Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella III

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Terza parte
Novella III

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Un giovine si marita in una semplicissima fanciulla, che la seconda notte


al marito tagliò via il piombino e i perpendicoli.


Molti accidenti occorrono tutto il dí in varii luoghi, i quali, quando si sanno, riempiono gli animi nostri di compassione e di stupore, come non è molto in Londra mia patria avvenne. Era in Londra un giovine chiamato Tomaso, il quale, per la morte del padre e de la madre essendo rimaso assai ricco, deliberò di maritarsi. Onde dopo praticate per gli amici e parenti suoi diverse pratiche, ritrovarono una fanciulla d’anni quindeci in sedeci, nata d’onesti parenti, a Tomaso di roba e di sangue uguale, la quale era cosí bella e cosí ben costumata come giovane che in Londra alora si trovasse. Ma, che che se ne fosse cagione, era ella fuor di misura tanto sempliciotta, per non dire sciocca, quanto da persona imaginar si possa. E questo le era per giudicio mio avvenuto per esser stata nudrita purissimamente, senza veruna pratica né conversazione con persona, contra il general costume di tutta Londra e de l’isola nostra d’Inghilterra, ove s’usa che le figliuole da marito vanno a banchetti e feste e conversano con questi e con quelli, e si rendono avvedute e prontissime a risponder saggiamente quando sono di ciò che si voglia dagli uomini e dagli amanti loro richieste. Questa di cui ora vi parlo fu nudrita da una sua vecchia, che le narrava mille fole e le dava ad intendere le maggior pappolate del mondo, come si suol fare a’ piccioli fanciulli quando si dá loro de le vecchie a credere che le donne gravide gridano nel partorire, perché si taglia loro sotto le ascelle la carne per cavarne fuor la creatura che nasce. Questa adunque, che Isabetta aveva nome, fu per moglie data con infelici auspicii a Tomaso, il quale, vedutala tanto bella, molto se ne rallegrava. Si fecero le nozze, a l’usanza nostra, ricche e festevoli. Venuta poi la notte, furono i novelli sposi messi a letto. Tomaso, che era giovine molto gagliardo e di forte nerbo, essendo ciascuno fuor de la camera uscito, s’accostò a la sposa che alquanto ritrosetta se ne stava. Egli da l’amore che a lei portava e dal buio fatto ardito e dal caldo de le lenzuola incitato, sentendosi tutto commovere dal concupiscibil appetito, l’abbracciò e cominciò amorosamente e con marital affezione a basciarla. Il perché, destandosi in lui tale che forse dormiva, tentò di venir a l’ultimo godimento che gli amanti ricercano, e, cui senza, pare che amore resti insipidissimo. Essendo adunque ad ordine per espugnar la ròcca e prender il possesso di quella, si mise a voler rompere i bastioni e ripari che l’entrata gli impedivano. Ma come la sciocca e sempliciotta Isabetta, che non sapeva con che corno gli uomini cacciassero, mise la mano per vietar al marito l’entrata, e sentendo quella cosa cosí indurata e nervosa, si dubitò non esser da quella come da un pungente pugnale di banda in banda passata, e tuttavia piangendo faceva ogni sforzo a lei possibile per ribattere il suo marito indietro. Tomaso, che in buona parte pigliava la resistenza che ella faceva, non mancava con le mani a far ogni sforzo per vincerla e mettersela sotto, ma non puoté giá mai vincerla. Piangeva ella amarissimamente e forte si lamentava, chiamando il marito ladrone, traditore e beccaio. Ora veggendo Tomaso l’ostinata resistenza e il gran rammaricarsi e querelarsi che la scemonnita moglie faceva, e il tutto pigliando in buona parte, deliberò tra sé per quella notte non le dar battaglia ma lasciarla riposare; onde mezzo stracco, ritiratosi in una banda del letto, attese a dormire il rimanente de la notte. Ella nulla o ben poco dormí, non le possendo uscir di capo che il marito con quel suo piuolo non la volesse guastare. Si lamentava la semplice scioccarella di quello che altre vie piú sagge di lei si sarebbero molto contentate e ringraziato Iddio che dato loro avesse un marito di cosí forte nerbo e sí ben fornito di masserizia per bisogno di casa. Levossi la matina Tomaso e lasciò la moglie in letto, per cagione di lei poco allegra, anzi di tanta mala contentezza piena che piú esser non poteva. Levata poi che ella fu, tutta di mala voglia, altro non faceva che piangere e rammaricarsi. Vennero alcune sue parenti e vicine che invitate erano al desinare; e trovatala cosí lagrimosa e malinconica, le domandarono la cagione di tante sue lagrime e rammarichi che faceva. Ella alora piú dirottamente piangendo, cessate alquanto le lagrime e raffrenati i singhiozzi che il parlare le impedivano, rispose che non senza cagione si ritrovava disperata, perché le avevano dato in vece di marito un carnefice che l’aveva voluta svenare e uccidere. Rimasero quelle donne quasi stordite, e consolandola la ricercavano che narrasse loro il modo col quale il marito svenar la voleva. Alora ella disse che il marito aveva un «cotale» lungo, grosso e duro, e che non tentava altro se non di cacciargliene nel ventre, ma che ella s’era gagliardamente diffesa, e che erano stati a le mani piú di due ore grosse, e che l’aveva date punture molto terribili, e che in effetto, se non fosse stata la gran resistenza che fatta aveva, ella senza dubio ne rimaneva morta. Risero tra sé pur assai le donne de la sciocchezza de la sposa, e ci furono di quelle a cui le veniva la saliva in bocca e averebbero voluto esser state in quella scaramuccia, stimando una eccellente e gran vittoria l’esser state vinte e soggiogate. Ora, veggendo Isabetta le donne ridere di quello che ella stimava un’estrema sciagura, ed imaginando che quelle credessero che ella la veritá non narrasse, con giuramento affermava la cosa esser precisamente passata come loro narrata aveva. Cominciarono le donne a consolarla e con amorevoli parole ad essortarla che non si sgomentasse di cosa che il marito le facesse, assicurandola che egli non le farebbe veruno male e che a la fine se ne troveria assai piú che contenta. Ma elle cantavano a’ sordi. Ella non la voleva a patto nessuno intendere. Il che veggendo una baldanzosa piú de l’altre, e burlandosi de la sciocchezza de la sempliciotta giovane, le disse beffandosi: – Se io fossi ne la tua pelle, come egli assalisse con quel suo spuntone io subito glielo tagliarei via. – La donna disse le parole di gabbo e mezza in còlera, veggendo tanta melensaggine in una giovane; ma la sposa le prese dal meglior senno che avesse, e parve che si rappacificasse alquanto. Venne l’ora del desinare e si desinò assai allegramente, e vi furono di quelle che stranamente si misero a motteggiare lo sposo, avendo forse piú voglia di giostrar con lui che di mangiare. Dopo che si fu desinato, ebbe la sposa modo d’aver un tagliente coltello, deliberata ne l’animo suo di far un malo scherzo al marito. Si cenò secondo il consueto, e dopo cena si fecero di molti balli e poi s’andò a dormire. Aveva la indiavolata sposa nascoso il coltello sotto il capezzale del letto da la sua banda. Essendo il marito con lei corcato, prima le disse molte buone parole per indurla al suo volere: che stesse forte, che non le faria male nessuno, e simili altre ciancie, a le quali ella nulla rispondeva. Ma volendo poi piantare il piuolo, ella, preso il coltello, diede sí fatta ferita in quelle parti al povero e sfortunato marito, che oltra che gli tagliò quasi via tutto il mescolo, gli fece anco una profonda piaga nel ventre, di modo che egli gridava quanto piú poteva. Levati al romore quelli di casa ed entrati dentro la camera con candele accese, trovarono il meschino che, nel suo sangue involto, spasimato se ne moriva, di maniera tale che in meno d’un’ora morí. Il romore fu grande, e la sposa con un viso rigido altro non diceva se non che il marito la voleva ancidere. Fu da quei di casa tenuta sotto buona custodia e la matina messa in mano de la giustizia, la quale quella, udita la sua confessione, condannò ad esserle mózzo il capo. Il re Enrico ottavo, intesa la cosa come era seguíta, rimise il giudizio a la reina e a le dame de la corte. Elle, fatti sovra ciò lunghi discorsi, mosse a pietá de la semplicitá d’Isabetta, la assolsero, conoscendo per la morte di lei non poter tornar la vita a Tomaso; il che fu dal re approvato. Altri vogliono questo accidente esser avvenuto a Roano, cittá primaria di Normandia, e fu de la medesima sorte di questo che ora v’ho narrato. Ma dei nomi del marito e de la donna non mi sovviene. Medesimamente sono in differenza questi che dicono esser il caso occorso a Roano, perché altri lo narrano fatto sotto il re Francesco, primo di questo nome, ed altri sotto il presente re Enrico secondo. Tutti però affermano il re dopo la condannagione del parlamento aver la sentenza commessa a le madame de la corte, e la micidiale esser stata assolta. Pigliate mò qual voi volete, ché in libertá vostra è di prenderne una che piú vi piaccia.


Il Bandello al molto gentile, vertuoso


ed onorato monsignor


Giovanni Gloriero tesoriero di Francia


Non fu mai dubio, monsignor mio onorato, appo gli uomini saggi che tutti i disordini che al mondo avvengano, dei quali tutto il dí infiniti ve ne veggiamo accadere, non nascano perciò che l’uomo si lascia vincere e soggiogare da le passioni e dagli appetiti disordinati. Onde da l’utile e piacere, che indi cavarne spera, accecato, gettatasi dopo le spalle la ragione, che di tutte l’azioni nostre deveria esser la regola, segue sfrenatamente il senso. Chi non sa che amore è cosa buona e santa, cui senza non si terrebbe il mondo in piedi? Ma chi da lascivo e falso amore si lascia irretire e quello a sciolta briglia séguita, non s’è egli veduto questo tale bruttarsi le mani nel sangue del suo rivale, e dai serpentini morsi de la velenosa gelosia ammorbato incrudelire col ferro ne la vita de la povera donna amata? Chi anco da l’ira sottometter si lascia, spesse volte dal furore de la còlera trasportato, a spargere il sangue umano e tôrre la fama a questi e a quelli pare che goda e che, usando crudeltá inusitata, trionfi. Ora se io vorrò discorrer per tutte le passioni che l’anima nostra conturbano e con mille taccherelle sforzano a far infiniti vituperosi effetti, mercé di noi stessi che non vogliamo con ragione governarci, io non ne verrei a capo in molti giorni, tanti e tali sono. Dirò pur una parola degli errori strabocchevoli che dal giuoco provengono, quando l’uomo, allettato dal piacere che prende di giocar il suo e quello degli altri, in tutto si dona al dannoso giuoco in preda. Presupponiamo per certo e fermo fondamento che qualunque persona al giuoco sí de le carte come dei dadi si dona, che a quello è congiunta l’ingorda cupidigia del guadagno, perché chi di giocar troppo si diletta è naturalmente avarissimo. Ed ancora che l’uomo giocatore sia consueto il piú de le volte a perdere, nondimeno tanto può la vana speranza di vincere, che egli tuttavia ritorna a giocare, sperando racquistar ciò che perduto aveva. Sovviemmi che essendo io in Mantova a ragionamento con il signor Giovanni di Gonzaga, ed essendogli detto che il signor Alessandro suo figliuolo s’aveva giocato e perduto cinquecento ducati, che subito egli mi disse: – E’ non mi duole punto, Bandello mio, dei danari da mio figliuolo perduti, ma duolmi che, per volergli ad ogni modo ricuperare, egli ne perderá degli altri pur assai. – Ne segue anco un altro non minor male: quando il giocatore ha perduto quattro e sei volte i danari che ha, e che il patrimonio piú non basta a mantenerlo sul giuoco, il misero che senza il giuoco non sa né vuol vivere, non avendo da sé il modo, affronta parenti ed amici e prende in presto quella somma di danari che può maggiore. Ma, perdendo e non avendo maniera di ristituire a chi deve, e tuttavia volendo pur stare sul giuoco, fa di quegli enormi misfatti che, oltra che lo rendono infame e odioso a tutti, a la fine lo conducono a vituperosissima morte. Onde saggiamente cantò il nostro mantovano Omero, quando nel terzo de la divina sua Eneide disse:


A che non sforzi i petti dei mortali,

essecrabile o fame d’aver oro?


Di questo ragionandosi a Pinaruolo in una buona compagnia per una questione seguíta tra dui giocatori soldati, il capitano Ghisi da Vinezia, uomo prode de la persona, dopo molte cose dette secondo il vario parere di chi ragionava, narrò un fiero accidente poco avanti a Vinezia avvenuto, il quale tutti riempí di meraviglia e stupore. Io alora, che presente ci era, lo scrissi, parendomi poter esser detto caso giovevole a molti per levargli dal giuoco. Ora che io faccio la scelta de le mie novelle per darle fuori, venutami questa a le mani, subito deliberai che sotto il vostro nome si leggesse, sí per l’antica domestichezza che ebbi giá in Milano con la buona memoria di monsignor Gian Stefano Gloriero, vostro onorato padre, ed altresí per farvi certo che sempre di voi sono stato ricordevole, dopo che un dí nel convento de le Grazie di Milano, in compagnia del dotto messer Stefano Negro, di messer Valtero Corbetta, uomo ne l’una e l’altra lingua erudito, (e se male non mi sovviene, credo ci fosse anco messer Antonio Tilesio), dei Commentari de le lezioni antiche di messer Celio Rodigino a lungo ragionammo. De la memoria che di voi tengo ve ne potrá far fede messer Giulio Calestano, non mai stracco predicatore de le vostre singolari doti, col quale tante volte ho di voi e de l’umanissima e cortesissima vostra natura e dei castigatissimi vostri costumi ragionato, raccontando quanto prudentemente e con inaudita costanza abbiate sofferto i fieri ed impetuosi soffiamenti de la contraria fortuna, la quale tanto vi s’è mostrata per lungo tempo nemica. Né solo eroicamente i suoi sbattimenti ed avversi colpi sofferto avete, il che a molti avviene, ma sí saggiamente vi sète saputo schermire con lo scudo de l’innocenzia contra i suoi velenosi dardi, che a la fine ogni suo impeto ed ogni sua rabbiosa furia ammorzato avete. Degnatevi dunque questo mio picciolissimo dono accettare con quella serena fronte che gli amici vostri veder solete. E che altro vi posso io dare, se non vi dono qualche mio incolto scritto? Feliciti nostro signor Iddio ogni vostro disio. State sano.