Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/149

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sotto la madonnina del duomo 71


pareva toccarla col dito, la cupola della chiesa di S. Lorenzo con que’ frenetici angeli del seicento e le pire con le pazze fiamme di marmo, disposte attorno al cornicione. Di lassù si vedeva lungi la linea pura della guglietta del Duomo con la Madonnina d’oro, la quale guglia sollevandosi ben alta e bianca sopra il mare dei tetti sconvolti, sembra un altare votivo offerto alla Vergine pura in isconto delle impurità che sotto di lei si commettono; ed Ella solleva le braccia e il volto supplice al Padre, come adire: «Staccami da qui e accoglimi in cielo!»

Si vedeva l’Arco della Pace, con quei cavalli che per lui, Ambrogino, rappresentavano l’espressione ultima e perfetta dell’arte plastica, tanto da dispensarlo da ogni altro studio o confronto in materia d’arte; e se era sereno, si scopriva il verde dei prati lontani che si ritraggono indietro, conquistati dall’assalto che loro muove l’ardore edilizio dell’immensa città infaticata.

Qualche volta, o gioia insperata, si scopriva anche la cresta del Resegone, proprio rimasta eguale a quella che descrive il Manzoni.

Don Ambrogino, benchè inquilino solo, lassù sui tetti, si sentiva con grandissima soddisfazione, non soltanto parte, ma comproprietario e, con la sua scheda elettorale, arbitro di quella grande città che gli era, per così dire, sottoposta.

A conferma di questi diritti, privilegi o benefici che dir si vogliano, egli usava, ogni mattino presto, di farsi trasportare dalla piazza del Duomo sino a Loreto, come un grande signore, in uno di quei magnifici carrozzoni elettrici che passano folgorando e rintronando che pare la gloria di Dio; e sono più di quattro chilometri; e con quale spesa? Con soli cinque centesimi.

Questa gita gli serviva eziandio per far le sue provviste di carne, di caffè e di altri commestibili, i quali abilmente incartati e sepolti in certe tasche recondite,