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Pagina:Il buon cuore - Anno IX, n. 38 - 17 settembre 1910.pdf/5

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IL BUON CUORE 301


di Colombo deve pensarla così». Grande influenza sulla vita intima dell’ex-ministro ebbe la sorella, donna di altissimi sensi, alla quale egli era legato da un’affezione veramente commovente. Ho letto io una lettera che il compianto senatore scriveva a lei non molti anni fa da Genova in termini tenerissimi. «Tu che sei lontana dal chiasso della metropoli — scriveva il Morin alla sorella che villeggiava presso un’amica in Piemonte — potrai vivere un po’ più di quella vita intima che io amo tanto e che ho vissuto nelle lunghe notti sul mare. Io ti invidio. Il silenzio della campagna è alto e solenne quasi quanto quello del mare e ci è dato da Dio perchè ci ricordiamo un po’ di noi stessi dopo esserci per tanto tempo distratti a pensare agli altri».

CONSUETUDINI CHE SI PERDONO


Il rifugio prediletto


Sono ormai rarissimi quelli che vivono tutto l’anno in una solitudine composta secondo i loro gusti e i loro bisogni, rari quelli che dopo nove mesi di lavoro tornano con abitudine non interrotta al medesimo romitaggio e vi passano tutte le vacanze.

Il bisogno della meditazione o del raccoglimento, di vivere in se stessi e non negli altri, di scrutare nella calma la propria anima ed ascoltare fra il silenzio della natura, le voci più profonde e dare una forma limpida alle grandi verità che fra la vita tumultuosa lampeggiano e spariscono, il bisogno di isolarsi per sentirsi, è ormai molto raro. Pochi sanno quale aiuto sia a scoprire gli angoli più nascosti del proprio spirito, il tornare ogni anno per qualche mese nel medesimo luogo, in un recesso reso famigliare dalla lunga consuetudine. Là ogni oggetto è noto; quindi all’anima non giunge dall’esterno nessun eccitamento a disciogliersi dall’introspezione.

Chi di noi può dire che cosa egli vale, che cosa egli, sa, quale è la sua potenza scrutatrice, se non si allontana di quando in quando dal mondo, se non cessa dalla febbre di conoscere il prossimo e il di fuori e non si rifugia di tratto in tratto in sè?

Il ripiegarsi dell’anima su sè stessa pare ormai incompatibile col rifiuto della nostra esistenza. L’età cristiana che s’è aperta con tanto ardore di contemplazione e di raccoglimento, sembra finita. Non ci sono più spiriti che facciano delle vere confessioni. È cessato anche l’ultimo eccitamento a questo; il romanticismo. La malinconia è esulata dai nostri cuori, spaventata dai dileggi dei forti e dei cantori della civiltà meccanica: alla malinconia che si apparta e si scruta e si compiace di sè, è succeduta la nevrastenia che, mancandole la serenità necessaria per gustare l’amaro piacere della tristezza osservata in ogni sfumatura, cerca di piacersi cogli eccitamenti e finisce col suicidio.

Così noi diventiamo superficiali, mobili e senza profondità, come le nostre macchine. La nostra vita si esaurisce quasi tutta nelle relazioni col mondo.

Ognuno di noi sente il bisogno di leggere ogni giorno, anche a più di duemila metri, un grande giornale, e
senza questa lettura a nessuno di noi pare di essere veramente vivo; ma pochi di noi sentono il bisogno di leggere ogni sera il giornale della loro anima. Noi perdiamo così una parte del senso della nostra individualità, e la più preziosa: l’anima deve vivere anzitutto di se stessa, poi degli altri. È proprio vero che è più importante sapere quali sono i rapporti fra la Spagna e il Vaticano, che sapere qual’è il nostro atteggiamento di fronte a un problema dello spirito, di quali sentimenti, di quali pensieri siamo capaci? Io vorrei conoscere l’uomo colto che sa rinunciare, senza rimpianti, per due mesi alla lettura dei giornali: quello dovrebbe avere una potenza di vita interiore ben singolare. In tre giorni si riacquistano le notizie perdute in due mesi di astinenza dalle gazzette; ma tre giorni all’anno non basterebbero per scoprire la propria anima.

Se la nostra letteratura si arresta quasi tutta all’apparenza delle cose e degli nomini o si accontenta di rimaneggiare verità acquisite, molta colpa ne ha questa nostra vita troppo sociale. Il romanziere che non conosce se stesso, non conosce nemmeno il prossimo. Ricordo che qualcuno si maravigliò che il Manzoni, con una così scarsa esperienza del mondo, sia penetrato così addentro nell’indole de’ suoi personaggi: è una meraviglia che non ha ragion d’essere: ognuno di noi ha in sè, in germe o sviluppati, tutte le tendenze e tutti i sentimenti umani: quindi chi conosce bene il suo cuore, si profonda con pochi sguardi in quello del prossimo. La vita sociale scompagnata dall’abitudine della meditazione su se stessi, basta appena a conoscere le occupazioni e le consuetudini degli uomini, non a sentirne le passioni e a scrutare le cause delle loro azioni.

La vita in mezzo al mondo lascia troppo poco tempo per la scoperta di verità che vogliono invece molto agio o molta tranquillità per essere svelate. Ciascuno di noi per poca tendenza che abbia alla riflessione, può ricordarsi d’avere intravveduto qualche volta, per lo stimolo d’un caso improvviso, di un forte dolore, d’una grande gioia una verità superiore a quelle che si sogliono dire nei salotti o nelle passeggiate cogli amici; ma egli è rimasto solo un momento non basta perchè una verità balenata si formi in un’espressione limpida.

Al desiderio di conquistare queste verità psicologiche nascoste è sottentrato in noi il desiderio di accumulare il maggior numero possibile di sensazioni e di verità pratiche. Ma il cambio è tutto in perdita. Le verità pratiche sono le verità delle scienze positive; e tutti sanno che non c’è scienza più provvisoria d’una scienza positiva.

Ora noi vogliamo esperimentare non noi stessi, ma il mondo, il più possibile. Perciò un rifugio ci pare angusto, ci pare una prigione. Uno Xavier De Maistre che scrivesse ora il suo «Voyage autour de ma chambre» ci parrebbe poco concepibile. La nostra anima s’è istirilita: essa non trova più in se stessa una fonte abbastanaa abbondante per vivere.

Noi passiamo nove o dieci mesi a trafficare o a lottare cogli uomini, e quando giunge l’ora del riposo, il