Pagina:Luisa Anzoletti - Giovanni Prati, discorso tenuto nel Teatro Sociale la sera dell'11 novembre 1900 per invito della Società d'abbellimento di Trento, Milano 1901.djvu/26

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sè (e forse l’ha già veduto), che un sommo poeta lirico, nel suo innato ed essenzial dono, che è l’ispirazione, mai non presenta un anello di concatenamento, anzi rompe la catena tradizionale, onde si perpetua nella letteratura una data varietà della specie poetica.

Così è del genio lirico del Prati, che nè di ereditario, nè di composito, nè di amalgamato, come genio lirico inventivo — si badi bene, dico come genio lirico inventivo, non come artefice del verso — non presenta in sè alcun segno. Di tutte le cose ch’egli mira e intende, non assorbe se non quello che viene spontaneo dal mar palpitante dell’essere ad accarezzare i suoi occhi e l’anima sua armoniosa. Egli non ha bisogno d’andare in cerca della bellezza; la bellezza dell’universo corre a lui da sè, desiosa ch’ei la contempli e le dia una loquela. E in questo egli, per la sua orfica virtù, ha nell’universo della sua fantasia un impero ben più felice che non i grandi poeti pensatori e gl’inarrivabili artisti della melopea, quali un Foscolo, un Leopardi, un Monti; ben più felice che non l’avesse la stessa incommensurabil mente filosofica di un Manzoni, poeta dell’infinito. Io non ardirei mai di cercar le ragioni dell’arte pratiana, la quale fuori del suo magico cerchio non conserva più il suo prestigio, paragonando il tridentino aedo a questi sovrani epigoni della famiglia dantesca. Ma bensì ardirò dire, che in questi e in altri poeti sovrani, attentamente cercando, trovo le affinità ereditarie, in ciò ch’essi hanno derivato alla propria natura, ai proprio genio, dai loro predecessori; in ciò che si sono dalle opere di questi assimilato, non nell’attitudine solo dell’elaborazione materiale, ma altresì nell’attitudine del concepire, nelle stesse forme embrionali del pensiero. Scorgo in que-