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ii4 saggio critico sul petrarca


Questa fiacchezza l’umilia; gli pare che tutti gliela leggano sul viso, ed appunto perché gli pare, arrossisce, ed il rossore l’accusa:
                                    E sento ad or ad or venirmi al core
Un leggiadro disdegno, aspro e severo,
Ch’ogni occulto penserò
Tira in mezzo la fronte, ov’altri ’l vede.
     

Conoscere il male e non potere evitarlo, deliberare sempre e non conchiuder mai, è l’ultimo grido della canzone, è il ritratto del Petrarca:

                                         Canzon, qui sono; ed ho ’l cor via piú freddo
Della paura, che gelata neve.
Sentendomi perir senz’alcun dubbio;
Che pur deliberando, ho volto al dubbio
Gran parte ornai della mia tela breve:
Né mai peso fu greve
Quanto quel ch’i’ sostegno in tale stato;
Che con la morte a lato
Cerco del viver mio novo consiglio,
E veggio ’l meglio ed al peggior m’appiglio.
     
La riflessione qui entra come elemento negativo, non a raffreddare il sentimento con la sua preponderanza, ma a concitarlo col suo contrasto. Perché è un inutile riflettere, buono solamente a dare al poeta coscienza della sua miseria. Ci è qui il presentimento di quella tragedia dell’anima, di quella scissura tra il pensiero e l’azione, che i moderni hanno portato fino all’umore: una specie di malattia sublime, sconosciuta a’ tempi primitivi. Dico presentimento, perché per la sua natura superficiale e mobile il Petrarca non riman fisso in questo indirizzo: lo percorre e non lo penetra, se ne sente scottato, e non lo guarda, non l’interroga.

Nondimeno, questa canzone si può considerare come una nuova e grande apparizione nella storia della poesia, sí per la natura del concetto e si per la finitezza della forma. Le imma-