Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LIX

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Terza parte
Novella LIX

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Il conte Filippo trova la moglie in adulterio,


e quella fa morire insieme con l’adultero ed una camerera.


Un eccellentissimo capitano, essendo ne lo stato di Milano di grandissima riputazione per le cose militari, diede una sua figliuola, che aveva nome Isabetta, per moglie ad un conte Filippo, che era signor di castella. Ella era bellissima giovane e di persona molto grande, ma baldanzosa molto e tutta pieghevole a’ prieghi d’altrui, di modo che poca fede serbava al conte suo marito, perciò che ogni volta che le era comodo, per non logorare quello di casa, si provedeva di fuori via. Ebbe un figliuolo del marito, che si chiamò il conte Bartolomeo. Poi, facendo ogni dí qualche cosetta de la persona sua, e non sapendo far le cose sue cosí secrete che molti non se n’avvedessero, cominciò forte a dubitare che il marito un dí non si vendicasse di tutte l’offese che ella fatte gli aveva. Ed entrata in questo dubio, pensò esser la prima che menasse le mani, e deliberò levarsi per via di veleno il marito fuor degli occhi, sperando restar libera e governatrice del picciolo figliuolo. Avuto, non so come, il modo d’avere certi veleni, quelli diede in una bevanda al marito, il quale gravissimamente infermò. I medici chiamati a la cura sua si accorsero molto bene che il mal suo era di veleno, e fatto subitamente tutti quei rimedii che loro parvero a proposito, aiutarono di modo il conte che lo liberarono dal periglio del morire; tuttavia restò egli sempre alquanto cagionevole de la persona. La moglie in questa infermitá del marito si mostrava d’esser la piú grama e dolente moglie che mai si fosse veduta, e dal letto del marito mai non si partiva, piangendo sempre; di modo che il conte, che de l’onestá di quella aveva avuto qualche sospetto, venne in credenza d’aver la piú amorevole e pudica donna che a’ suoi tempi fosse. Ella, dolente oltra modo che il suo disegno non le era riuscito, né piú del veleno, come poi si seppe, potendo avere, e veggendo il conte male de la persona disposto, non volendo perder il tempo indarno ed avendo gettati gli occhi adosso ad un Antonio da Casalmaggiore, che era arciere del marito, di quello fieramente s’innamorò, e lasciati tutti gli altri innamoramenti, a questo solo dispose d’attendere. Era Antonio non molto grande di corpo, di pel rosso e gagliardo pur assai e di viso lieto e bello. Questo, di leggero de l’amore de la contessa avvedutosi, non ischifò punto la impresa, di modo che piú e piú volte in diversi luoghi e tempi si trovò a giacersi con lei amorosamente. Ora, usando meno che avvedutamente questa lor pratica, fu qualcuno di casa che ne avvertí il conte; il quale, aperti gli occhi e poste de le spie a torno a la moglie e a l’arciero, venne in chiara cognizione de la disonesta vita di quella. Stette in pensiero il conte di fargli ammazzare tutti dui e trargli in un chiassetto, ché mai piú non se ne sentisse né nuova né ambasciata. Ma per meglio chiarirsi del tutto e trovar la gallina col gallo su l’ovo, e poi far quanto piú a proposito gli fosse paruto, disse un dí a la moglie: – Contessa, a me conviene esser a Milano per parlar col signor duca, e penso che mi converrá star fuori piú che forse non credo. Averai buona cura de le cose di casa fin che io ritorno. – E chiamato il castellano, gli ordinò che a la contessa fosse ubidiente fin che da Milano fosse ritornato. Fatto poi la scielta di quelli che voleva che seco a Milano andassero, volle che Antonio da Casalemaggiore fosse di quelli che a la guardia de la ròcca, che aveva, restasse. Il che agli amanti fu di grandissima contentezza, sperando, in quel mezzo che il conte starebbe fuora di casa, aver il tempo e la comoditá a lor bell’agio di godersi insieme amorosamente quanto loro fosse piacciuto. Ma, come dice il proverbio, «una ne pensa il ghiotto e l’altra il tavernaro». Era del mese di maggio, nel principio. Ora il conte, fatto metter ad ordine il tutto, e di giá informato il suo castellano di quanto voleva che si facesse, un dí, dopo che si fu desinato, montò a cavallo e prese il camino verso Milano. Non era a pena il conte partito, che la contessa, chiamato a sé il suo amante, gli disse: – Anima mia, noi averemo pur ora la piú bella comoditá del mondo di poter esser insieme senza rispetto, e di notte e di giorno. Il conte, come vedi, è partito, e a la presenza mia ha comandato al castellano che, fin che egli se ne torni, mi sia quanto a la persona sua ubidiente. Il povero castellano è oramai vecchio, e credo che mal volentieri vada la notte in qua e in lá visitando le guardie. Io gli dirò che si riposi e che di questo lasci a te la cura, ché tu le rivisiterai quando sará il tempo. – E secondo che a l’amante ella aveva detto, cosí, chiamato il castellano, gli disse: – Castellano, poi che il conte è partito e che stará qualche dí fuori, io vo’ che noi abbiamo buona cura di questa sua ròcca e de l’altre nostre cose, e che sovra il tutto le guardie la notte siano spesse fiate riviste e messovi buona diligenza, ché, ancora ch’io non creda che ci sia pericolo, tuttavia si suole communemente dire che «buona guardia vieta rea ventura». Ed oltra ogni cosa, io so che al conte faremo piacer grandissimo quando intenderá che, mentre egli sia lontano, noi siamo stati solleciti e diligenti guardatori de le cose sue. Ma perché voi sète pur vecchio, e l’andar a torno la notte non è troppo sano, io mi credo che sará ben fatto che voi diciate una parola a messer Antonio da Casalmaggiore, che in questi pochi dí prenda questa fatica per voi di visitar le guardie. Io porto ferma openione che egli lo fará volentieri per amor vostro. – Il castellano, che giá era stato dal conte instrutto, molto bene s’avvide a che fine la contessa queste cose diceva, e le rispose: – Signora, io farò tanto, in questa e in ogn’altra cosa, quanto sará vostro piacere di comandarmi. Ma egli sará ben fatto che voi gliene diciate una parola. E basterá che attenda di sopra e lasci a me la cura del ponte. – Come la donna l’aveva divisato, cosí si fece; di che l’amante si tenne molto contento. Ora come fu la notte, parve un’ora mille anni a la donna d’aver seco l’arciero, per vedere chi saperia meglio tirare. Il conte cavalcò di tal maniera che, quando tempo gli parve, fece rivoltare le briglie senza aprir a nessuno la sua intenzione. Come fu giunto a la ròcca, andò chetamente a dismontar al palazzo che di fuori aveva, e comandò che nessuno quindi si partisse per quanto avevano cara la grazia sua. Dopoi, chiamati tre dei suoi piú fidati, con quelli, essendo tutti quattro di corazzine, celate e spade armati, se ne venne verso la porta de la ròcca e diede il segno che al castellano ordinato aveva. Era buona pezza che il castellano aveva veduto entrar l’arciero ne la camera de la signora contessa, e s’era ridutto di sotto, aspettando il suo signore; onde, sentito il segno, senza far strepito alcuno calò la ponticella de la pianchetta e introdusse il conte con i tre compagni. Il conte alora a quei tre, con meraviglia grande di loro, aperse l’animo suo e di lungo se n’andò a la camera, la quale, con la chiave che aveva, aperse, e trovò il suo arciero che tirava al segno senza veder lume. Aveva il castellano recato seco del lume; il perché l’arciero subito, cosí ignudo come era, fu preso e legato. La donna medesimamente, piú morta che viva, fu fatta levare; a la quale il conte altro non disse se non che s’apparecchiasse a dir tutti i tradimenti che fatti gli aveva. Ma per non far lunga dimora in queste cose cosí noiose, fu quella medesima notte l’arciero strangolato. A la donna fece il conte cavar i denti ad uno ad uno con la maggior pena del mondo; la quale confessò del veleno che al marito dato avea, e che a molti, i quali nomò, s’era amorosamente sottoposta, che di mente mi sono usciti. Disse anco come il primo figliuolo, il conte Bartolomeo, era legitimo e figliuolo d’esso conte Filippo. Intesa la confessione de la moglie, quella tenne alcuni dí in prigione in pane ed acqua. Ciò che poi ne divenisse, non si sa; ma si tiene che non dopo molto la facesse, messa in un sacco, macerare in Po, con un gran sasso al sacco legato; come medesimamente si dice che aveva fatto d’una cameriera de la contessa, che in camera di lei dormiva e sempre degli amori di quella era stata consapevole.


Il Bandello al signor conte Lorenzo Strozzi


Essendo voi ambasciatore del signor duca Alfonso di Ferrara in Milano appresso al duca Massimigliano Sforza, di questo nome primo, solevate assai sovente ritrovarvi in compagnia a casa del signor Alessandro Bentivoglio vostro zio, ove io altresí il piú de le volte era. Quivi sempre si ragionava di varie cose, ma per lo piú piacevoli e da tener lieta la brigata, essendo il signor Alessandro di natura sua lieto e festevole, e che la perdita del dominio paterno molto costantemente sopportava. Ora, stando noi di brigata un dí, sovravenne il signor Azzo Vesconte, il quale, come fu giunto, disse: – Signori miei, io vi reco una gran nuova; non so mò se cosí parrá a voi. Un mio parente del sangue nostro Vesconte ha sposato la figliuola d’un beccaio, con dodici mila scudi di dote numerati a la mano, tutti in oro. Io era invitato a le nozze e non ci sono voluto andare; e venendo in qua e passando da San Giacomo, ho veduto suo suocero, che con la guarnaccia indosso bianca, come è costume dei nostri beccari, svenava un vitello, essendo insanguinato fin al cubito. Non vi par egli gran nuova che un gentiluomo, e de la casa Vesconte, abbia voluto imparentarsi con uno che faccia il macello? Io per me non mi vi so accordare, e se simil femina avessi per moglie, mi paria che sempre putisse di beccaio e credo che mai non osarei alzar il capo. – Ridemmo tutti del faceto detto del signor Azzo, quando messer Pietro Crescente, astrologo del nostro signor Alessandro, disse: – Signor Azzo, cotesto vostro parente, certo, se volete dir il vero, deveva esser piú mio parente assai che vostro, cioè intendetemi sanamente, deveva esser molto povero. Dodici mila scudi farebbero ridere il piú grandissimo malinconico che si truovi. Fa il vostro parente pensiero tra sé che egli è nobilissimo e che la nobiltá de l’uomo non mai dipende da la donna, ma l’uomo è quello che fa nobilissima la donna; di modo che questa vostra parente non è oggi piú beccaia ma è nobilissima, e per tale la devete voi tenere. Né questo atto è cosa nuova. Il nostro messer Galeazzo Calvo, sovranominato Marescotto, s’innamorò d’una ortolana, e la prese per moglie e n’ebbe figliuoli di grandissima stima, che tutti furono, con i figliuoli loro, sono e saranno Marescotti e non ortolani. – Alora messer Girolamo Cittadino: – Cotesti, – disse, – non sono miracoli. Io credo che i signori conti Borromei siano nobili e dei ricchi feudatari de lo stato di Milano. Nondimeno il conte Lodovico a’ nostri dí non s’è sdegnato di pigliar per moglie una figliuola d’un fornaio, e tuttavia i figliuoli suoi non sono in conto alcuno meno nobili che si siano quelli del conte Lancilotto suo fratello, che prese per moglie una sorella del signor Antoniotto Adorno duce di Genova. Non si dice anco che uno dei marchesi di Saluzzo prese una villanella per sua donna, e i figliuoli che nacquero non restarono per questo che non fossero marchesi? Sí che se il Vesconte ha preso costei, l’ha fatto per bisogno del denaro. Io ho sentito dire piú volte al signor conte Andrea Mandello di Caorsi che, come una donna passa quattro mila ducati di dote, che si può senza dubio sposare, se bene fosse di quelle che dánno per prezzo il corpo loro a vettura lá, di dietro al duomo di Milano. Credetelo a me, che oggidí, chi ha danari pur assai, è nobile, e chi è povero è riputato ignobile. Io veggio quel povero vecchio, il Vescontino, che è pure uscito del vero ceppo dei Vesconti, e nondimeno, perché è povero e va con duo secchi in collo vendendo olio per la cittá, è tenuto vile e non n’è fatta stima, come sarebbe se egli fosse ricco. – E cosí ragionandosi variamente di questo caso, io mi ricordo che voi diceste che anco in Ferrara il conte Ercole Bevilacqua s’era innamorato d’una donzella de la signora Diana, generata di vilissimo sangue, e nondimeno come moglie di gentiluomo e conte era per Ferrara tenuta ed onorata. Ed insomma cose assai si dissero, e che essendo il matrimonio libero e tutti noi discesi dal primo parente Adamo, l’uomo deverebbe poter tòrre chi piú gli aggrada; e medesimamente la donna si deveria poter maritare quando e con chi le piace. Il tutto perciò si disse per via di ragionamento, lasciando poi le decisioni di queste questioni a quei dottori che di simil dubii sanno con le leggi in mano giudicare. Ora non è molto, capitando un mercadante fiorentino in casa di vostra cugina la signora Gostanza Ragona e Fregosa, e a caso di simil materia ragionandosi, disse che in Inghilterra, come la donna è stata una volta maritata, ne le seconde nozze ella può prender marito chi piú le aggrada, ancora che ella fosse di sangue reale e pigliasse per marito il piú privato uomo de l’isola. Onde messer Libero Mantile, – ché cosí il mercadante si noma, – ci narrò a questo proposito una pietosa novelletta, che alora io scrissi. E volendola porre insieme con l’altre mie, l’ho coronata del vostro nome, a ciò sia eternamente testimonio de l’amicizia nostra; e cosí ve la mando e dono. In quella, signor mio, vederete, oltra la consuetudine del maritarsi, la costanza di dui sfortunati amanti, che insieme s’erano sposati marito e moglie, e vi parrá ben altro che l’amore di quel vostro amico, che gittò la berretta nel fango e quella affollò. State sano.