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di vittorio alfieri 175


Gli altrui con dolce fremito ridesta,
4 Mercé gli ardenti armonïosi detti.
Sovr’auree penne in agil volo è presta
Sempre a recar fruttiferi diletti
Di contrada in contrada; e mai non resta;
8 Che ha i secoli anco a soggiacerle astretti.1
O del forte sentir piú forte figlia,
Che a’ tuoi fervidi fabri2 sol dai pace
11 Quel dí, ch’invida Morte atra li artiglia;3
Poesía, la cui fiamma il cor mi sface,
Se al tuo divin furore il mio somiglia,
14 Deh dammi eterea tu vita verace!4


CLXXV.5

Ancóra, leggendo l’Iliade.

Favola fosse, o storia, o allegoria,6
La ferita di Venere che espresse
L’alto cantor che il gran poema intesse,
4 (Dirlo ardisco) in altrui stolta saria.
Tidíde, invaso di ferocia ria,
L’asta vilmente a imbelle colpo eresse;


    propri affetti», anzi l’A. non concepisce altrimenti la poesia che come espressione d’uno stato soggettivo. Freme il poeta e comunica il suo fremito interno «mercé gli ardenti detti»; né i detti potrebbero essere non ardenti, poiché la poesia è «forte figlia del forte sentire»; «fervidi» sono i suoi «fabri»; come «fiamma» e «furore essa è concepita, secondo una tendenza spontanea dell’animo dell’A. e secondo il consapevole studio di determinati effetti estetici e morali».

    1. Oltre, al di là.

  1. 8. Perché ha obbligate anche le età venture a soggiacere al suo impero.
  2. 10. Fabri, poeti, artefici.
  3. 11. Li artiglia, li afferra.
  4. 14. Concedi eterna vita al mio spirito.
  5. Nel ms: «14 gennaio, lungo le mura».
  6. 1-8. L’episodio, a cui allude l’A. è nel libro V, 334 e segg. dell’Iliade: cito, al solito, il testo e la trad. del Monti:
    Ἀλλ’ ὅτε δή ῥ’ ἐκίχανε πολὺν καθ’ ὅμιλον ὀπάζων,
    ἔνθ’ ἐπορεξάμενος μεγαθύμου Τυδέος υἱὸς,
    ἄκρην οὔτασε χεῖρα μετάλμενος ὀξέϊ δουρὶ
    ἀθληχρήν· εἶθαρ δὲ δόρυ χροὸς ἀντετόρησεν,
    ἀμβροσίου διὰ πέπλου, ὅν οἱ Χάριτες κάμον αὐταί
    πρυμνὸν ὕπερ θέναρος. Ῥέε δ’ἄμβροτον αἷμα θεοῖο,
    ἰχώρ, οἷός πέρ τε ῥέει μακάρεσσι θεοῖσιν·
    οὐ γὰρ σῖτον ἔδουσ’, οὐ πίνουσ’ αἴθοπα οἶνον·
    τοὔνεκ’ ἀναίμονές εἰσι καὶ ἀθάνατοι καλέονται.
    Η δὲ μέγα ἰάχουσα ἀπὸ ἕο κάββαλεν υἱόν·

    Poiché raggiunta per la folta ei [Diomede] l’ebbe
    Abbassò l’asta il fiero, e coll’acuto
    Ferro l’assalse, e della man gentile
    Gli estremi le sfiorò verso il confine
    Della palma. Forò l’asta la cute
    Rotto il peplo odoroso, a lei tessuto
    Dalle Grazie, e fluí dalla ferita
    L’icóre della Dea, sangue immortale,
    Qual corre de’ Beati entro le vene;
    Ch’essi, né frutto cereal gustando,
    Né rubicondo vino, esangui sono
    E quindi han nome d’Immortali. Al colpo
    Died’ella un forte grido e dalle braccia
    Depose il figlio.
    Espresse, cantò, celebrò. — Eresse, volse. — Il figlio che Venere proteggeva era Enea, assalito da Diomede.