Pagina:Doni, Anton Francesco – I marmi, Vol. I, 1928 – BEIC 1814190.djvu/259

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ragionamento della poesia 253


Baccio. Una grande onestá: oh egli non c’è figura né parola, per quel che io veggo, che non sia onestissima e buona!

Giuseppe. Cosí si fanno l’opere. Ora vedete questa feminetta tutta malinconosa, sola, abandonata, mesta e affitta che parole ella dice:

  •   Che pena si può dire

piú grande che morire?

e passa ogn’aspra sorte,
che mai punto raffrena,
ma cresce ognor piú forte;
io vivo, ed ogni dí provo la morte.
Dunque è maggior martire
chi vive in doglia e mai non può morire.

Baccio. Lascia fare ai musici! so che troveranno delle parole a lor proposito.

Giuseppe. Io, che fo qualcosa, ancóra non mi so risolvere se le debbo dar fuori alla stampa o no; e pur son parecchi anni che io l’ho fatte. Che dite voi di questi che, súbito che fanno un’opera, la publicano?

Baccio. L’opinione degli antichi è stata cotesta, di serbar le cose alcun tempo e poi giudicarle di nuovo e racconciarle, perché con quel tempo il giudizio si fa migliore; alcuni moderni le dánno a giudicare ad altri e poi le mandano alla stampa; ma perché Seneca dice a Lucilio che uno che dice l’opinion d’altri non dice mai nulla di suo e che egli non è differenza alcuna dal libro a chi parla, io ci voglia aggiugner la mia. S’io componessi (che Dio me ne guardi, perché farei due mali, uno a non esser riconosciuto delle mie fatiche, l’altro d’esser sindacato dagli ignoranti) con una naturale inclinazione, o fusse verso o prosa, vorrei, infin che dura la vena e lo spirito del dire, sempre scrivere e darle alla stampa senza mostrarle mai ad alcuno.

Giuseppe. Questa sarebbe una nuova bizzarria.