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136 | capitolo vii. |
spesso citati nel 1820, le cui opere porgono argomento alle sue considerazioni di vario genere, sopra tutto storico-politiche, è il Montesquieu: ma tanto nei pensieri del 1820 quanto in quelli degli anni precedenti, specie del 1818, compaiono i nomi di parecchi altri scrittori antichi e moderni, italiani e stranieri, che probabilmente stava leggendo, o aveva letti di fresco: ne cita e discute le opinioni, ne giudica le opere. Parla di Omero, di Orazio, di Dante, del Petrarca, e con loro e per loro della poesia antica; parla del Chiabrera, del Testi, del Guidi, del Filicaia, e dalle loro poesie prende occasione ad esporre le sue idee intorno alla lirica; parla dell’Ossian, del Byron (che giudica talvolta severamente), del Goethe, del Thomas, del Bossuet (di cui sfata l’eloquenza); parla più volte, e a lungo, delle poesie del Monti.
Anche da questi fugaci accenni si capisce quale prezioso aiuto siano i pensieri dello Zibaldone a intendere l’opera letteraria del Leopardi, e lo svolgersi del suo ingegno. Se i pensieri filosofici ci spiegano la trasformazione della coscienza dell’uomo, ed i letterarii la larghezza e solidità della dottrina e la forza della mente dello scrittore, i ricordi delle cose osservate dal vero hanno pur essi la loro importanza, come quelli che mostrano quanta novità e profondità di pensieri suscitassero nella mente del poeta i più piccoli accidenti della vita comune.
La torre del borgo suonava le ore, e il Leopardi notava nello Zibaldone: «Sento dal mio letto suonare l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estivo nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. O pure situazione trasportata alla profondità della notte o al mattino ancora silenzioso e all’età consistente.» I canti notturni della gente che passa per via gli suscitavano questi pensieri: «Dolor mio nel