Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXV

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Terza parte
Novella XXV

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Gian Maria Vesconte, secondo duca di Milano,


fa interrare un parrochiano vivo, che non voleva seppellire


un suo popolano se non era da la moglie di quello pagato.


Soleva mio avo, quando io era fanciullo, narrare molte di quelle crudeltá che Giovan Maria Vesconte, secondo di quella nobilissima schiatta fu duca di Milano, usava contra i suoi sudditi, perciò che per ogni picciola offensione faceva ed uomini e fanciulli smembrare e manicare a certi cani, che solamente per simil crudeltá nodriva. Ma io non vo’ ora venire a particolari effetti, ché sarebbe troppo lunga e crudele tragedia da narrare. Vi vo’ ben dire un fiero e agro castigo che egli diede ad un religioso prete. Dicovi adunque che, cavalcando esso duca per Milano, s’abbatté a passare per una via, ove in una picciola casetta sentí un gran lamento, con un pietoso lacrimare che quivi entro si faceva, con batter di mani ed alte strida, come talora soglion fare le donne mezze disperate. Udendo il duca cosí fatto ululare, comandò ad uno dei suoi staffieri che in casa entrasse e intendesse la cagione di cosí fiero pianto. Andò lo staffiero e non dopo molto a l’aspettante duca ritornò e sí gli disse: – Signore, qua dentro è una povera femina con alcuni figliuoli, che piange amarissimamente un suo marito che ha dinanzi morto, e dice che il parrocchiano non lo vuol sepellire se non lo paga, ma che ella non ha un patacco da dargli. – Il duca, come sentí questa cosí disonesta avarizia, sorridendo disse a quelli che seco cavalcavano: – Veramente questo messer lo prete é un poco troppo avaro. Bisogna che noi facciamo questa opera di caritá, di far sepellire questo povero morto e appresso fare elemosina a la lacrimante sua moglie. – E rispondendo tutti quei cortigiani che faria molto bene, egli mandò a chiamare il parrocchiano, il quale, udito il comandamento del duca, subito venne. Il duca, che lo vide ben vestito e molto grasso, giudicò che fosse un prete di buon tempo, che andasse fuggendo le fatiche e che volesse mangiare di buoni e grassi capponi e bevesse de la meglior vernaccia che si trovasse in Milano. Come messer lo prete fu dinanzi al duca, riverentemente gli domandò ciò che gli comandava. – Noi vogliamo, – rispose egli, – che voi debbiate dar sepoltura a quel povero uomo che lá entro giace morto, e noi vi faremo dare il conveniente premio che meritate. – Il prete rispose di farlo, e se n’andò incontinente a la chiesa, che era ivi vicina, e con alquanti preti e chierici suoi si vestí con la cotta e la stuola, e levò il corpo e lo fece portare a la chiesa, cantando piú solennemente che si poteva, per mostrarsi ben saccente e gran musico, veggendo che il duca, smontato, a piedi con tutta la corte accompagnava il morto. Mentre che l’essequie si celebravano, aveva ordinato il duca ad uno dei suoi che comandasse ai beccamorti che facessero nel cimitero una piú profonda fossa che vi si potesse fare; il che fu in poco d’ora fatto. Stette il duca continovamente ne la chiesa fin che l’essequie si fornirono, le quali, come sapete, con salmi, evangeli, e letanie a l’ambrosiana, sono molto piú lunghe che non sono i mortuarii a la romana. E messer lo prete le faceva, per onorar il duca, molto piú solenni del solito. Fatto portare dopoi il corpo fuor di chiesa, e cantatovi sopra ciò che si costuma, volendo i beccamorti metter il cadavere ne la fossa, il duca, fattosi innanzi, gli fece fermare e gli comandò che pigliassero il parrocchiano ed insieme col corpo del morto strettamente lo legassero e mettessero dentro la sepoltura. Era la crudeltá del duca appo grandi e piccioli cosí chiara che ciascuno lo temeva come il morbo; onde, come gli sbigottiti preti e chierici videro il loro parrocchiano esser preso, senza aspettar altro, gittata per terra la croce con l’aspersorio ed acqua santa, quanto le gambe ne li poterono portare andarono via, parendo loro tratto tratto che i beccamorti gli devessero prendere e sotterrargli insieme col morto. Lo sciagurato ed avaro parrocchiano, gridando tuttavia mercé, fu per comandamento del duca messo ne la fossa e coperto incontinente di terra. Il perché, essendo la buca molta alta e il peso de la terra che a dosso gli fu gettata assai greve, si può credere che il povero prete subito si soffocasse. Come il duca vide la fossa esser piena, comandò ad uno dei suoi che andasse a casa del prete, e che quanto in casa si trovava da vivere e tutte le cose mobili che v’erano fossero date in dono alla povera vedova e suoi figliuoli. Il che fu integralmente esequito, con tanto terrore di tutta la chiesa di Milano, che per parecchi dí non vi fu prete che due volte da popolani si facesse richiedere. Ed ancora che cosí fatto castigo fosse nel vero troppo barbaro e crudele, fu nondimeno cagione che molti preti comendarono la loro discorretta vita. Pertanto, come v’ho detto, saria talora buono usare degli straordinari rimedii. Io mi fo a credere che gli avi nostri, che in Milano hanno fondato le cento parrocchie che vi sono, oltra altre tante badie, chiese, monasteri di frati e monache che molti si veggiono in questa cittá, e gli hanno arricchiti di rendite e possessioni, l’abbiano fatto perché i frati, i preti ed altre persone religiose possano vivere ed officiare le chiese, e ai poveri ministrare i sagramenti senza premio.


Il Bandello al magnifico messer


Gian Giacomo Gallarate


Vero esser si truova quasi ordinariamente quell’antico proverbio che dire tutto ’l dí si suole: che «la troppa familiaritá partorisce disprezzamento»; ed è sovente cagione che il minore non porta la debita riverenza al suo superiore che deverebbe, anzi con una prosuntuosa e temeraria confidenza casca talora in gravissimi errori. Per questo deverebbero coloro che altrui governano non si far tanto privati e domestichi con i suoi soggetti, che gli dessero occasione di tenergli in poco conto e presumere di fare de le sconce e mal fatte cose. Ed altresí denno i servidori, quando si conoscono esser dai padroni amati, governarsi prudentemente e sempre piú umili diventare, pigliando de la dimestichezza dei superiori meno ardire che sia possibile. Si parlava di questa materia in casa de la gentilissima e dotta signora Cecilia Gallerana, contessa Bergamina, e varie cose si dicevano, quando messer Gian Angelo Vismaro, che lá si trovò in compagnia di molti gentiluomini, disse: – Signora mia e voi altri signori, egli non accade molto a questionare sovra la proposta materia, né volersi affaticare che la troppa familiaritá partorisca disprezzamento verso il padrone, avendo l’essempio innanzi gli occhi che di questo ci fará piena fede. – E qui narrò ciò che una volta fece il capitano Biagino Crivello. E perché l’atto mi parve molto strano, io lo descrissi a ciò che la memoria non se ne perdesse, perciò che da le buone cose che si scrivono si piglia buono essempio, e da le male e triste azioni si cava che l’uomo le aborre e si guarda di cascare in simili errori. Avendo adunque scritto quanto il Vismaro narrò, ho voluto che sotto il nome vostro da la posteritá si legga, se perciò le cose mie potranno tanto durare. Ma io con questa intenzione pure le scrivo, avvengane mò ciò che si voglia. E per non vi tener piú verrò a l’effetto. State sano.