Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LVIII

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Terza parte
Novella LVIII

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Ritrovato in letto con una vedova, un gentiluomo, quella sposa per moglie,


e morto che fu, ella d’uno s’innamora, e da quello lasciata, si fa monaca.


Ne la cittá di Ferrara, mia nobile patria, fu giá non è molto un gentiluomo chiamato Lancilotto Costabile, il quale prese per moglie una gentildonna e riebbe un figliolo; e non dopo molto, lasciando la moglie ed il figliuolo sotto il governo d’un suo fratello, che era uomo di gran maneggio, si morí. Il fratello di Lancilotto, conoscendo la cognata esser molto proclive ad amore e che mal volentieri stava senza compagnia d’uomini, pigliata l’oportunitá, cominciò con bel modo ad essortarla che essendo troppo giovane si volesse maritare, e che egli s’affaticarebbe in trovarle il marito al grado di lei convenevole. La donna, che voglia non aveva di prender marito, ma viver libera ed oggi mettersi a la strada e dimane far un altro effetto, non la voleva intendere, ritrovando certe sue scuse di poca valuta. Il cognato, dubitando di ciò che era, cominciò con maggior diligenza a spiare tutte le azioni de la donna, e in breve s’accorse per che cagione ella non si curava di marito, avendo uno che suppliva in vece di quello. Il perché, multiplicate le spie, conobbe che il canevaro di casa teneva mano a la cognata e, tutte le notti che a lei piaceva, introduceva in casa Tigrino Turco, gentiluomo di Ferrara, del quale ella era innamorata, ed egli di lei. Certificato che fu di questo, tenne modo col canevaro, parte minacciandolo e parte con buone parole promettendoli di molte cose, che il canevaro restò contento d’avvisarlo la prima volta che la donna ricevesse Tigrino in camera. Onde essendo una notte gli amanti insieme ed amorosamente trastullandosi, il canevaro, non volendo mancare di quanto aveva promesso, poi che ebbe l’amante introdutto in camera, se n’andò ad avvisar il cognato; il quale, essendosi di giá provisto con alcuni uomini da bene, andò a la camera de la cognata e, quella pianamente con chiavi contrafatte aperta, trovò i dui amanti, stracchi del giocare a le braccia, ignudi dormire. Aveva egli recato alcuni torchi accesi in camera, e quelli che seco erano avevano le spade ignude in mano. Si risvegliò Tigrino e, veggendo il cognato de la donna di quel modo provisto, si tenne morto e non sapeva che dire. Alora il cognato de la donna gli disse: – Tigrino, questa dislealtá e sceleratezza che tu in casa mia a disonor mio e di mio nipote hai usata, non è giá meritata da noi. Ma a ciò che ad un tratto questa macchia da noi si levi, tu farai bene e sodisfarai a tutti di far cosí: che sí come questa notte mia cognata è stata tua, ella anco per l’avvenire sia, fin che viverete; che sará, se tu a la presenza di questi uomini da bene la sposi. Altrimenti tu non andarai per fatti tuoi. – Tigrino conobbe che costoro non gli volevano far violenza, a ciò che, sposando la donna, il matrimonio fosse vero, e per questo era quivi il notaio con testimonii, che non avevano arme. Il cognato anco era disarmato. Pensò poi che se egli non la sposava, di leggero, essendo egli ignudo e solo, che da quelli armati sarebbe stato ammazzato. Il perché, tirato anco da l’amore che a la donna portava, la quale piangendo e dubitando anco ella de la vita lo pregava a far questo, quella a la presenza di tutti sposò, e in letto con la donna rimanendo, il suo terreno e non l’altrui ritornò a lavorare. Fatto questo, dopo qualche dí essendosi il matrimonio per tutta Ferrara divolgato e Tigrino avendo la moglie a casa menata, con quella godendo i suoi amori, lieta vita menava. Ma non troppo vissero in questa contentezza, ché Tigrino, morendo, passò a l’altra vita. Rimasi la donna la seconda volta vedova, e tuttavia desiderando d’aver qualche persona che le tenesse compagnia, avendo perciò sempre téma del cognato, che era in Ferrara uomo d’autoritá e di molta stima, tanto non si puoté contenere né tanto aver rispetto al cognato, che ella s’innamorò d’un giovine di bassa condizione. Ed avuto il modo di fargli intender l’amore che ella gli portava, vennero in breve a godersi insieme e qualche dí perseverarono godendo gioiosamente questi lor amori. Ma ella, che sempre averebbe voluto star sui piaceri, usando poco discretamente questa sua comoditá, fece di modo che per tutta Ferrara la pratica si divolgò, di tal maniera che senza rispetto veruno se ne parlava per le spezierie e ne le botteghe dei barbieri. Ella, essendo certificata che il cognato lo sapeva e che il suo amante per téma di quello non le voleva piú dar orecchie né venir ove ella si fosse, disperata e dolente oltra modo, fece tutto ciò che seppe e puoté per riaver l’amante; ma il tutto fu indarno. Il perché, poi che si vide esser totalmente frustrata del suo desiderio, e da l’altra parte considerando che per Ferrara era mostra a dito, e che in tutto aveva l’onore suo perduto, – non so da che spirito spirata fosse, ma si può presumere che da buono e santo, – tenne pratica con le monache di Santo Antonio in Ferrara e lá dentro monaca si fece; ed anco oggidí vi dimora, e, con la vita che adesso fa, emenda gli errori passati, vivendo come si deve da le religiose donne vivere, perciò che assai meglio è pentirsi una volta che non mai.


Il Bandello a la illustre eroina


la signora Veronica Gambara di Correggio


Avvenne nel tempo de l’infelice Ludovico Sforza, duca di Milano, in una cittá del suo dominio, che una gentildonna di gran parentado si conobbe esser vicina al morire; e, sapendo che i medici per disperata avevano la cura di lei, fece chiamar a sé dui frati osservanti di san Domenico, dei quali l’attempato era quello a cui ella era solita confessar i sui peccati, e gli disse: – Padri miei, io conosco manifestamente che piú poco di vita m’avanza e che in breve anderò in altra parte a render conto come io di qua mi sia vivuta. E per fare dal canto mio ciò ch’io posso per scarico de l’anima mia, vi dico, affermo e confesso come il tale dei miei figliuoli, – e quello nomò, – non è figliuolo di mio marito, ma d’un mio amante, essendo mio marito fuor de la cittá, al quale diedi ad intendere, quando rivenne, che il figliuolo era nasciuto di sette mesi. Come io sia morta, congregate i miei figliuoli e a loro questa mia ultima confessione a mio nome manifestate. – E fatto chiamare il notaio che il suo testamento aveva scritto, gli disse: – Notaio, farai intender a’ miei figliuoli che di quanto dopo la morte mia gli diranno questi dui frati, credano loro e diangli quella fede che a me propria fariano. – Si morí la donna e dopo alcuni dí, finiti tutti gli ufficii, i dui frati fecero un dí congregar i fratelli, ch’erano piú di tre, ai quali, dopo che il notaio ebbe fatta l’ambasciata de la madre, essendo uscito fuori, cosí il frate vecchio disse: – Figliuoli miei, vostra madre, vicina a la morte, al mio compagno che è qui e a me lasciò che vi dicessimo come un di voi fratelli non è legittimo, né figliuolo di quel padre che vi credete. Se tutti vi contentate che egli resti erede de la roba di vostro padre, noi non ne diremo mai piú parola. Quando che no, noi siamo sforzati a nominarlovi per nome proprio. Fate mò voi. – I fratelli, sbigottiti a tali parole, si guardavano l’un l’altro in viso. A la fine uno di loro, che era dottore, cosí disse: – Fratelli miei, voi avete inteso il padre nostro ciò che ci dice. Se a me toccherá esser bastardo, ch’io non lo so, prima per via di ragione difenderò i casi miei e vorrò esser cosí buono ne l’ereditá come voi, non volendo ora aver la conscienza cosí sottile. E quando io fossi ben privato de la ereditá, non ho paura che mi manchi da viver onoratamente. E di giá voi potete vedere la riputazione ne la quale io sono, e i guadagni che vengono in casa per mio mezzo. Ma sia come si voglia e tocchi la sorte a chi Dio la manderá. Volendo noi che il padre riveli il nome di quello che nostra madre dice, dui mali effetti ne seguiranno, i quali noi debbiamo a tutto nostro potere schifare e fuggire. Il primo è che noi entraremo sul piatire e vi consumeremo l’avere e la vita, e Dio sa come l’anderá; l’altro non minor fallo è che noi metteremo l’onor de la nostra madre sul tavoliero, e dove fin qui ella è stata tenuta donna da bene, noi saremo cagione che per trista e disonesta femina fia creduta. E certamente debbiamo a questo metterci benissimo mente. La ereditá, che ci ha lasciata nostro padre, è la Dio mercé assai bastante per tutti noi ed anco per dui altri fratelli di piú, quando ci fossero, se vogliamo onoratamente e da nostri pari vivere. Io per me mi contento, per discarico de l’anima di nostra madre, che tutti noi restiamo fratelli come fin a qui siamo stati, e che a patto nessuno il padre non sia astretto a nominar nessuno. V’ho dette il parer ed openion mia: fate mò voi ciò che piú v’aggrada. – Udito il savio e prudente ragionare del dottore, gli altri fratelli, dopo molte cose tra loro tenzionate, si risolsero che egli ottimamente aveva discorso, e che il suo parere si deveva seguire. E tutti poi pregarono i frati che mai di cotesta materia non facessero motto. I frati, veduta la buona resoluzione che i fratelli presa avevano, gli commendarono sommamente, assicurandogli che mai da la bocca loro non uscirebbe parola per la quale si potesse venire in cognizione di questo fatto. Ora, essendo questa cosa, cosí senza nome di nessuno, in Verona narrata in casa del signor Cesare Fregoso mio signore, vi si ritrovò il signor Pietro Fregoso di Nevi, vostro cugino, il quale, sentendo questa novella, disse: – Io n’ho ben una per le mani in qualche parte a questa simile, e dicendola non vi tacerò i nomi, essendo la cosa ai giorni miei accaduta ed assai divolgata. – Pregato che, poi che altro non ci era da dire, che la volesse narrare, senza farsi piú pregare, disse una istorietta, la quale a me parve degna d’essere scritta e al numero de l’altre mie novelle aggregata. Pensando poi a cui io la devessi donare, voi mi occorreste degna di lei, e di molto piú onorato dono, per le vostre singolari doti che, vinta l’invidia, cosí viva come sète, v’hanno fatta immortale, essendo anche voi di tal valore che potete fare, chi volete, eternamente vivere. Verrò anco con questa mia istoria a pagar in parte gli onori da voi alcuna volta a Correggio in casa vostra ricevuti. E per molti rispetti m’è paruto non metter i nomi proprii, ancor che il signor Pietro gli dicesse, ma prevalermi d’alcuni finti. State sana.