Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XLIV
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diede anco la prigionia per alcuni dí, e tutti dui gli sospese, che piú non potessero far l’ufficio del parrocchiano.
E’ si suol communemente dire che a chi ama mai non manca argomento di scrivere a la persona amata, anzi d’ora in ora e di momento in momento nascono nel core di quello nuovi argomenti, i quali fanno che sempre l’amico ha occasione di dar nuova di sé a l’amico. Il che io nel vero in me stesso esperimento e di giá piú volte n’ho fatto prova, e non ci ho dubio veruno. Voi forse al presente, essendo qualche dí che mie lettere ricevute non avete, potrete di leggero dubitare che, per esser voi a Napoli, e io qui ne l’amenissima stanza di Landriano, ove, la Dio mercé, a me stesso vivo e a le muse, piú di voi non mi ricordi, o vero che soggetto mi manchi da scrivervi. Ma né l’uno né l’altro in me ha luogo, perciò che se me proprio posso obliare, mi smenticherò anche il mio ufficiosissimo Urbano, avendo sempre con efficacissimi effetti conosciuto quanto amato m’avete e piú che mai amate, e i lunghi viaggi che talora per i miei affari voluntariamente avete fatti. E come mai di mente uscir mi potrebbe, quando voi al piú algente verno, essendo tutta Italia neve e ghiaccio, vi partiste da Fermo e quasi volando a Mantova veniste, avendo avuta la falsa nuova del mio male? Sí che non v’accade dubitare che io non sia sempre di voi ricordevole. Non devete altresí pensare che mi manchi argomento o soggetto di scrivervi, amandovi come faccio, e tanto piú essendo ai dí passati dimorato qui meco per sua ricreazione e diporto forse quindici giorni il venerabile e grazioso predicatore fra Marco Sassuolo, il quale mi ha tenuto con la sua religiosa ed umanissima pratica molto allegro, e m’ha detto molte novelle con le quali abbellirò il mio libro. Ora mi narrò egli un dí una beffa avvenuta a Modena nel convento di San Domenico, che fece assai ridere quelli che ad udirla si trovarono, la quale avendo io scritta, vi mando e col nome vostro in fronte ho dato fuori. Vostro padre è in Milano e di rado vien qui, e con tutta la casa sta bene. Io sono restato padrone de la casa vostra e spesso vi chiamo, e massimamente a le pescagioni de le lamprede del Lambro, che in grandissima copia assai sovente prendiamo. State sano.Novella XLIV
Io m’ho sempre persuaso, compagni miei cari, che al mondo cosa non si truovi, o sia ella degna di lode o che meriti biasimo o vero neutrale, – come si trovano alcune azioni, de le quali sará la novella ch’io intendo sovra quest’erbosa e fresca riva del chiaro Lambro narrarvi, – da la quale non si possa cavar qualche succo di profitto, come è d’ammaestramento, utile o dilettazione. Ascoltatemi adunque e saperete come nel venerabil convento di San Domenico in Modena, essendo priore del luogo frate Agostino Moro da Brescia, che tutti conoscete, avvenne che la terza festa di pasqua un eccellente predicatore, che tutta la quadragesima aveva con general sodisfacimento di tutta la cittá predicato ne la chiesa d’esso convento, pigliò, come costumano molti, licenza con quelle cerimonie che per l’ordinario fanno i predicatori. E sapendosi per la cittá che quella deveva esser l’ultima predicazione del padre, vi concorse tutta la cittá, che pareva che in quella chiesa fosse la plenaria indulgenza; e tanto fu la calca e numerositá di gente, che la chiesa per l’alito di tanti uomini e donne restò tanto calda e ardente, che, finita la predica, che era durata, avendo predicato dopo desinare, fin quasi a le ventidue ore, con grandissima difficultá i frati dissero vespro e la compieta insieme. Il sagrestano, che era persona discreta ed avveduta, per disfogare la chiesa aperse tutte le finestre che ci sono e gli usci, e stette piú tardi che puoté a serrar la porta grande d’essa chiesa. E tanto piú che quella sera medesima bisognò nel cominciar de la notte sepellirvi un reo uomo di molto trista fama, e del quale s’era detto per tutto che il diavolo gli era visibilmente apparito ne la sua infermitá, e ciascuno credeva che devesse esser portato via in anima e in corpo. Finite l’essequie di questo reo uomo, il sagrestano, fermata la porta grande de la chiesa, lasciò aperta quella che ha l’adito nel primo chiostro, a ciò che la notte meglio la chiesa si rinfrescasse. Era quella stessa sera venuto un frate che aveva predicato in montagna, ed aveva le sue cosucce portate suso un asinello nero come pece, e l’aveva riposto in una stalletta. Il quale asino, dopo che tutti furono a dormire, non so come, si partí da la stalla e andò dentro il chiostro, ove l’erbetta era tenera e grassa, e quivi stette buona pezza, pascendo l’erbette d’esso chiostro. Dopoi, avendo forse sete, andò per tutto fiutando e s’avvenne al vaso de l’acqua benedetta, la quale tutta si bebbe, come poi il dí seguente i frati s’avvidero. Pasciuto che fu e cavatasi la sete, andò su la sepoltura del reo uomo sepellito la sera innanzi, che tutta era coperta d’arena, e quivi piú volte aggirandosi, si distese per riposarsi. È consuetudine che, sonato il matutino, i novizii se ne vanno al coro e quivi apprestano le candele e libri per cantar l’ufficio. Andarono dunque a l’ora del matutino duo giovinetti per preparar ciò che era bisogno, e passati per la sagrestia, ne l’uscir di quella per andar al coro, videro messer l’asino disteso su la sepoltura, con gli occhi ch’assembravano duo gran carboni ardenti, e due orecchiacce lunghe che proprio rappresentavano duo corna. Le tenebre, fomento ed aita del timore, il sepellito frescamente in quel luogo, col vedervi su quella orribile, a quella ora, bestia, levarono di sorte il giudizio ai timidi giovini che, senza pensare piú innanzi, credettero fermamente quella bestia esser il diavolo. Onde spaventati, si misero, quanto piú le gambe ne gli poterono portare, a fuggir via, tenendosi per ben avventurato colui che piú forte se ne fuggiva. Giunti in dormitorio, ansando e non potendo quasi formar parola, incontrarono alcuni frati che se n’andavano al coro, tra i quali era il maestro dei novizii. Egli, veggendo, per lo lume che tutte le notti arde in dormitorio, costoro tornarsene indietro, disse loro perché non andavano ad apprestar l’ufficio; i quali con perturbata e timida voce gli risposero che su la sepoltura de l’interrato la sera avevano visibilmente veduto il nemico de l’umana natura. Il buon maestro, che non era perciò il piú animoso uomo del mondo, cominciò a tremar di paura e stava fra due, se doveva discendere o no. Su questo arrivò fra Giovanni Mascarello, cantore e ottimo musico, il quale, sentendo questo, animosamente se n’andò giú. E come entrò in chiesa e vide quella bestia, che aveva distese l’orecchie per lo strepito che aveva sentito, se gli appresentò innanzi il morto e la sua malvagia vita, e subito, rivolgendo le spalle, serrò l’uscio de la sagrestia e corse di lungo di sopra, gridando quanto poteva piú: – Patres mei, egli è il diavolo ed il nemico de l’umana natura! – E piú fiate replicava simili parole. Egli ha, come sapete, una grandissima voce, e gridava sí forte che non vi fu frate nel monastero che non lo sentisse. Il priore, che alora usciva fuor de la cella, si fece innanzi e a fra Giovanni disse: – Che pazzie son queste, cantore, che voi dite? Farneticate voi, o che ci è? Tacete e non fate a quest’ora cotesti romori. Che avete voi, in nome di Dio? – Padre, – rispose alora il cantore, – io non farnetico, ma vi dico che il diavolo è in chiesa, ed io visibilmente con questi miei occhi l’ho veduto su la sepoltura di quell’uomo di cosí mala fama, che iersera sepellimmo. E credo che sia venuto per portarsene a l’inferno il corpo di colui. Questi dui giovini anco l’hanno veduto. – Domandato dal priore che cosa vista avessero, dissero il medemo che fra Giovanni detto aveva. Il perché il priore, pigliati seco alquanti di quei frati che quivi il romore aveva ragunati, scese giú ed entrò in chiesa. Ed avendo tutti la imaginazione di ciò che avevano inteso, si pensarono senza dubio, come videro l’asino, di veder il demonio infernale. Il perché tutti, tremando, si fecero il segno de la santa croce e ritornarono in sagrestia, ove il priore, fatto un poco di conseglio con quei padri che quivi erano, fece sonar a capitolo. Ed essendo tutti i frati uniti insieme, fece loro una essortazione, pregandogli tutti a far buon animo e non temere questa apparizione diabolica. Essortati ed animati, i frati andarono tutti di brigata in sagrestia, ove si vestirono de le vesti sacre e pigliarono tutte le reliquie che avevano. Ed avendo ciascuno qualche santa cosa in mano, con la croce innanzi, uscirono processionalmente, cantando divotamente la Salve regina. Per tutto questo messer l’asino, che se ne stava a suo bell’agio, punto non si mosse dal luogo che preso aveva. V’erano pochi che ardissero alzar gli occhi verso la bestia, e tutti erano cosí fermati in openione che il demonio ci fosse, che non vi fu mai nessuno che de l’asino s’accorgesse. Finita di cantar la Salve Regina, né per tutto ciò l’asino levandosi, si fece il priore dar il libro degli essorcismi, che si adopera a cacciar gli spiriti maligni dai corpi degli spiritati, e lesse tutte quelle vertuose parole che a simil ufficio si convengano. Né per tutto questo l’asino fece vista di volersi levare. A la fine il priore prese l’aspersorio de l’acqua santa, ed alquanto piú del solito accostatosi a l’asino, alzata la mano, quello cominciò col segno de la croce spruzzare d’acqua benedetta e, per la fissa immaginazione che in capo aveva, mai non s’avvide che non demonio ma asino era. Or, avendolo due e tre volte assai bene inacquato, o che messer l’asino sentisse la frigidezza de l’acqua, o pur che dubitasse col bastone de l’aspersorio esser battuto, veggendo tante volte il priore aver levata la mano come se bastonarlo il volesse, addrizzatosi in piè, con un orribile raggiar asinino, che con gran voce mandò fuori, cominciò a pettare, come è il costume suo, facendo venticinque palle di sterco, con la coda in alto levata, e tutta bruttò la sepoltura. Onde con questi ridicoli atti diede al priore e a’ frati segno che non era il diavolo ma messer l’asino. In questo tutti quei buoni frati restarono con un palmo di naso in mano, e non sapevano che si dire né che si fare. A la fine il tutto si risolse in gran riso, e parve loro gran cosa che giovani e vecchi, filosofi e teologi, tutti restassero da la vista d’un asino scornati. E certo si può dire che la imaginazione profonda di cose triste nuoce assai, e che è meglio con ragionevole audacia investigare il vero che inconsideratamente entrar in timore e creder a l’altrui fantasie.
Mirabilissime sempre furono le forze de la vertú, e di tanto potere, che non solamente gli amatori di quella, ma sovente anco sforzano quelli, che talora, vinti da le passioni amorose e dagli appetiti disordinati, si lasciano trasportare a strabocchevoli errori, ed emendar la vita loro ed amare, prezzare, riverire ed onorare le persone ottimamente qualificate e degne di riverenza. Il che in una azione di Galeazzo Sforza, duca di Milano, chiaramente si dimostra. Eravam questi dí insieme in casa del signor Battista Vesconte, patrizio veramente degno d’ogni commendazione, molte persone uomini e donne, e a caso di varii accidenti ragionandosi, fu contato come, essendo in essilio quel divinissimo eroe, il glorioso Scipione Affricano, e dimorando a Literno vicino al mare in una sua villa, che alcuni corsari, smontati dei loro legni, lo vennero a visitare e a basciargli quella valorosa mano che l’Affrica soggiogata a Roma aveva, tratti solamente da la chiara fama di lui. Si disse anco come i servi di Scipione volevano con i corsari combattere, pensando che fossero venuti per dirubar la casa ed ammazzar il lor padrone; ma veggendo quelli non aver armi, si fermarono. Onde i corsari, inginocchiati dinanzi a Scipione e basciateli le mani, gioiosi si partirono, parendo loro avere assai guadagnato a far riverenza a tanto famoso barone. Su questi ragionamenti disse il signor Francesco, primo figliuolo del