Pagina:L'asino d'oro.djvu/11

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DELL'EDITORE XI

    Del lor crudele amore,
    Mostrar lo può la tavoletta posta,
    E le vesti ancor molli
    Sospese al tempio dell’orrendo Dio
    Di questo mar crudele.

Si vede da quest’esempio, che non è però il fiore de’ suoi versi, com’egli si lasciasse andare e non facesse gran caso della poesia. Egli forse rivolgeva a lei il detto di Voltaire sulla prosa all’amico che l’interrompeva: Entrez, entrez, je ne fais que de la vile prose.

Il Bianchi dice esser fama che il Firenzuola, il quale, morto Clemente VII avea lasciato Roma per la Toscana, dove se la passava or a Prato or in Firenze, tornasse in quella metropoli verso il 1544 e vi morisse non molto dopo e fosse sepolto in santa Prassede.

Il Giordani, che non credeva ai miracoli, chiamò miracoli di versione italiana l’Eneide del Caro e il Tacito del Davanzati; e per terzo metteva il Terenzio del Cesari; ma questo va col Papa miracolo, che egli aveva salutato all’amnistia e alle riforme di Pio IX. Il vero terzo miracolo è l’Asino d’oro del Firenzuola, il quale avendo a mano quell’africano romanizzato di Apuleio, e quel suo dire accartocciato come gl’intagli del Bernino, e con prunaie ben più intralciate che gli stillamenti di Tacito lo recò ad una soavità, ad una morbidezza, talor forse troppo svenevole; ma con tale trasformazione che Ovidio non che Apuleio sognò mai l’eguale: furono veramente le rose dell’italico dire che dell’irto latino fecero il grazioso e soave toscano, dell’istrice un armellino. E s’egli mise Agnolo in luogo di Lucio, n’ebbe ben ragione, e nessuno vorrà dargliene biasimo, o tassarlo di presunzione.