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la nerina di giacomo leopardi 2ii


La morte è l’alto motivo tragico di questa concezione. Ti fa venire il freddo quella voce cupa dell’altro mondo, che coglie l’amante in mezzo al suo obblio e al suo delirio:

                               Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi,
E mai piú non vivrai.
               

In eterno mai piú! Questo è il motivo funebre che penetra come tossico nelle brevi gioie della vita. Le distanze sono abbreviate; gli estremi si compenetrano. Vivere è amare, e amare è morire; una triade leopardiana, sempre e tutta presente. La morte solo è; tutto l’altro è apparenza, è la vita, che in seno alla morte riapparisce come una ricordanza acerba, a maggiore strazio.

Appunto per sottrarsi a queste conclusioni tragiche, le quali furon dette prosaiche, incoronarono di fiori la tomba, e foggiarono una poesia della vita in un altro mondo. Nel Sogno tutta questa poesia è ita via, ogni lieta immaginazione umana è distrutta in nome del vero. Con la morte finisce tutto, gioventú, bellezza, amore e poesia. «Di beltá son fatta ignuda», dice la morta.

E l’interesse poetico è appunto nella profonda e straziante impressione che fa sull’anima questa morte di ogni poesia, un sublime negativo. Il povero cuore umano voleva questa poesia; Leopardi lacera e schianta il cuore, annichila l’immaginazione, ti precipita nell’eterno vuoto. Maggior catastrofe non ha immaginato nessuno. È la tragedia non di questo o di quello; è la tragedia del genere umano. È l’ultima poesia, una poesia fondata sulla morte della poesia, e che appunto in questa impressione funebre raggiunge i suoi fini estetici.

È chiaro che in questa concezione spaventosa la donna tiene il principal luogo. Lo sparire della donna è lo sparire della bellezza e dell’amore. Essa è il motivo elegiaco della poesia, come l’uomo è il suo motivo tragico. La rassegnazione di Saffo raddolcisce la disperazione di Bruto. C’è soavitá nella tristezza femminile, «soave e trista».