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Nè sono sconoscente a madri fiume,
Giuno, che avvampa di gelosa rabbia,
A questa fuga mi vestì le piume.
Non vedi tu la spaventosa labbia
Della vigilia, che mi adocchia ognora,
E far mi può che a lagrimar sempre abbia?
Ma se fermato in cielo è già ch’io mora,
E questa è pur la tua soave brama,
Vegna, vegna la mia novissim’ora.
Benchè sfregiato dell’antica fama
Mi deggia rimaner rena scoverta,
Ecco soggiorno: tu Lucina chiama.
Marte la vetta sollevò d’un’erta 19
Minacciando Penéo, che incontanente
Tutta quanta gli avria l’onda deserta.
La rotella toccò con l’asta ardente,
E quella sì rispose alla percossa
Romoreggiando spaventosamente,
Che le valli Cranonie i gioghi d’Ossa,
La montagna di Pindo e la Tessaglia
Tutta si fu per lo fragor commossa.
Non così Briareo che si travaglia
Sotto la rupe e le caverne estreme
Crollando, il fumo e le faville scaglia;
Nè la fornace Etnéa sì forte geme
Quando il martello di Vulcan l’introna,
O cadendo i treppiè cozzano insieme,
Tanto quel bronzo orribilmente suona;
Pur non mosse Penéo le piante mai
In fin che: vale, gli gridò Latona.
Non vo’ la mia cagion, che a mieter guai
Abbi da cortesia: mercede degna
A tua benigna volontade avrai.
E tragge al mare: e a qualche isole vegna
Proda non trova a’ suoi desiri molle,
Non l’ospital Corcira e non Sardegna,