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«satana e le grazie» di g. prati 93

razione che fa di tutto l’insieme una sola persona ed investe di un eguale calore tutte le parti, non rimane che un lavorare a spizzico, particolare per particolare: qualitá inferiore di poesia, nella quale Vincenzo Monti per magnificenza ed uso di verso entra a tutti innanzi. L’immaginazione di Prati non si spiega in questa poesia con ugual forza: onde nasce una certa ineguaglianza di stile, mezzo tra la ridondanza e la gonfiezza, e a quando a quando semplice e pittoresco. L’Aracinto e la valle Dircèa e l’Olimpo e Giove e Venere e Pallade un tempo svegliavano nella mente cose vive, ed oggi non ci ricordano altro che i noiosi giorni di scuola, ne’ quali studiavamo mitologia. Questo mondo poetico non ha avuto alcun potere sulla immaginazione di Prati, e rimane materia morta e scolastica, nomi ed epiteti classici: in Schiller e Goethe vi è una risurrezione: sono i Cuvier del mondo mitologico; qui hai mera erudizione in versi. Or quando l’immaginazione di Prati è sonnacchiosa, l’ariditá è palliata dalla ridondanza, cioè a dire da una copia di aggettivi, di verbi, di perifrasi, che non hanno piú alcun senso: ripieni poetici; tali sono «divino» e «celeste» e «sacro» e «santo», che ti ritornano tante volte all’orecchio, «eterno», «immortale», «orrendo», «orribile», «mirabile», «possente», «augusto», ecc., e cosí: il primo turbamento fu «enorme»;

Pene non mai da senso uman sofferte,
Da umana lingua non narrate mai,
Torturar gli omicidi.

Piú spesso il poeta ha innanzi a sé una immagine confusa di forza, di violenza, di grandezza, di furore, e la sua immaginazione non ha virtú di concretare l’immagine in un gesto, in un movimento, in un particolare personale, sicché n’esce fuori una forma astratta e indeterminata, che non ti pone innanzi niente di netto e di lucido che tu possa ben cogliere, e manifesta nel poeta un istinto confuso di dover dire la tal cosa con forza senza potervi soddisfare. I tre giusti, commesso l’assassinio, fuggono