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La Sicilia nella Divina Commedia 21


Dei poeti della scuola sicula, che scrissero rime in volgare, nella D. C. si ricorda come tale il solo Giacomo da Lentini, che vi è chiamato antonomasticamente il Notaro (Purg. XXIV, 55 sgg.); qui è posto nel sesto cerchio di quelli che purgano il peccato della gola, in compagnia di Guittone e di Buonagiunta, fra i poeti che rimasero al di qua del dolce stil nuovo, e che perciò per manco d’ispirazione non riuscirono a conseguire vera eccellenza di arte lirica1. Federico II e il suo segretario Pier della Vigna (Inf. XIII, 58 sgg.), altri poeti di codesta scuola de’ principali siciliani, che coltivarono il volgare illustre, cortigiano (De vulg. el. I, 12), hanno pure un posto importante nel poema dantesco, però non come poeti, ma come personalità storiche2.

Gli accenni geografici e scientifici attinenti alla Sicilia sparsi nella D. C. ci mettono un’ultima volta in grado di giudicare delle molteplici, varie e precise cognizioni possedute dall’Alighieri; del resto tutti sanno quanto ai nostri giorni siasi studiato quest’altro aspetto della sua vasta dottrina, l’aspetto cioè scientifico, e quanto dalle recenti ricerche sia maggiormente in lui rifulso il geologo, l’astronomo, il fisico, il matematico, il geografo.



  1. Dante porta qui tale giudizio avendo il pensiero a tutta l’arte del Notaro, che fu di pretta imitazione trovadorica (Val. I, 249-319; cfr. L. Biadene, Morfologia del Sonetto nei secc. XIII-XIV, Roma, Loescher, 1888, p. 213); però nel De vulg. el., I, 12 ricorda una sua canzone elogiandone la lingua.
  2. Dante (De vulg. el. I, 12) loda il volgare illustre dei poeti Siciliani perché migliore degli altri volgari d’Italia, ma non lo crede degno di essere tentato quale lingua della nazione; non è bello però quello usato dalla plebe, ad esempio del quale ricorda il Contrasto di Ciullo. Tra i poeti illustri (Ecl., II, 31), oltre Federico, il suo figlio Manfredi e Pier della Vigna, menziona Guido delle Colonne (De vulg. el., II, 5), di cui riporta il primo verso della canzone «Amor, che longiamente m’hai menato» (D’Anc. CCCV) e l’altra «Ancor che l’aigua per lo foco lasse» (Val. I, 185). Vedi intorno a questi poeti ed al volgare siciliano, ma con concetti ora quasi del tutto smessi, in Vigo (Op. cit., in Riv. sicula, vol. II, p. 515; III. 51-55, 317-19); del volgare siciliano rispetto ad alcuni luoghi della D. C. scrissero parecchi (cfr. Ferrazzi, Man. dant. V, 285 sg.).