dato di navigare a Corinto. Tuttavia, tale quale è, ragionevole mi pare che di voi, che narrata l’avete, sia. E cosí ve la dono e consacro in testimonio de la nostra antica e cambievole benevoglienza, pregando nostro signor Iddio che vi conservi.