Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXVI

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Terza parte
Novella XXVI

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Il capitano Biagino Crivello ammazza nel monte di Brianza


un prete per aver il beneficio per un suo parente.


Non è qui, signora contessa e voi cortesi gentiluomini, persona che non conosca il capitano Biagino Crivello, il quale, come potete sapere, essendo stato uomo molto prode de la persona sua, e mentre che il duca di Milano Lodovico Sforza stette in stato, sempre onoratamente vivuto su le guerre con onorevoli condutte, ora ad altro non attende che a viver quetissimamente e visitar tutto il dí quante chiese sono in Milano, dandosi in tutto e per tutto a la salute de l’anima. Era egli in grandissimo credito appo il detto duca Lodovico, divenuto tanto suo domestico e familiare, che non suo soggetto ma suo fratello pareva. Egli era d’oneste ricchezze dotato, e non gli essendo da la moglie, che morta gli era, rimasto se non una sola figliuola, non si curò mai troppo, non volendo prender piú moglie, accumular possessioni, e tutto ciò che del soldo guadagnava, essendo general capitano di tutti i balestrieri ducali, spendeva in far buona cera ai buon compagni. Medesimamente ciò che il duca largamente gli donava, tutto distribuiva in farsi onore. Ora sapete che la schiatta dei Crivelli in Milano e per lo contado è innoverabile, e che ce ne sono di poveri assai, come ne le gran famiglie spesso avviene. Era dunque un giovine in questa famiglia assai letterato, il quale volentieri si sarebbe fatto prete se avesse avuto il modo di poter avere qualche beneficio. Questo, cadutogli in mente che il capitano Biagino sarebbe ottimo mezzo quando volesse aiutarlo, e conoscendolo molto amorevole ed umano, venne a trovarlo e gli narrò l’intenzion sua. Il che intendendo, il buon capitano, come colui che a tutti averebbe voluto far bene, e tanto piú a quelli del suo parentado, gli promise largamente che ne parlarebbe col duca, e farebbe ogni cosa per fargli aver l’intento suo. E per non dar indugio a la cosa, andò quel dí medesimo a parlar con messer Giacomo Antiquario, segretario del duca, e di tutto il ducato sovra i beneficii ecclesiastici iconomo generale. Era l’Antiquario uomo di buonissime lettere e di vita integerrima e appo tutti per i castigatissimi costumi in grandissima stimazione. Udita che ebbe esso Antiquario l’intenzione di Biagino, sapendo quanto il duca l’amava, gli disse: – Capitano, io non so che adesso ci sia beneficio alcuno vacante, ché quando ci fosse, io senza dubio lo saperei per l’ufficio che ho. Ma a me pare che voi debbiate parlare col signor duca e fare che egli ve ne prometta uno dei primi vacanti. Ma non vi perdete tempo, perché il duca ne ha promessi molti. – Il capitano, ringraziato cortesemente l’Antiquario, pigliò l’opportunitá e ne parlò col duca; il quale, udendo questa domanda, diede buone parole per risposta, commettendogli che stesse vigilante per intender se prete alcuno benefiziato morisse, e glielo facesse sapere. Avuta questa risposta, il capitano attendeva pure che qualche prete andasse in paradiso. E stando in questa aspettativa, avvenne che morí un arciprete in Lomelina, ne le castella del conte Antonio Crivello. Del che il capitano subito fu avvertito, e se n’andò a domandare questo beneficio al duca; il quale, sentendo la morte de l’arciprete, e avendo voglia di far conferire quello arcipresbiterato ad un altro, disse: – Capitan Biasino, perdonateci se ora non vi compiaciamo, perché non è mezz’ora che siamo stati astretti prometterlo a un altro. – Credette il capitano Biasino che il fatto stesse cosí, e si strinse ne le spalle, aspettando un’altra occasione. Né guari dimorò che un altro prete morí; e cercando aver il beneficio, ebbe dal duca la medesima risposta. Per questo non restò il capitano, né si sgomentò o perdettesi d’animo. Ora, vacando molti altri benefici, e sempre scusandosi il duca che di giá gli aveva donati, cominciò il capitano Biagino ad avvedersi che il duca si burlava di lui, e gli disse: – Signore, a quello che io veggio, voi vi beffate di me. Ma, al corpo di santo Ambrogio, mi farete far le pazzie. Datemi un beneficio e non mi straziate piú. – Il duca ridendo gli diceva che ben farebbe. Ora il fatto andò pur cosí: che come vacava qualche prebenda e che Biagino la chiedeva, diceva sempre il duca che era data via. Su queste berte adiratosi il capitano, disse fra sé: – In fé di Dio che io ne farò una che si terrá al badile. – Avvenne in quei dí che essendo in monte di Brianza, ne la terra di Merate, vide un prete decrepito, il quale aveva in quei luoghi un buon beneficio. Onde il capitano, senza pensarvi troppo su, l’ammazzò e se ne venne di lungo a trovar il duca, che era a Cusago, luogo vicino a Milano tre o quattro picciole miglia; e subito giunto, domandò il beneficio. Il duca, secondo la costuma, gli rispose che era buona pezza che l’aveva dato via. Allora il capitano con alta voce disse: – Corpo di Cristo! cotesto non è possibile, perché non sono tre ore che io l’ho ammazzato, e qui me ne sono venuto su cavalli da posta sempre correndo – Restò il duca a questa voce tutto stordito; e Biasino, subito montato a cavallo, se n’andò alla volta d’Adda e passò su quello de’ veneziani ove, avendo ottenuta la pace dai parenti del morto, ebbe anco la grazia del duca e dapoi un beneficio per il suo parente. E tutto questo causò per la troppa famigliaritá che aveva il buon capitano col suo signore.


Il Bandello a l’eccellente filosofo messer


Gian Cristoforo Confalonero


Ancor che tutto il dí si ragionasse degli effetti de l’amore, e che tutti gli scrittori d’ogni lingua ne scrivessero tutto ciò che mai avvenne, non è perciò che qualche nuovo accidente a la giornata non si veggia. E certamente, quantunque l’uomo o donna sia d’ingegno rintuzzato e piú scemonito che non fu Domenico Lazarone, che comprò quante mascherpe erano in mercato per far bianca una sua colombara, come Amore vi mette dentro il suo caldo, lo riforma tutto di nuovo e fallo avveduto ed accorto. Pensate poi ciò che fa quando ad elevato ingegno s’appiglia. Ora, essendo una brigata di gentiluomini in casa della signora Leonora giá moglie del signor Scaramuccia Vesconte, in Pavia, messer Giacomo Filippo Grasso, giovine nobile e dotto e buon compagno, narrò una novelletta avvenuta a Castelnuovo, sua e mia patria, ove si vede di che maniera Amore aguzzasse l’intelletto ad una nostra giovane per venir a l’intento suo. Ed ancor che non sia de le piú accorte cose del mondo, m’è paruto nondimeno di scriverla e a voi donarla, che la vostra mercé stimate le mie ciance esser qualche cosa. E se tanti accidenti avvenuti altrove ho scritti, perché anco non iscriverò di quelli che ne la mia patria avvengono? State sano e nostro signor Iddio feliciti ogni vostro desiderio.