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viii. situazioni petrarchesche | i53 |
racconti le cose piú strazianti con semplicitá, senza aggiungervi alcuna osservazione, ma la sua faccia è pallida e sulle labbra è morto il riso:
Solo e pensoso i piú deserti campi Vo misurando a passi tardi e lenti; E gli occhi porto, per fuggir, intenti, Dove vestigio uman l’arena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi Dal manifesto accorger delle genti; Perché negli atti d’allegrezza spenti Di fuor si legge com’io dentro avvampi: Si ch’io mi credo ornai che monti e piagge E fiumi e selve sappian di che tempre Sia la mia vita, ch’è celata altrui. Ma pur sí aspre vie né sí selvagge Cercar non so, ch’Amor non venga sempre Ragionando con meco, ed io con lui. |
E difficile trovare un sonetto cosí pieno di cose, e che con si poca ostentazione di passione sia piú appassionato. Nella misura lenta e grave de’ due primi versi sentite il suono monotono e tristo del passo; quegli occhi spaventati che fuggono ogni vestigio di piede umano ti rivelano, con una immagine che illumina tutta la faccia, l’amarezza dell’anima ferita, sazia e disgustata del mondo; e vedete se in quegli «atti d’allegrezza spenti», frase cosí originale, cosí energica di costruzione, non si nasconde piú dolore che in tutta una «notte» di Young. Ma quest’uomo ha abbracciato la solitudine per disperazione, vi ha portato tutti i pensieri del mondo, e l’amore, attaccatosegli dietro, ve lo persegue. E tutto questo detto con tranquillitá, sotto cui giace la tempesta. Mai il poeta non si è tanto avvicinato alla nuditá antica, vale a dire a quello stile tutto cose, recisa ogni espressione di sentimento, a quello stile di marmo, che tanto ti spaventa nel Machiavelli. Nel Petrarca, poeta della forma, è un momento passaggiero, che esprime un dolore concentrato, di cui non sa assegnar la causa, una desolazione muta, senza sfogo. Confesso che di tutt’i suoi sonetti nessuno mi com-