Orlando innamorato/Libro secondo/Canto primo

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Libro secondo

Canto primo

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Libro secondo Libro secondo - Canto secondo

 
1   Nel grazïoso tempo onde natura
     Fa più lucente la stella d’amore,
     Quando la terra copre di verdura,
     E li arboscelli adorna di bel fiore,
     Giovani e dame ed ogni creatura
     Fanno allegrezza con zoioso core;
     Ma poi che ’l verno viene e il tempo passa,
     Fugge il diletto e quel piacer si lassa.

2   Così nel tempo che virtù fioria
     Ne li antiqui segnori e cavallieri,
     Con noi stava allegrezza e cortesia,
     E poi fuggirno per strani sentieri,
     Sì che un gran tempo smarirno la via,
     Né del più ritornar ferno pensieri;
     Ora è il mal vento e quel verno compito,
     E torna il mondo di virtù fiorito.

3   Ed io cantando torno alla memoria
     Delle prodezze de’ tempi passati,
     E contarovi la più bella istoria
     (Se con quïete attenti me ascoltati)
     Che fusse mai nel mondo, e di più gloria,
     Dove odireti e degni atti e pregiati
     De’ cavallier antiqui, e le contese
     Che fece Orlando alor che amore il prese.

4   Voi odireti la inclita prodezza
     E le virtuti de un cor pellegrino,
     L’infinita possanza e la bellezza
     Che ebbe Rugiero, il terzo paladino;
     E benché la sua fama e grande altezza
     Fu divulgata per ogni confino,
     Pur gli fece fortuna estremo torto,
     Ché fu ad inganno il giovanetto morto.

5   Nel libro de Turpino io trovo scritto
     Come Alessandro, il re di gran possanza,
     Poi che ebbe il mondo tutto quanto afflitto
     E visto il mare e il cel per sua arroganza,
     Fu d’amor preso nel regno de Egitto
     De una donzella, ed ebbela per manza;
     E per amor che egli ebbe a sua beltade,
     Sopra il mar fece una ricca citade.

6   E dal suo nome la fece chiamare,
     Dico Alessandria, ed ancor si ritrova;
     Dapoi lui volse in Babilonia andare,
     Dove fu fatta la dolente prova,
     Che un suo fidato l’ebbe a velenare,
     Onde convien che ’l mondo si commova,
     E questo un pezzo e quello un altro piglia;
     Il mondo tutto a guerra se ascombiglia.

7   Stava in Egitto alora la fantina,
     Che fu nomata Elidonia la bella,
     Gravida de sei mesi la meschina.
     Quando sentitte la trista novella,
     Veggendo il mondo che è tutto in ruina,
     Intrò soletta in una navicella,
     Che non avea governo di persona,
     Ed a fortuna le vele abandona.

8   Lo vento in poppa via per mar la caccia,
     In Africa quel vento la portava.
     Sereno è il celo e il mar tutto in bonaccia,
     La barca a poco a poco in terra andava.
     Quella donzella, levando la faccia,
     Visto ebbe un vecchiarel che ivi pescava:
     A questo aiuto piangendo dimanda,
     E per mercede se gli racomanda.

9   Quel la ricolse con umanitate,
     E poi che ’l terzo mese fu compito,
     Ne la capanna di sua povertate
     La dama tre figlioli ha parturito.
     Quivi fu fatta poi quella citate
     Che Tripoli è nomata, in su quel lito,
     Per gli tre figli che ebbe quella dama;
     Tripoli ancora la cità se chiama.

10 E come il cel dispone gioso in terra,
     Fôrno quei figli di tanto valore,
     Che il re Gorgone vinsero per guerra,
     Qual de l’Africa prima era segnore.
     L’un d’essi fu nomato Sonniberra,
     Che fu il primo che nacque, e fu il maggiore;
     Il secondo Attamandro, e il terzo figlio
     Nome ebbe Argante, e fu bel come un giglio.

11 E tre germani preser segnoria
     De Africa tutta, come io ho contato,
     E la rivera della Barberia
     E la terra de’ Negri in ogni lato.
     Non per prodezza né per vigoria,
     Non per gran senno acquistâr tutto il stato,
     Ma la natura sua, ch’è tanto bona,
     Tirava ad obedirli ogni persona.

12 Perché l’un più che l’altro fu cortese,
     E sempre l’acquistato hanno a donare;
     Onde ogni terra e ciascadun paese
     Di grazia gli veniva a dimandare.
     E così subiugâr senza contese
     Dallo Egitto al Morocco tutto il mare,
     Ed infra terra quanto andar si puote
     Verso il deserto, alle gente remote.

13 Morirno senza eredi e duo maggiori,
     E solo Argante il regno tutto prese,
     Che ebbe nel mondo trïonfali onori;
     E di lui l’alta gesta poi discese,
     Della casa Africana e gran segnori,
     Che ferno a’ Cristïan cotante offese,
     E preser Spagna con grande arroganza,
     Parte de Italia, e tempestarno in Franza.

14 Nacque di questo il possente Barbante,
     Che in Spagna occiso fu da Carlo Mano;
     E fu di questa gente re Agolante,
     Di cui nacque il feroce re Troiano,
     Qual in Bergogna col conte d’Anglante
     Combattè e con duo altri sopra il piano,
     Ciò fu don Chiaro e ’l bon Rugier vassallo:
     Da lor fu morto, e certo con gran fallo.

15 Del re Troiano rimase un citello,
     Sette anni avea quando fu il patre occiso:
     Di persona fu grande e molto bello,
     Ma di terribil guardo e crudel viso.
     Costui fu de’ Cristian proprio un flagello,
     Sì come in questo libro io ve diviso.
     State, segnori, ad ascoltarme un poco,
     E vederiti il mondo in fiamma e in foco.

16 Vinti duo anni il giovanetto altiero
     Ha già passati, ed ha nome Agramante,
     Né in Africa si trova cavalliero
     Che ardisca di guardarlo nel sembiante,
     Fuor che un altro garzone, ancor più fiero,
     Che vinti piedi è dal capo alle piante,
     Di summo ardire e di possanza pieno;
     Questo fu figlio del forte Ulïeno.

17 Ulïeno di Sarza, il fier gigante,
     Fu patre a quel guerrier di cui ragiono,
     Qual fu tanto feroce ed arrogante,
     Che pose tutta Francia in abandono;
     E dove il sol si pone e da levante
     De l’alto suo valor odise il suono.
     Or vo’ contarvi, gente pellegrine,
     Tutta la cosa dal principio al fine.

18 Fece Agramante a consiglio chiamare
     Trentaduo re, che egli ha in obidïenzia;
     In quattro mesi gli fie’ radunare,
     E fuor tutti davanti a sua presenzia.
     Chi vi gionse per terra e chi per mare.
     Non fu veduta mai tanta potenzia;
     Trentadue teste, tutte coronate,
     Biserta entrarno, in quella gran citate.

19 Era in quel tempo gran terra Biserta,
     Che oggi è disfatta al litto alla marina,
     Però che in questa guerra fu deserta:
     Orlando la spianò con gran roina.
     Or, come io dissi, alla campagna aperta
     Fuor se accampò la gente saracina;
     Dentro a la terra entrarno con gran festa
     Trentaduo re con le corone in testa.

20 Eravi un gran castello imperïale,
     Dove Agramante avea sua residenzia:
     Il sol mai non ne vide uno altro tale,
     Di più ricchezza e più magnificenzia.
     A duo a duo montarno i re le scale,
     Coperti a drappi d’ôr per eccellenzia;
     Intrarno in sala, e ben fu loro aviso
     Veder il celo aperto e il paradiso.

21 Lunga è la sala cinquecento passi,
     E larga cento aponto per misura:
     Il cel tutto avea d’oro a gran compassi,
     Con smalti rossi e bianchi e di verdura.
     Giù per le sponde zaffiri e ballassi
     Adornavan nel muro ogni figura,
     Però che ivi intagliata, con gran gloria,
     Del re Alessandro vi è tutta la istoria.

22 Lì si vedea lo astrologo prudente,
     Qual del suo regno se ne era fuggito,
     Che una regina in forma de serpente
     Avea gabbata, e preso il suo appetito.
     Poi se vedeva apresso incontinente
     Nato Alessandro, quel fanciullo ardito,
     E come dentro ad una gran foresta
     Prese un destrier che avea le corna in testa.

23 Buzifal avea nome quel ronzone:
     Così scritto era in quella depintura;
     Sopra vi era Alessandro in su l’arcione,
     E già passato ha il mar senza paura.
     Qui son battaglie e gran destruzïone:
     Quel re di tutto il mondo non ha cura;
     Dario gli venne incontra in quella guerra,
     Con tanta gente che coprì ogni terra.

24 Alessandro il superbo l’asta abassa,
     Pone a sconfitta tutta quella gente,
     E più Dario non stima ed oltra passa;
     Ma quel ritorna ancora più possente,
     E di novo Alessandro lo fraccassa.
     Poi se vedeva Basso il fraudolente,
     Che a tradimento occide il suo segnore,
     Ma ben lo paga il re di tanto errore.

25 E poi si vede in India travargato,
     Natando il Gange, che è sì gran fiumana;
     Dentro a una terra soletto è serrato,
     Ed ha d’intorno la gente villana.
     Ma lui ruina il muro in ogni lato
     Sopra a’ nemici e quella terra spiana;
     Passa più oltra e qui non se ritiene;
     Ecco il re d’India, che adosso gli viene.

26 Porone ha nome, ed è sì gran gigante:
     Non ritrova nel mondo alcun destriero,
     Ma sempre lui cavalca uno elefante.
     Or sua prodezza non gli fa mestiero,
     Né le sue gente, che n’avea cotante,
     Perché Alessandro, quel segnore altiero,
     Vivo lo prende; e, com’om di valore,
     Poi che l’ha preso, il lascia a grande onore.

27 Eravi ancora come il basilisco
     Stava nel passo sopra una montagna,
     E spaventa ciascun sol col suo fisco,
     E con la vista la gente magagna;
     Come Alessandro lui se pose a risco
     Per quella gente ch’era alla campagna,
     E, per consiglio di quel sapïente,
     Col specchio al scudo occise quel serpente.

28 In somma ogni sua guerra ivi è depinta
     Con gran ricchezza e bella a riguardare.
     Possa che fu la terra da lui vinta,
     A duo grifon nel cel si fa portare
     Col scudo in braccio e con la spada cinta;
     Poi dentro a un vetro se calla nel mare,
     E vede le balene e ogni gran pesce,
     E campa, e ancor quivi di fuora n’esce.

29 Dapoi che vinto egli ha ben ogni cosa,
     Vedesi lui che è vinto da l’amore;
     Perché Elidonia, quella grazïosa,
     Con soi begli occhi gli ha passato il core.
     Evi da poi sua morte dolorosa,
     Come Antipatro, il falso traditore,
     L’ha avelenato con la coppa d’oro;
     Poi tutto ’l mondo è in guerra e gran martoro.

30 Fugge la dama misera tapina,
     Ed è ricolta dal vecchio cortese,
     E parturisce in ripa alla marina
     Tre fanciulletti alle rete distese;
     Ed evi ancor la guerra e la roina
     Che fanno e tre germani in quel paese,
     Sonniberra, Attamandro e il bello Argante:
     L’opre di lor sono ivi tutte quante.

31 Intrarno e re la gran sala mirando,
     Ciascun per meraviglia venìa meno;
     Genti legiadre e donzelle danzando
     Aveano il catafalco tutto pieno.
     Trombe, tamburi e piffari sonando,
     Di romor dolce empian l’aer sereno.
     Sopra costoro ad alto tribunale
     Stava Agramante in abito reale.

32 Ad esso fier’ quei re gran riverenzia,
     Tutti chinando alla terra la faccia;
     Lui gli racolse con lieta presenzia,
     E ciascadun di lor baciando abraccia.
     Poi fece a l’altra gente dar licenzia.
     Incontinente la sala se spaccia:
     Restarno i re con tutti e consiglieri,
     Duci e marchesi e conti e cavallieri.

33 Di qua di là da l’alto tribunale
     Trentadue sedie d’ôr sono ordinate;
     Poi l’altre son più basse e diseguale,
     Pur vi sta gente di gran dignitate.
     Là più si parla, chi bene e chi male,
     Secondo che ciascuno ha qualitate;
     Ma, come odirno il suo segnor audace,
     Subitamente per tutto si tace.

34 Lui cominciò: - Segnor, che ivi adunati
     Seti venuti al mio comandamento,
     Quanto cognosco più che voi me amati,
     Come io comprendo per esperimento,
     Più debbo amarvi ed avervi onorati;
     E certamente tutto il mio talento
     È sempre mai d’amarvi, e il mio disio
     Che ’l vostro onor se esalti insieme e il mio.

35 Ma non già per cacciare, o stare a danza,
     Né per festeggiar dame nei giardini,
     Starà nel mondo nostra nominanza,
     Ma cognosciuta fia da tamburini.
     Dopo la morte sol fama ne avanza,
     E veramente son color tapini
     Che d’agrandirla sempre non han cura,
     Perché sua vita poco tempo dura.

36 Né vi crediate che Alessandro il grande,
     Qual fu principio della nostra gesta,
     Per far conviti de ottime vivande
     Vincesse il mondo, né per stare in festa.
     Ora per tutto il suo nome si spande,
     E la sua istoria, che è qui manifesta,
     Mostra che al guadagnar d’onor si suda,
     E sol s’acquista con la spada nuda.

37 Onde io vi prego, gente di valore,
     Se di voi stessi aveti rimembranza,
     E se cura vi tien del vostro onore,
     S’io debbo aver di voi giamai speranza,
     Se amati ponto me, vostro segnore,
     Meco vi piaccia di passare in Franza,
     E far la guerra contra al re Carlone
     Per agrandir la legge di Macone. -

38 Più oltra non parlava il re nïente,
     E la risposta tacito attendia.
     Fu diverso parlar giù tra la gente,
     Secondo che ’l parer ciascuno avia.
     Tenuto era fra tutti il più prudente
     Branzardo, quel vecchion, re di Bugia,
     E, veggendo che ogni om solo a lui guarda,
     Levasi al parlamento e più non tarda.

39 - Magnanimo segnor, - disse il vecchione,
     - Tutte le cose de che se ha scïenzia,
     O ver che son provate per ragione,
     O per esempio, o per esperïenzia;
     E così, rispondendo al tuo sermone,
     Dapoi ch’io debbo dir la mia sentenzia,
     Dirò che contra del re Carlo Mano
     Il tuo passaggio fia dannoso e vano.

40 Ed evi a questo ragion manifesta.
     Carlo potente al suo regno si serra,
     Ed ha la gente antiqua di sua gesta,
     Che sempre sono usati insieme a guerra;
     Né, quando la battaglia è in più tempesta,
     Lasciaria l’un compagno l’altro in terra;
     Ma a te bisogna far tua gente nova,
     Qual con l’usata perderà la prova.

41 Esempio ben di questo ci può dare
     Il re Alessandro, tuo predecessore,
     Che con gente canuta passò il mare,
     Ma insieme usata con tanto valore.
     Dario di Persia il venne a ritrovare,
     E messe molta gente a gran romore:
     Perché l’un l’altro non recognoscia,
     Morta e sconfitta fu quella zinia.

42 La esperïenzia voria volentieri
     Poterla dimostrare in altra gente
     Che nella nostra, perché Caroggieri,
     Qual del bisavol tuo fu discendente,
     Passò in Italia con molti guerreri.
     Tutti fôr morti con pena dolente:
     Fu morto Almonte e Agolante il soprano,
     E dopo tutti il tuo patre Troiano.

43 Sì che lascia per Dio! la mala impresa,
     E frena l’ardir tuo con tempo e spaccio.
     Dolce segnor, s’io te faccio contesa,
     Sicuramente più de gli altri il faccio,
     E d’ogni danno tuo troppo mi pesa,
     Ché piccoletto t’ho portato in braccio;
     E tanto più me stringe il tuo periglio,
     Ch’io te ho come segnore e come figlio. -

44 Fu il re Branzardo a terra ingenocchiato,
     Poi nel suo loco ritorna a sedere.
     In piedi un altro vecchio fu levato,
     Ch’è ’l re d’Algoco, ed ha molto sapere:
     Nostro paese avea tutto cercato,
     Però che fu mandato a provedere
     Dal re Agolante ogni nostro confino,
     Ed è costui nomato il re Sobrino.

45 - Segnor, - disse costui - la barba bianca,
     Qual porto al viso, dà forse credenza
     Che per vecchiezza l’animo mi manca;
     Ma per Macon ti giuro e sua potenza,
     Che, a bench’io senta la persona stanca,
     De l’animo non sento differenza
     Da quel ch’egli era nel tempo primiero,
     Che andai a Rissa a ritrovar Rugiero.

46 Sì che non creder che per codardia
     Il tuo passaggio voglio sconfortare,
     Né per la tema della vita mia,
     Che in ogni modo poco può durare.
     Benché di piccol tempo e breve sia,
     Spender la voglio sì come ti pare;
     Ma, come quel che son tuo servo antico,
     Quel che meglio mi par, conseglio e dico.

47 Sol per duo modi in Franza pôi passare:
     Quei lochi ho tutti quanti già cercati.
     L’uno è verso Acquamorta il dritto mare:
     Partito serìa quel da disperati,
     Ché, come in terra vogli dismontare,
     Staranno al litto e Cristïani armati,
     Tutti ordinati nel suo guarnimento:
     Dece di lor varran de’ nostri cento.

48 Par l’altro modo più convenïente,
     Passando giù nel stretto al Zibeltaro:
     Marsilio re di Spagna, il tuo parente,
     Avrà questa tua impresa molto a caro,
     E teco ne verrà con la sua gente,
     Né avrà Cristianitate alcun riparo.
     Così se dice, ma il mio core estima
     Che più serà che fare al fin, che prima.

49 Nella Guascogna scenderemo al piano,
     E quella gente poneremo al basso;
     Ma qui ritrovaremo a Montealbano
     Ranaldo il crudo, che diffende il passo.
     Dio guardi ciascadun dalla sua mano!
     Non si può contrastare a quel fraccasso;
     Poi che l’avrai sconfitto e discacciato,
     Ancor te assalirà da un altro lato.

50 Carlo verrà con tutta la sua corte:
     Non è nel mondo gente più soprana.
     Né stimar che sian dentro da le porte,
     Ma sotto alle bandiere, in terra piana.
     Verrà quel maladetto che è sì forte,
     Che ha il bel corno d’Almonte e Durindana:
     Non è riparo alcuno a sua battaglia,
     Ché ciò che trova, con la spada taglia.

51 Cognosco Gano e cognosco il Danese,
     Che fu pagano, e par proprio un gigante,
     Re Salamone e Oliviero il marchese,
     Ad uno ad un lor gente tutte quante.
     Nui se trovamo seco alle contese,
     Quando passò tuo avo, il re Agolante;
     Io gli ho provati: possote acertare
     Che ’l bon partito è de lasciargli stare. -

52 Parlò in tal forma quel vecchio canuto,
     Quale io ve ho racontata, più né meno.
     Il re de Sarza fu un giovane arguto:
     Questo era il figlio del forte Ulïeno,
     Maggiore assai del patre e più membruto.
     Nullo altro fu d’ardir più colmo e pieno,
     Ma fu superbo ed orgoglioso tanto,
     Che disprezava il mondo tutto quanto.

53 Levossi in piede e disse: - In ciascun loco
     Ove fiamma s’accende, un tempo dura
     Piccola prima, e poi si fa gran foco;
     Ma come viene al fin, sempre se oscura,
     Mancando del suo lume a poco a poco.
     E così fa l’umana creatura,
     Che, poi che ha di sua età passato il verde,
     La vista, il senno e l’animo si perde.

54 Questo ben chiar si vede nel presente
     Per questi duo che adesso hanno parlato,
     Perché ciascun di lor già for prudente,
     Ora è di senno tutto abandonato,
     Tanto che niega al nostro re potente
     Quel che, pregando ancor, gli ha dimandato;
     Così dà sempre ogni capo canuto
     Più volentier consiglio che lo aiuto.

55 Non vi domanda consiglio il segnore,
     Se ben la sua proposta aveti intesa,
     Ma per sua riverenza e vostro onore
     Seco il passaggio alla reale impresa.
     Qualunque il niega, al tutto è traditore,
     Sì che ciascun da me faccia diffesa,
     Qual contradice al mandato reale,
     Ch’io lo disfido a guerra capitale. -

56 Così parlava il giovanetto acerbo,
     Che è re di Sarza, come io vi contai.
     Rodamonte si chiama quel superbo,
     Più fier garzon di lui non fu giamai;
     Persona ha de gigante e forte nerbo:
     Di sue prodezze ancor diremo assai.
     Or guarda intorno con la vista scura,
     Ma ciascun tace ed ha di lui paura.

57 Era in consiglio il re di Garamanta,
     Quale era sacerdote de Apollino,
     Saggio, e de gli anni avea più de nonanta,
     Incantatore, astrologo e indovino.
     Nella sua terra mai non nacque pianta,
     Però ben vede il celo a ogni confino:
     Aperto è il suo paese a gran pianura;
     Lui numera le stelle e il cel misura.

58 Non fu smarito il barbuto vecchione,
     A benché Rodamonte ancor minaccia,
     Ma disse: - Bei segnor, questo garzone
     Vôl parlar solo e vôl che ogni altro taccia.
     Pur che esso non ascolti il mio sermone,
     Il mal che mi può far, tutto mi faccia;
     Ascoltati de Dio voi le parole,
     Ché non di lui, ma de gli altri mi dole.

59 Gente devota, odeti ed ascoltati
     Ciò che vi dice il dio grande Apollino:
     Tutti color che in Francia fian portati,
     Dopo la pena del lungo camino
     Morti seranno e per pezzi tagliati,
     Non ne camparà grande o picciolino:
     E Rodamonte con sua gran possanza
     Diverrà pasto de’ corbi de Franza. -

60 Poi che ebbe detto, se pose a sedere
     Quel re, che ha molta tela al capo involta.
     Ridendo Rodamonte a più potere
     La profezia di quel vecchione ascolta.
     Ma quando quieto lo vide e tacere,
     Con parlare alto e con voce disciolta
     - Mentre che siam qua, - disse - io son contento
     Che quivi profetezi a tuo talento;

61 Ma quando tutti avrem passato il mare,
     E Franza struggeremo a ferro e a foco,
     Non me venistù intorno a indovinare,
     Perch’io serò il profeta di quel loco.
     Male a quest’altri pôi ben minacciare,
     A me non già, che ti credo assai poco,
     Perché scemo cervello e molto vino
     Parlar te fa da parte de Apollino. -

62 Alla risposta di quello arrogante
     Riseno molti e odirla volentieri.
     Giovani assai della gente africante
     A quell’impresa avean gli animi fieri;
     Ma e vecchi, che passâr con Agolante
     E che provarno e nostri cavallieri,
     Mostravan che questo era per ragione
     De Africa tutta la destruzïone.

63 Grande era giù tra quelli il ragionare,
     Ma il re Agramante, stendendo la mano,
     Pose silenzio a questo contrastare;
     Poi con parlar non basso e non altano
     Disse: - Segnor, io pur voglio passare
     In ogni modo contra a Carlo Mano,
     E voglio che ciascun debbia venire,
     Ch’io soglio comandar, non obedire.

64 Né vi crediate, poi che la corona
     Serà di Carlo rotta e dissipata,
     Aver riposo sotto a mia persona.
     Vinta che sia la gente battizata,
     Adosso a li altri il mio cor se abandona,
     Fin che la terra ho tutta subiugata;
     Poi che battuta avrò tutta la terra,
     Ancor nel paradiso io vo’ far guerra. -

65 Or chi vedesse Rodamonte il grande
     Levarsi allegro con la faccia balda,
     - Segnor, - dicendo - il tuo nome si spande
     In ogni loco dove il giorno scalda;
     Ed io te giuro per tutte le bande
     Tenir con teco la mia mente salda;
     In celo e ne l’inferno il re Agramante
     Seguirò sempre, o passarogli avante. -

66 Questo affirmava il re di Tremisona,
     Sempre seguirlo per monte e per piano:
     Alzirdo ha nome, ed ha franca persona.
     Questo affirmava il forte re de Orano,
     Che pur quello anno avea preso corona;
     E ’l re de Arzila, levando la mano,
     Promette a Macometto e giura forte
     Seguire il suo segnor sino alla morte.

67 Che bisogna più dir? ché ciascun giura:
     Beato chi mostrar si può più fiero!
     Non vi si vede faccia di paura,
     Ciascun minaccia con sembiante altiero.
     Benché a quei vecchi par la cosa dura,
     Pur ciascadun promette di legiero;
     Ma il re di Garamanta, quel vecchione,
     Comincia un’altra volta il suo sermone

68 - Segnor, - dicendo - io voglio anch’io morire
     Poi che al tutto è disfatta nostra gente;
     Teco in Europa ne voglio venire.
     Saturno, che è segnor dello ascendente,
     Ad ogni modo ci farà perire;
     Sia quel che vôle, io non ne do nïente,
     Ché in ogni modo ho tanti anni al gallone,
     Che campar non puotria lunga stagione.

69 Ma ben ti prego per lo Dio divino,
     Che al manco in questo me vogli ascoltare.
     Ciò te dico da parte de Apollino,
     Da poi che hai destinato di passare.
     Nel regno tuo dimora un paladino,
     Che di prodezza in terra non ha pare;
     Come ho veduto per astrologia,
     Il megliore omo è lui che al mondo sia.

70 Or te dice Apollino, alto segnore,
     Che se con teco avrai questo barone,
     In Francia acquistarai pregio ed onore,
     E cacciarai più volte il re Carlone.
     Se vuoi sapere il nome e il gran valore
     Del cavalliero e la sua nazïone,
     Sua matre del tuo patre fu sorella,
     E fu nomata la Galacïella.

71 Questo barone è tuo fratel cugino,
     Che ben provisto t’ha Macon soprano
     De far che quel guerrier sia saracino,
     Ché, quando fusse stato cristïano,
     La nostra gente per ogni confino
     Tutta a fraccasso avria mandato al piano.
     Il patre di costui fu il bon Rugiero,
     Fiore e corona de ogni cavalliero.

72 E la sua matre misera, dolente,
     Da poi che fu tradito quel segnore,
     E la città de Rissa in foco ardente
     Fu ruïnata con molto furore,
     Tornò la tapinella a nostra gente,
     E parturì duo figli a gran dolore;
     E l’un fu questo di cui t’ho parlato:
     Rugier, sì come il patre, è nominato.

73 Nacque con esso ancora una citella,
     Ch’io non l’ho vista, ma ha simiglianza
     Al suo germano, e fior d’ogni altra bella,
     Perché esso di beltate il sole avanza.
     Morì nel parto alor Galacïella,
     E’ duo fanciulli vennero in possanza
     D’un barbasore, il quale è nigromante,
     Che è del tuo regno, ed ha nome Atalante.

74 Questo si sta nel monte di Carena,
     E per incanto vi ha fatto un giardino,
     Dove io non credo che mai se entri apena.
     Colui, che è grande astrologo e indovino,
     Cognobbe l’alta forza e la gran lena
     Che dovea aver nel mondo quel fantino,
     Però nutrito l’ha, con gran ragione,
     Sol di medolle e nerbi di leone;

75 Ed hallo usato ad ogni maestria
     Che aver se puote in arte d’armeggiare;
     Sì che provedi d’averlo in balìa,
     A bench’io creda che vi avrai che fare.
     Ma questo è solo il modo e sola via
     A voler Carlo Mano disertare;
     Ed altramente, io te ragiono scorto,
     Tua gente è rotta, e tu con lor sei morto. -

76 Così parlava quel vecchio barbuto:
     Ben crede a sue parole il re Agramante,
     Perché tra lor profeta era tenuto
     E grande incantatore e nigromante,
     E sempre nel passato avea veduto
     Il corso delle stelle tutte quante,
     E sempre avanti il tempo predicia
     Divizia, guerra, pace, caristia.

77 Incontinente fu preso il partito
     Quel monte tutto quanto ricercare,
     Sin che si trovi quel giovane ardito,
     Che deggia seco il gran passaggio fare.
     Questo canto al presente è qui finito;
     Segnor, che seti stati ad ascoltare,
     Tornati a l’altro canto, ch’io prometto
     Contarvi cosa ancor d’alto diletto.