Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XLV
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Voi poteste di leggero, in quel breve tempo che vi piacque star qui, conoscere quanto ad ogni proposito, o di cose gravi o di piacevoli che si parli, il nostro gentilissimo messer Filippo Baldo, gentiluomo milanese, sia ricco e abondante di motti, d’arguti detti e d’istorie così moderne come antiche, e con quanta memoria ed ordine le cose sue dica, di modo che mai non lascia rincrescere a chi l’ascolta. Egli ci ha narrato molte cose, ma tra tutte ce ne narrò una che a tutta la brigata piacque assai, per la quale si vede come sagacemente un prete si liberò da le mani del suo vescovo, che cercava castigarlo d’un peccato di cui era non meno di lui esso vescovo colpevole. Ed ancor che la cosa sia ridicola, nondimeno non devete sdegnarvi ch’io a voi la mandi, non essendo agli uomini gravi e in negozii di grandissima importanza occupati disdicevole talora in cose festevoli e da ridere rilassar l’animo, a ciò che poi più vivace rientri nei maneggi ed affari importantissimi. Ho anco preso l’oportunità di questi tempi di carnevale, nei quali ai chiusi ne le mura e chiostri de la religione è lecito trastullarsi e rimettere alquanto la rigidezza de la severità de le lor leggi. State sano ed amatemi.
Fu, non è molto tempo, in una città di Lombardia un vescovo, il quale era santissimo uomo, e sarebbe stato ancora più santo se fosse stato castrato; chè in effetto nel fatto de le donne era pur troppo ingordo, volendole tutte per sè, nè permettendo che i poverelli preti potessero guardarle, non che darsi piacer con loro. Visitando adunque alcuni monasteri de la città, trovò in uno di quelli una badessa che molto gli piacque, e con lei si domesticò pur assai, e in tal modo fu la domestichezza, che non si finì la visita che messer lo vescovo e monna badessa divennero divoti insieme. Era nel monastero una monaca giovane, la quale aveva un suo prete per innamorato, che era canonico in una chiesa collegiata di quella città, e tutto il dì praticava al monastero, parlando di continovo con la sua divota. Questa pratica punto non piaceva a la badessa, ma perchè la monaca era de le principali gentildonne de la città, non la poteva così regolare come averebbe voluto. Tuttavia non cessava ogni dì di proverbiarla, garrirla e dirle parole assai. La monaca tanto si curava del dire de la badessa, quanto de la prima cuffia che mai si mise in capo. Ora avendo la badessa fatta la nuova amicizia con monsignor lo vescovo, gli domandò di grazia che volesse castigar don Bassano canonico e vietargli che non praticasse al monastero. Il vescovo, desideroso di compiacerle, fece una scommunica e vietò che nessun prete, di qual condizione si fosse, potesse senza sua particolar licenza praticar a qual si sia monastero di monache, e ottenne dal governatore, che a nome del duca di Milano governava quella città, che in conformità de l’escommunica facesse un severissimo editto con publica grida; il che fu fatto. Per questo non restava il canonico, stimolato da l’amore, di praticar al monastero; ma facendo le cose sue meno che prudentemente, ed avendo la badessa di continovo le spie che mettevano mente a ciò che il canonico faceva, egli diede del capo ne la rete, perchè ritrovato che era ito in parlatorio, fu dagli sbirri subito preso e condutto al vescovado, dove il vescovo lo fece in una scura prigione incarcerare. Quivi cominciò con pane ed acqua a fargli far digiuni che non si trovano messi nel calendario. Non mancava la badessa con lettere ed ambasciate a stimolar messer lo vescovo a castigar agramente lo sfortunato don Bassano. Fu fatto un gran processo e provata la inubidienza e la scommunicazione contra il prete, e il vescovo si mostrava molto rigido contra lui, con animo di fargli uno strano scherzo; tuttavia vi s’interposero alcuni gentiluomini amici del prete, e fecero tanto che mitigarono in gran parte la còlera di monsignore, ma non poterono in tutto placarlo. La bisogna andò così: che prete Bassano fu levato di prigione ed assolto da la scommunica, con questo perciò, che gli convenne pagare, oltra le spese de la prigionia, ottanta ducati d’oro per emenda a la mensa episcopale, e patto che più egli non metteria i piedi a quel monastero, e, se trovato vi fia, che o anderà in galera o sarà posto in prigione perpetua. La badessa, sapendo il mal trattamento fatto a prete Bassano, essendo del mal altrui molto lieta, faceva tutti quei dispetti che poteva a la monaca amica del prete, la quale pazientememte il tutto sofferiva, aspettando tempo e luogo per fare, se possibil era, le sue vendette. Ora, la santa badessa, come persona grata, per non cascar nel vizio de l’ingratitudine che tanto dispiace a ciascuno, deliberò una notte far venir il vescovo a vegghiar ne la camera di lei seco. E sapendo che in quella vegghia si farebbero de le cose che inducono debilità nei corpi umani, avendo una sua fidatissima monaca che in simili bisogni la serviva, con zucchero fino, in camera sua, cominciò a lavorar pinocchiati, marzapani ed altre di varie sorti confetture, e si fece portar dui fiaschi, uno pieno d’ottima vernaccia e l’altro di finissima e preciosa malvagìa. La monaca, disperata per la prigionia del suo don Bassano, che in altro non pensava che farne una a la badessa, che, come si suol dire, si tenesse al badile; veggendo i traffichi che in camera de la badessa si facevano, pensò che senza dubio madonna la badessa voleva far nozze, ma con chi non sapeva indovinare. Onde si mise a vegghiare una e due notti, e chiaramente s’accorse come il vescovo era venuto a giacersi con la badessa. E non questa volta sola, ma sempre che si lavorava di zucchero, trovava che il vescovo veniva a rinfrescarsi. Il perchè, ebbe modo d’aver una chiave contrafatta de la camera de la badessa, avendo già prima fatto contrafare quelle del monastero, col mezzo de le quali introduceva don Bassano. Veggendo dunque l’apparecchio che si faceva, fece per la porta de le carra entrar il suo prete e lo tenne ascoso in camera. Essendo poi la badessa, la vigilia di san Lorenzo, in refettorio con le monache, ella mise don Bassano in camera de la badessa e lo fece appiattare sotto il letto. La notte venne il vescovo e fu introdutto ne la camera solita, ove, poi che si fu confettato e bevuto, se n’entrò monsignore con la badessa in letto; e scherzando tra loro, mise il vescovo le mani su le poppe a la divota e le domandò come s’appellavano. – Mammelle, – rispose ella. – No,' 'no, – soggiunse egli; – ma hanno nome le campane del cielo. – Pose poi la mano sovra il corpo e le domandò come si chiama. – Il corpo, – disse ella. – Voi v’ingannate, vita mia, – rispose il vescovo: – questo è detto il monte Gelboè. E questo, come l’appellate voi, cuor del corpo mio? – e pose la mano sovra il mal fóro che non vuole nè feste nè vigilie. Ma donna la badessa, alquanto sorridendo, non sapeva che dirsi. Alora disse egli: – Io veggio, anima mia, che voi non sapete i veri nomi de le cose. Questa si chiama la valle di Giosafat. – E disse: – Orsù, io vo’ montare su il monte Gelboè e sonar a doppio le campane del cielo e travarcare in mezzo la valle di Giosafat, ove farò cose mirabili. – E questo dicendo, si mise sotto la badessa e le attaccò l’uncino. Don Bassano, che era sotto il letto, e udiva tutte queste pappolate e sentiva farsi in capo la danza trivigiana, fu per scoprirsi; pur si ritenne. Stette il vescovo tutta la notte in piacere, e innanzi giorno uscì del monastero. La monaca del prete che stava a la vedetta, mentre la badessa con la compagna menava via il vescovo, cavò il prete de la camera e ne la sua lo condusse, ove, cacciando il diavolo ne l’inferno, don Bassano le narrò ciò che udito aveva e quanto intendeva di fare. Come la badessa fu tornata a la camera, la scaltrita monaca mise fuori il suo prete. Era quel dì il giorno di San Lorenzo, a la festa del quale era invitato il vescovo, e a don Bassano, canonico d’essa chiesa, toccava quel dì a cantar la messa. Il perchè, fattosi portar il messale de la messa grande a la camera, rase via alcune parole nel prefazio e destramente ve ne scrisse alcune altre, come intenderete; il che gli fu facile, perchè il messale era di carta pergamina. Venne il vescovo con i primi cittadini de la città ad onorar la festa. Don Bassano solennemente cominciò a cantar la messa. Il vescovo era vicino a l’altar grande suso una gran sedia per lui messa ad ordine. Ora, cantando il prefazio, disse don Bassano: – Omnipotens aeterne Deus, qui hesterna nocte reverendissimum dominum nostrum supra montem Gelboë ascendere ibique campanas coeli pulsare et deinde in vallem Iosaphat descendere fecisti, ubi multa mirabilia fecit, ecc. – Il vescovo, sentendo cantar queste cose nel prefazio, che credeva esser segretissime, entrò in grandissima còlera; e finita la messa, turbato fuor di modo, se n’andò al vescovado con animo di maltrattar il prete, il quale, subito che desinato si fu, fece citare. Il prete ebbe modo d’aver in compagnia sua sei o sette gentiluomini dei più bravi de la città, suoi amici, e con quelli si presentò al vescovo. Era monsignore in sala passeggiando, che, come vide il prete, con rigido viso gli domandò che prefazio era quello che cantato quella matina aveva. Egli rispose che il prefazio era su ’l messale, e nol credendo il vescovo, mandò un suo prete a San Lorenzo a pigliarlo. Fu portato il messale e dato in mano al vescovo, il quale, aperto il libro, trovò le parole sì ben contrafatte e simili a l’altre che non seppe che dire. Tirato poi da parte don Bassano, volle da lui intender come il fatto stava. Il prete le disse la cosa come era; onde sbigottito il vescovo e dubitando che gli amori suoi con la badessa non si divolgassero, s’accordò con il prete e gli restituì gli ottanta ducati che altre volte gli aveva fatto pagare, e gli disse: – Don Bassano, noi siamo tutti uomini: attendi a donarti buon tempo e lascia che altri facciano il simile. Noi faremo che la badessa e la tua monaca si pacificheranno insieme. – E così con poca fatica fecero di modo che, a l’ombra e a le spese del campanile, il vescovo con la badessa e don Bassano con la sua divota andavano spesso a pescare ne la valle di Iosafat e si davano il meglior tempo del mondo.
Sono molti dì, re sacratissimo, che la chiara fama del vostro glorioso valore, non contenta dai termini de l’Europa, se ne va volando per l’altre due parti del mondo, ed ogni ora più agumentandosi induce chiunque la sente ad esser desideroso di poter pascer gli occhi de la real presenza vostra, sì come gli orecchi empie tuttavia di tante vostre eccellenti vertuti. Ma poi che il vostro divotissimo ed affezionatissimo servidore messer Filippo Baldo, gentiluomo milanese, m’ha più e più volte predicate e sommamente commendate tante vostre mirabili doti, tante grazie e la innata vostra umanità e cortesia, che mai non soffre che da voi alcuno mal contento si parta, il mio desiderio in modo s’accese, che sempre ho oltra misura bramato che mi si prestasse occasione che de la vostra divina natura, che così chiaramente vi illustra, e di tante care e belle parti di quante abondate, potessi, quanto si conviene, ragionare. Mi dava io ad intendere che il mio dire, che da sè sempre è stato lieve e basso e poco ingegnoso, potesse grande, abondevole, alto e ricco divenire per la grandezza e maestà de le cose ammirabili che in questo vago fiore de la fanciullezza vostra perfettamente operate. E di questo intenso desiderio mio non sarà già mai ch’io mi penta, non possendo quello se non da animo generoso procedere, ancor che l’effetto assai sovente non segua uguale a la voglia, perciò che, come dice uno dei latini poeti, ne le cose grandi l’aver voluto è assai. E così intraviene a me, chè, come io ho presa la penna in mano per scrivere, molto di leggero avveduto mi sono questa non esser impresa da me, con ciò