Vai al contenuto

Pagina:Leopardi, Giacomo – Canti, 1938 – BEIC 1857225.djvu/181

Da Wikisource.

dediche, notizie, annotazioni 175


[III]

Giacomo Leopardi

al conte Leonardo Trissino

Voi per animarmi a scrivere siete solito d’ammonirmi che l’Italia non sarà lodata né anco forse nominata nelle storie de’ tempi nostri, se non per conto delle lettere e delle sculture. Ma da un secolo e piú siamo fatti servi e tributari anche nelle lettere, e quanto a loro io non vedo in che pregio o memoria dovremo essere, avendo smarrita la vena d’ogni affetto e d’ogni eloquenza, e lasciataci venir meno la facoltà dell’immaginare e del ritrovare, non ostante che ci fosse propria e speciale in modo che gli stranieri non dismettono il costume d’attribuircela. Nondimeno restandoci in luogo d’affare quel che i nostri antichi adoperavano in forma di passatempo, non tralasceremo gli studi, quando anche niuna gloria ce ne debba succedere, e non potendo giovare altrui colle azioni, applicheremo l’ingegno a dilettare colle parole. E voi non isdegnerete questi pochi versi ch’io vi mando. Ma ricordatevi che si conviene agli sfortunati di vestire a lutto, e parimente alle nostre canzoni di rassomigliare ai versi funebri. Diceva il Petrarca: «ed io son un di quei che ’l pianger giova». Io non dirò che il piangere sia natura mia propria, ma necessità de’ tempi e della fortuna.