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i00 | saggi critici |
piú chiamarlo Niccolò Ugone, Io chiamavano «ser Niccoletto». Certo, un po’ di ostentazione c’era in quel suo disdegno, un po’ di posa gli era rimasta, mancavagli quella divina semplicitá nella onestá, che rende meno aspro il contrasto con la vita volgare; ma io desidererei a molti questa, chiamisi pur vanitá, che produce nella vita tutti gli effetti della virtú piú rigida. Un mondo piú elevato e nobile viveva certo nell’anima di Foscolo, e, ciò che è molto, non smentito dalla vita. Da questo mondo escono le alte ispirazioni, com’è la bellissima epistola A Vincenzo Monti:
Non te desio propiziante all’ara Della possanza in mio favor, né chiedo Vino al mio desco, o i tuoi plausi al mio verso, Ma cor, che il fuggitivo Ugo accompagni Ove fortuna il mena aspra di guai. |
In questo carme Foscolo sviluppa tutte le sue forze, e in quel grado di veritá e di misura che è proprio di un ingegno giá maturo. Quel suo sentimentalismo petrarchesco della prima giovinezza, quel suo fosco lezioso e caricato alla maniera di Rousseau o di Young, è appena un velo di mestizia sparso sopra il pensiero, che gli dá un raccoglimento e una solennitá quasi religiosa. Ti par di essere in un tempio, e che la tua anima si apra ai sentimenti piú elevati. Quella energia tribunizia, un po’ declamatoria, che senti nelle imprecazioni di Jacopo, qui acquista il tono pacato e di una forza sicura e misurata Quel suo filosofismo, malattia del secolo, e che è anche malattia di Jacopo, il quale prima di uccidersi ti dá una filosofia del suicidio, qui è altezza di meditazione profondata nelle piú intime regioni della moralitá umana. Quel suo classicismo di obbligo, una specie di abbellimento convenzionale, entro il quale la vita perde la puritá dei suoi lineamenti, qui lascia la sua faccia mitologica e diviene umano. Ilio e la Troade ci è cosí vicino, come Firenze e Santa Croce. Quella sua vasta eru-