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132 rime varie


CXXXIV [clxxxiii].1

Perché abbandonò la città nativa.

Chi ’l crederia pur mai, che un uom non vile,
Per amar troppo il bel natío suo nido,2
Sordo apparendo di natura al grido,
4 Spontaneo il fugga, quasi ei l’abbia a vile?
Eppur quell’un son io: ma in cor gentile
Far penetrar l’alta ragion mi affido,3
Che mi sforza a cercare in stranio lido
8 Come ardito adoprar libero stile.
Sacro è dover, servir la patria; e tale
(Benché patria non è là dove io nacqui)4
11 L’estimo io pur; né d’altro al par mi cale.
Quindi è, che al rio poter sotto cui giacqui,
Drizzai da lungi l’Apollíneo strale,5
14 E in mio danno a pro d’altri il ver non tacqui.


CXXXV [clxxxiv].6

Mentre corregge le bozze delle tragedie.

Oh stolta in ver mia giovenil baldanza,
Che acciecata la mente un tempo m’ebbe!7
Error, che a molti innanzi a me già increbbe;
4 Credersi in Pindo aver secura stanza.8


  1. Nel ms.: «10 novembre, tornando da Sultzmath».
  2. 2. Il bel natío suo nido: il Petrarca (Rime, CXXVIII):
    Non è questo ’l mio nido,
    Ove nutrito fui sí dolcemente?
  3. 6. Mi affido, spero.
  4. 10. Nel son. Oggi ha sei lustri, appiè del colle ameno:
    Loco, ove solo Un contra tutti basta,
    Patria non m’è, benché natío terreno;
    e nella Virginia (III, 2ª):
    V’ha patria, dove
    Sol uno vuole e l’obbediscon tutti?
  5. 13. L’Apollíneo strale, le mie composizioni poetiche.
  6. La malattia che colpí l’A. nell’estate del 1787, gli lasciò le sue tracce, ed egli «rimase cosí indebolito.... della mente, che tutte le prove delle tre prime tragedie, che successivamente nello spazio di circa quattro mesi in quell’anno gli passarono sotto gli occhi, non ricevettero da lui né la decima parte delle emendazioni ch’avrebbe dovuto farvi». (Aut., IV, 17°). Questo stato di debolezza mentale del Poeta ci dà pure la spiegazione del lungo silenzio che intercede fra la composizione dell’ultimo sonetto da me commentato (10 nov. 1787) e di quello che ora ci apprestiamo a commentare (17 maggio 1788).
  7. 1-2. Allude l’A. alla edizione senese del 1783.
  8. 4. Credere di aver acquistata fama immortale nel regno della poesia.